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sabato 26 dicembre 2020

La “Trilogia della vita” 6) Il Decameron Il Film - di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Qui l'indice del lavoro


Il Decameron  
Il Film
2.0. La struttura.

"Per legare assieme le diverse novelle, ho proceduto secondo questo sistema:
ho conservato l’ordine cronologico del Boccaccio, formando due blocchi. Il primo è legato al montaggio alternato della novella di Ciappelletto. Il secondo è legato dal montaggio alternato della novella sull’Allievo di Giotto. Tra questi due blocchi, abbastanza compatti, c’è un intermezzo costituito dalla novella di Alibech, e girato nello Yemen."

Le novelle che compaiono nella forma definitiva del Decameron sono dieci, essendo stato tagliato in fase di montaggio l’episodio di Alibech che inizialmente, come si è visto, doveva costituire una sorta di passaggio tra la prima e la seconda parte. Inoltre la novella delle "brache del prete" è inserita all’interno dell’episodio di Ciappelletto come il racconto di un vecchio ad un crocchio di persone.
La cornice del Decamerone è interamente soppressa; al suo posto abbiamo i due macro-episodi di Ciappelletto nella prima parte e dell’Allievo di Giotto nella seconda. Il primo non può essere considerato una cornice vera e propria, poiché non introduce i singoli episodi attraverso una procedura di «racconto nel racconto» (con la parziale eccezione della novella summenzionata delle "brache del prete" e "l’assonanza" tra quest’ultima e il successivo episodio di Masetto nel convento) ma si limita a scandirne la successione attraverso l’inserzione dei vari episodi della vita di ser Ciappelletto; il secondo macro-episodio dell’Allievo di Giotto, invece, può essere considerato, con qualche approssimazione, come una cornice, perché tutti gli episodi, come si vedrà, sono in qualche modo collegati al macro-episodio, sia indirettamente, attraverso concordanze "a senso" o corrispondenze figurative, sia direttamente, come nel caso dell’episodio de "l’usignolo" e di donno Gianni, quando i personaggi vengono visti dall’Allievo di Giotto (Pasolini stesso) subito prima dell’inizio (o durante l’inizio) del singolo episodio, in modo tale che il macro-episodio acquista, perlomeno, una funzione introduttiva nei confronti degli altri momenti del film.


I Parte - Ciappelletto

La struttura generale dell’articolazione degli episodi può essere riassunta in questo modo:

I. Ciappelletto (I, 1) - I parte -
(Ciappelletto uccide un uomo)
II. Andreuccio (II, 5)
Ciappelletto – II parte –
III. (Ciappelletto ruba e corrompe un ragazzino)
Racconto delle "Brache del prete" (IX, 2)
IV. Masetto (III, 1) "Assonanza"
V. Peronella (VII, 2)
VI. Ciappelletto – III parte –
(Ciappelletto muore nella casa degli usurai)
[Intervallo – Alibech (III, 10) ]

II Parte – L’Allievo di Giotto
VII. L’Allievo di Giotto (VI, 5) – I parte –
(L’Allievo di Giotto sorpreso dalla pioggia arriva a Napoli ed inizia l’affresco)
VIII. "L’usignolo" (V, 4) (L’Allievo di Giotto al mercato)
IX. L’Allievo di Giotto – II parte –
(L’Allievo di Giotto diserta la mensa per correre a dipingere)
X. Lisabetta (IV, 5)
XI. Donno Gianni (IX, 10) (L’Allievo di Giotto vede i due uomini)
XII. L’Allievo di Giotto – III parte –
(Durante i lavori)
XIII. Tingoccio e Meuccio (VII, 10) – I parte –
XIV. L’Allievo di Giotto – IV parte –
(L’Allievo di Giotto ha una visione)
XV. Tingoccio e Meuccio – II parte –
XVI. L’Allievo di Giotto – V parte –
(L’affresco è finito)

Nell’intervento citato più sopra, infine, Pasolini affermava di aver conservato l’ordine cronologico del Boccaccio nella successione degli episodi; come si vede, invece, questa affermazione è confutata dal loro ordine effettivo; forse quest’ultimo fu cambiato in un secondo momento oppure Pasolini, nell’intervista, non si riferiva ad un ordine cronologico seguito in maniera rigorosa.

2.1. Ciappelletto (I, 1)
I Parte –

L’episodio si apre con Ciappelletto che uccide, in una stanzetta buia, un uomo legato dentro ad un sacco; la m.d.p. segue da vicino (con una m.f. frontale) l’azione del protagonista che percuote l’uomo ai suoi piedi; la violenza dell’omicidio, però, è come racchiusa all’interno della metodica ritmicità con cui il delitto viene compiuto: Ciappelletto, molto probabilmente, sta eseguendo una commissione, quindi le bastonate con cui colpisce il malcapitato - che lo implora inutilmente per un attimo - ed il colpo di grazia inferto con il grosso masso sono sì furiosi, ma senza ira, come distillati da ogni passione, da ogni coinvolgimento emotivo, fanno parte del "mestiere". I campi medi successivi che inquadrano Ciappelletto che porta il sacco con il cadavere fuori della stanzetta (da notare il campo-controcampo sulla scalinata che conduce verso l’esterno) e quindi, attraverso le vie tortuose del borgo, fino ad una ripa scoscesa, sembrano ritrarre un uomo al lavoro, un qualsiasi facchino che porta un sacco sulle spalle, confermando l’impressione di "routine" e di indifferenza che l’omicidio aveva destato. La fine della sequenza inquadra uno strapiombo con, sullo sfondo, le torri della città in controluce che si stagliano su un’alba blu-arancione e, infine, un ultimo p.p. del viso di Ciappelletto che, illuminato dai bagliori rosso fuoco del sole che sorge e rabbiosamente stravolto in un'espressione luciferina, sputa con disprezzo dopo aver gettato il sacco nel burrone. Queste ultime inquadrature sembrerebbero confutare, grazie all’ambientazione "infernale" – la città sembra una Dite che brucia nell’alba – e allo sguardo carico d’odio di Franco Citti, quanto detto finora sul "distacco professionale" dell’assassinio su commissione. Ma collegando questo p.p. frontale con quello di ser Ciappelletto sgomento (subito dopo la sequenza- tableau vivant del "popolo del Nord" e subito prima del pranzo con gli usurai) nell’ultima parte dell’episodio (vedi oltre), lo sputo e la smorfia dell’assassino subiscono una notevole dilatazione semantica. Alla canagliesca manifestazione della propria "dritteria" per "averla scampata" e del proprio disprezzo nei confronti dell’assassinato – conforme al codice d’onore della malavita – suggerita da una prima, ovvia, lettura del testo filmico, si potrebbe aggiungere, retrospettivamente e per stratificazione, l’immagine di un Ciappelletto che spalanca gli occhi inorridito e rabbioso di fronte all’abisso che gli si spalanca davanti (si ricordi l’immagine della "città in fiamme"), l’abisso della crudeltà satanica ed ontologica che lo accompagna inesorabilmente con l’infamante "marchio di Caino" dell’omicida e del reietto. Lo sputo ed il viso paonazzo potrebbero dirsi gonfi di quella "trista vergogna" di cui si tinge il viso di Vanni Fucci – "uomo di sangue e di crucci" – nel XXIV canto dell’inferno, quando viene posto, da Dante, di fronte al proprio crimine e alla propria condizione. Ciappelletto, invece, è solo di fronte a se stesso, non c’è chi lo rampogni sarcasticamente, ma non c’è nemmeno posto per il rammarico o per la disperazione assolutoria; ma solamente la spietata e terribile coscienza del peccato, senza il pentimento.

Ciappelletto possiede sì la crudeltà e l’empietà di un demone, ma anche la sua solitudine.

II Parte -

Come è già stato detto, la seconda parte dell’episodio di Ciappelletto contiene la narrazione della novella delle "brache del prete"; raccontata da un vecchio in mezzo ad una folla sorridente e "tradotta" nel linguaggio, solo parzialmente verbale, di chi lo ascolta: il linguaggio sapido, carico della materialità e della grevità delle cose, ma anche della vita, posto di fronte all’esemplarità e alla trasfigurazione della pagina letteraria. In Boccaccio, la novella si distingue per la leggerezza e la gioiosa freschezza che accompagna la liberatoria irrisione dell’ipocrisia e degli infingimenti che frustrano l’appagamento della sessualità nel convento di suore; in Pasolini, invece, la materia del racconto subisce una sorta di degradazione che trasforma ciò che era liberatorio e gioioso nella ghignante consapevolezza di chi vive, al di là di ogni liberazione, nel pieno possesso della propria corporalità.
A margine del racconto s'inserisce la sequenza del furto di Ciappelletto ai danni di uno spettatore del contastorie, e dell’adescamento di un ragazzetto per mezzo del frutto del borseggio. Se si confronta l’azione con il racconto (nonostante il degradamento di cui si è parlato) e se, soprattutto, la sequenza viene collocata, al pari di quella dell’omicidio, all’interno del ritratto di un uomo irrimediabilmente "marchiato", si comprende come anche l’omosessualità del protagonista possa rientrare nella sfera del suo peccare e della sua esclusione e, quindi, come dalla programmatica esaltazione del corpo e del sesso sia escluso, almeno in questo caso, il rapporto omoerotico.

III Parte –

Il ritratto che Pasolini fa di Musciatto Franzesi all’inizio della terza parte dell’episodio, assieme a quello dei due usurai, può essere emblematico di quanto si è detto a proposito dei modi in cui la specificità borghese, quando ha modo di emergere, viene assimilata nell’universo sociale del film. In Boccaccio la figura di Musciatto, seppur appena delineata, è paragonabile a quella dei potenti a cui offre i suoi servigi, avendo quella certa connotazione carismatica (nel bene e nel male) che caratterizza, in genere, i grandi della terra presenti nel Decamerone. In Pasolini, al contrario, il "ricchissimo e gran mercatante […] cavalier divenuto" che alla spregiudicatezza e alla rapacità unisce l’acume e il pragmatismo del principe machiavelliano, è declassato negli umili panni di un qualsiasi messer Muscia’ laidamente deformato nel corpo e nella fisionomia da un’avidità volgare e viziosa.
Lo spirito grottesco di Pasolini diviene più corrosivo, nel corso dell’episodio, quando si trova di fronte i due usurai che ospitano Ciappelletto; questi aggiungono alla cupidigia di Musciatto l’ipocrisia di chi delega al "malvagio" e al "segnato" l’esecuzione materiale dei crimini necessari al buon corso dei loro affari. Significativa in questo senso è la scena del pranzo di Ciappelletto in casa dei due ospiti: mentre questi godono "dell’efficienza" del loro conterraneo (sono tutti napoletani) esaltandone, e nello stesso tempo riprendendone ipocritamente, la violenza e la spietatezza, Ciappelletto, inquadrato frontalmente in p.p., sbotta improvvisamente vomitando insulti sui due compari: «Sanguisughe. Vermi ‘e camposanto. […] Pidocchiosi. Ommeni ‘e merda.» ed infine: «Usurai!» (sputando) - ricordando, sia pur in maniera esteriore, l’inquadratura della prima parte (sempre in p.p. frontale) di cui ho già parlato. I due, messi di fronte alla realtà disvelata della loro professione, reagiscono agli insulti del loro commensale atteggiando i loro volti ad una sorpresa scandalizzata; fino a che lo stesso Ciappelletto, dichiarando di stare "pazziando", scioglie la questione con un assolutorio "vulimmose bene".
Un’importanza particolare riveste l’inquadratura di Ciappelletto in p.p. frontale, a cui ho già accennato, che segue la sequenza bruegheliana sulla malvagità e sulla follia del "popolo del Nord" e che precede la scena del banchetto. In questo p.p. silenzioso – che dura 6’’ – Franco Citti, guardando di fronte a sé ma non verso la m.d.p., spalanca gli occhi come inorridito di fronte ad uno spettacolo terribile; per poi addolcire impercettibilmente lo sguardo in un'espressione rassegnata ma comunque sgomenta. Il p.p. è montato, senza nero o dissolvenze, sul dettaglio del teschio che viene retto, con una pala da forno, dalla giovane donna con il cesto sulla testa; ma sicuramente non appartiene alla sequenza del tableau vivant, poiché quest’ultima è girata in esterno giorno mentre il p.p. è palesemente in interno giorno. Quest’ultimo elemento – aggiunto al fatto che Franco Citti indossa lo stesso abito e che lo sfondo scuro è identico a quello delle inquadrature successive – potrebbe far pensare che l’inquadratura appartenga alla scena del banchetto; ma la sua natura enigmatica e, come dire, "sospesa" e il fatto che ad essa segua l’esterno giorno con le due serve che entrano, camminando su un ballatoio, nella sala da pranzo (implicando quindi un passaggio di tempo), tendono ad isolare l’inquadratura dal resto dell’episodio caricandola di senso ed affidandole, in un certo qual modo, la funzione di commento o di "meditazione"; in maniera analoga, ad esempio, ai vari campi lunghi di Cecafumo in Mamma Roma che, avulsi dal fluire della storia, la scandivano e la commentavano. Questo p.p. – evidenziato, dunque, dalla sua collocazione e dalla sua ambiguità – potrebbe apparentemente esprimere, in quel punto dell’episodio, l’orrore di Ciappelletto di fronte alla diabolica natura di quel "popolo del Nord" che Musciatto gli aveva prefigurato: il terribile sicario ha finalmente trovato nella folle «anomia» di un Trionfo della Morte qualcosa che superi, incommensurabilmente, la sua crudeltà. Interpretando l’inquadratura in questo modo, però, si rischia di limitarne – in senso semantico e all’interno dell’economia dell’episodio – l’importanza e la profondità; infatti, come ho già avuto modo di dire, questo p.p. può essere collegato biunivocamente con la smorfia d’odio di Ciappelletto nella prima parte: come quel p.p. poteva esprimere la "trista vergogna" dell’irredento di fronte a se stesso, così questo può significare l’atroce, ma dolcemente rassegnata, contemplazione dell’abisso di sofferenza e di morte che si apre, come un’onirica malebolgia dell’animo, davanti agli occhi del "grande peccatore". Inoltre, collocato com’è prima del banchetto, questo p.p. precede il "momento della morte", ovvero lo svenimento che precede l’agonia a letto, prefigurato, nell’inquadratura immediatamente precedente, dal dettaglio del teschio sorretto dalla giovane donna.
Più sopra ho richiamato, facendo un paragone, un elemento del secondo film di Pasolini: Mamma Roma; un’altra analogia, ben più forte e affascinante, esiste anche tra il Decameron e Accattone, l’esordio cinematografico del regista. Mi sto riferendo al confronto fra lo svenimento di Accattone, invitato dai papponi napoletani all’osteria del Pigneto, e la sequenza dello svenimento di Ciappelletto al banchetto degli usurai. Questa analogia è data innanzitutto da alcuni elementi esteriori: l’identità dell’attore protagonista, la "compagnia" costituita da napoletani - malavitosi sottoproletari da una parte e usurai borghesi dall’altra - la canzone "Fenesta ca’ lucive" cantata da Ciappelletto assieme ai due commensali prima di svenire e, parallelamente, da uno dei papponi durante il tragitto verso l’osteria in Accattone, ecc.. Inoltre si possono trovare, sotto un certo punto di vista, alcune consonanze fra le tematiche di fondo del primo film e quelle di questo episodio. La vicenda di Accattone può essere vista, molto sbrigativamente, come il dibattersi, tragico perché vano, di un individuo attratto inesorabilmente nella vertigine oscura dalla "necessità della morte": Accattone ha impresse su di sé, fin dalle prime sequenze, le stimmate della sua Todestriebe solitaria ed assoluta. Anche Ciappelletto, come si è visto, risulta "segnato" nelle primissime inquadrature, ma forse la sua "Triebe", più precisamente che verso la morte, è verso il peccato e la dannazione. La sua vicenda, inoltre, non è assolutamente tragica: Ciappelletto non è scisso nell’animo - non si ribella ma si limita a pazziare - non c’è dissidio tra volontà e fato, non esiste per lui nessuna presenza angelica come Stella; Ciappelletto, anche se con rabbia e orrore, accetta la propria condizione che non presenta alternative, senza l’angoscia e i tormenti di un Vittorio\Accattone.
La sequenza della confessione può essere significativa di quanto si è appena detto. Ciappelletto nell’enumerare i propri "santi peccati" davanti al frate – che può essere considerato come una deformazione irriverente e "disperata" della figura pura e redentrice di Stella – si pone necessariamente, perché qui sta il senso e l’enormità della beffa, di fronte alla realtà della sua anima e del suo destino vista sotto la cruda luce di una cinica presa di coscienza senza alibi o rimandi. Disteso sul suo letto d’agonia (già) simile ad un sepolcro monumentale (si veda la statua della madonna benedicente collocata ai piedi del letto), forse Ciappelletto architetta l’inganno estremo e l’ultima bestemmia disconoscendo lucidamente ogni vita eterna? O si rassegna rabbiosamente alla dannazione? Oppure «È veramente ‘nu santo», come dice uno dei due usurai, poiché mente in punto di morte per salvare altruisticamente i suoi due ospiti? È completamente simulata, negli ultimi istanti di vita, la contrizione per aver "bestemmiato la madre" che colora il volto del morente o, invece, viene versata la cruciale "lagrimetta" salvifica? Chiaramente queste sono domande a cui è impossibile, o riduttivo, rispondere, ma permettono di ravvisare in primo luogo un ulteriore "arricchimento di senso" rispetto al testo boccacciano, il quale lasciava aperta, è vero, la questione sulla veridicità o meno della "santificazione" di Ciappelletto:

"Il qual negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli poté in su l’estremo aver sì fatta contrizione che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette…"

ma questa sospensione di giudizio appare più comicamente retorica che frutto di dubbio e confacente alla critica della decadenza clericale; inoltre, subito dopo, la questione è risolta negativamente:

"…ma perciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso."

In secondo luogo questi interrogativi permettono di richiamare la scena finale di Accattone, quando il protagonista adempie il suo destino di "vocato alla morte" e, dopo la folle corsa in moto, spira sull’asfalto della strada esclamando:«Aaaah!… Mo’ sto bene!» e il suo compare Balilla (il futuro Stracci della Ricotta) si fa un segno della croce "rovesciato". Questo brano può essere accostato all’ultimo respiro di Ciappelletto, quando i tratti del viso si irrigidiscono in una maschera di morte e la confessione, prima palesemente contraffatta ed esagerata, sembra diventare ad un tratto veritiera, e il pentimento per aver bestemmiato la madre (la Natura?), che per nove mesi l’ha tenuto in grembo, apparirebbe come autentico. Inoltre, anche a questo trapasso segue, ma qui era naturale aspettarselo, il rituale segno della croce del frate. Ciò che accomuna queste due sottosequenze è la presenza tematica dell’ambiguità del trascolorare della vita nella morte, con l’indefinita sospensione del significato che la morte proietta su tutta la vita passata. A corroborare la legittimità di questa lettura, per quanto riguarda il primo film, viene il già citato passo dantesco sulla morte di Buonconte da Montefeltro che è inserito come occhiello nei titoli di testa di Accattone e che, necessariamente, impone di concentrare l’attenzione (ambiguamente) sul momento della morte del protagonista. Momento che può essere visto come una palingenesi e una conciliazione, estrema ma non tardiva, di Accattone con l’esistente.
Quanto ho appena detto viene arricchito ulteriormente se si prendono in considerazione gli scritti pasoliniani sul cinema degli ultimi dieci anni di vita. Uno dei concetti principali espressi in questi saggi ed interventi è sicuramente quello della morte che "compie un fulmineo montaggio della nostra vita" e che "finché siamo vivi, manchiamo di senso" e "solo grazie alla morte, la nostra vita serve ad esprimerci". Questi enunciati, inseriti nell’argomentazione più vasta della ricerca di una Semiologia Generale, erano spesso accompagnati dall’immagine della vita vista come un continuo ed ininterrotto piano sequenza (così come il Cinema-langue opposto al Film-parole) girato da un'immaginaria macchina da presa onnipresente e "plurifocale"; questo p.s. continuo, che, finché si è vivi, non ha alcun senso nel suo fluire caotico e ambiguo, trova nella morte, che monta e trasceglie i vari pezzi dell’esistenza, la possibilità di esprimersi compiutamente. Significativo, dunque, e appropriato a quanto si sta dicendo, appare l’articolo di Pasolini intitolato I segni viventi e i poeti morti, in cui addirittura ritorna il richiamo dantesco di Buonconte (anche se qui Pasolini lo confonde col Manfredi morto "in co del ponte presso Benevento" del III canto del Purgatorio):

"Osserviamo un momento questa lacrimuccia [in Dante è «lagrimetta»]. Fino a quel punto l’uomo dal cui ciglio quella stenta e sublime lacrimuccia è gocciolata, era stato un peccatore: il suo era stato un esempio di (generico e cattolico) male. Quella lacrimuccia ha rovesciato la sua vita: ha gettato su essa, retrospettivamente, una luce completamente diversa: il male è divenuto un non male, un contrario del bene, una volontà di essere bene, un bene inespresso, una rabbia di non essere bene, un’impotenza a non volere bene, una forma aberrante eppure divina del bene."

Le due frasi che ho sottolineato, in questa sorta di climax, sembrerebbero essere più attinenti alla figura crucciata di Vittorio\Accattone che al ritratto diabolico e amorale di Ciappelletto, il quale – nella solitudine assoluta sottolineata dalle inquadrature frontali di cui si è parlato e dalla sequenza della confessione sul letto-sepolcro – sopporta titanicamente fino in fondo il peso della propria coscienza. Ma poiché, secondo Pasolini, noi ci esprimiamo solamente quando la morte ha posto fine allo "scorrere magmatico" della vita – "O esprimersi e morire o essere inespressi e immortali" – Ciappelletto posa il pennello del proprio ritratto solamente dopo gli estremi spasmi della sua esistenza, che rimane ineffabilmente sospesa (ma, comunque, non più modificabile) nell’ambiguità dell’ultimo sguardo lanciato nel vuoto.
È per questo, per queste implicazioni morali che mancavano nell’originale boccacciano, che la conclusione dell’episodio – la "santificazione" di Ciappelletto – assume, sia pur lievemente, un altro significato e un altro valore rispetto a Boccaccio (che invece, nella lettera, è seguito quasi pedissequamente – vedi il sermone del frate). La parte finale perde quasi tutta la carica anticlericale (che pur aveva avuto modo di esprimersi nella recitazione caricaturale di Giuseppe Zigaina) per condensare la sua attenzione attorno al corpo del "santo" che si eleva – come sul letto di morte – sulla folla in adorazione e davanti gli occhi inespressivi del vescovo; poiché è questo corpo che, irrigidito dalla morte, rappresenta l’espressione compiuta e la testimonianza tangibile (le mani che lo toccano continuamente) della vita, di tutta la vita, di ser Ciappelletto (sia pur al centro di una palese mistificazione che però, come si è detto, nel film di Pasolini passa in secondo piano).
Tutto ciò che si è detto, sia a proposito della "lagrimetta" palingenetica sia riguardo al concetto di morte "applicato" alla Semiologia del Cinema, non deve essere inteso né come un avallamento della visione di un Pasolini intriso di spiritualismo (almeno non in questo caso) o, addirittura, di cattolicesimo, né, tanto meno, come un mio tentativo di lettura in tale senso. Lo stesso Pasolini, subito dopo il brano che si è riportato più sopra, scriveva:

"La mia idea della morte, dunque, malgrado quest’ultimo esempio dantesco, non è né cattolica né idealistica: almeno in questa fase del mio discorso (che è un discorso grammaticale e semiologico sul cinema) […] [la mia idea], dunque, era una idea comportamentistica e morale: non guardava al dopo della morte, ma al prima: non all’al di là, ma alla vita. Alla vita intesa dunque come adempimento, come tendenza disperata, incerta e continuamente in cerca di supporti, pretesti e relazioni, verso una sua perfezione espressiva."

2.2. Andreuccio (II, 5)

Nel Decamerone la novella di Andreuccio da Perugia è un exemplum borghese e laico sulla maturazione del protagonista e sulla forza dell’ingegno di fronte agli imprevedibili mutamenti e rovesci della fortuna; inoltre, se vi è il riconoscimento della prontezza di spirito mostrata dal giovane mercante negli estremi pericoli incorsi, anche l’astuzia per cui si è distinta la Bella Siciliana è assimilata, scevra da ogni moralistica riprensione, al numero delle virtù dell’ingegno e dell’intraprendenza. Nel Decameron di Pasolini la forza dell’exemplum viene decisamente ridimensionata e risultano posti al centro del racconto filmico il gioco, la vitalità (anche se "disperata"), il puro gusto del narrare. La stessa recitazione di Ninetto Davoli, che non a caso interpreta Andreuccio, appare improntata a quella visione del cinema come gioco di cui Pasolini aveva parlato nell’intervista, già citata, a Dario Bellezza: Ninetto in molti casi sembra quasi scherzare con la macchina da presa e con il regista, "fa sentire" la finzione profilmica attraverso il suo candido manierismo, la sua "naturalezza innaturale" di fronte all’obiettivo; in poche parole: gioca e si diverte. Mi riferisco, ad esempio, alla scena iniziale quando Andreuccio, sotto lo sguardo calcolatore della Bella Siciliana, mostra incautamente i suoi fiorini in mezzo al mercato dei cavalli, ostentando la sua ricchezza e incedendo, gonfio il petto, con una camminata da "vantone" talmente tipica e "stirata" da apparire volontariamente e sguaiatamente innaturale. Oppure durante il dialogo in casa della prostituta, quando ai primi piani della Bella Siciliana, che racconta la sua storia ingannatrice, si alternano i primi piani del volto di Andreuccio che muta man mano che procede la narrazione della donna: prima speranzoso, poi deluso e vagamente sospettoso ed infine serenamente rassegnato e sorpreso dall’aver ritrovato una sorella sperduta; tutte queste espressioni - che passano in rassegna, attraverso le varie sfumature, la "fenomenologia" del "micco", la vittima designata della truffa – danno, soprattutto attraverso la mimica affettata e il doppiaggio cantilenante presenti nel soddisfatto «Eeeeh! Che ce volete fa’, non tutto il male viene per nuocere…», una netta impressione di giocoso "recitato" e quasi di ammiccamento oltre la macchina da presa.
Alla scoperta del gioco e del divertimento si aggiunge anche l’esaltazione della vitalità e, quindi, della corporeità: i bambini nudi che giocano sullo spiazzo del mercato dei cavalli, il sorriso della vecchia serva siciliana alla vista di Andreuccio, l’allegra processione delle donne che imbandiscono la tavola con piante e fiori in casa della Bella Siciliana, eccetera. Ma, in particolare, è il p.p. di Ninetto, che annusa a pieni polmoni un garofano con gli "occhi ridarelli" durante la cena con la "sorella ritrovata", che può essere considerato l’emblema di questa "fame di vita" e di amore per essa.
Il mondo in cui l’innocente, almeno inizialmente, e candido Andreuccio si trova calato non è, naturalmente, altrettanto candido e altrettanto innocente. La Bella Siciliana ha escogitato il suo piano ingegnoso a cui hanno collaborato le serve e il ragazzetto che sega un’asse del "cacaturzo"; ma nella sua azione e nel suo ritratto non c’è alcuna traccia di meschinità o di ipocrisia. Quando, ad esempio, Andreuccio è caduto nella trappola e la donna si getta felice sul letto per contare i fiorini lasciati dal malcapitato, si assiste solamente, come in Boccaccio, al sereno riconoscimento dell’astuzia e dell’ingegno al di fuori di ogni problematica e connotazione moralistica: c’è solo la fresca allegria di una giovane donna che ha ottenuto ciò che desiderava. In più, differenziandosi in questo caso dal Fiorentino, l’immagine che Pasolini dà della prostituta viene arricchita e trasfigurata figurativamente dagli accostamenti e dalle citazioni dotte: il cielo turchino smaltato che fa da sfondo all’apparizione della Bella Siciliana all’inizio dell’episodio, oppure l’inquadratura della donna alla finestra in attesa di Andreuccio e avvolta in una veste rossa, che potrebbe ricordare, per la postura e per la scelta cromatica, un affresco di Simone Martini e della Scuola Senese.
Questa visione, che può essere considerata una sorta di ibrido e di sovrapposizione tra quella laica e "borghese" del Boccaccio e quella sacra e "trasumanante" di Pasolini, non pertiene al solo ritratto della Bella Siciliana ma viene estesa anche agli altri complici. Si può ricordare, ad esempio, la piccola serva della prostituta che saltellando e battendo le mani in un gioco di bambina va a chiamare, con la sua flebile voce – nel doppiaggio pasoliniano ancora una volta significativamente straniante – e con il suo viso serio e angelico, il "signurinu" Andreuccio che, sorridendo con un fiore in bocca, le risponde esclamando: «Con tutto er core!». Oppure si possono ricordare le inquadrature del protettore della Bella Siciliana che guarda in alto verso la finestra della casa; nell’atmosfera ipogea del "basso" napoletano attende il maturare degli eventi in compagnia di alcuni guappi, ascoltando la malinconica canzone della malavita cantata da uno di questi. Nel ritmo lento della musica e dell’attesa si inserisce il ritratto di questi "puri" pasoliniani calati nel mondo violento e degradato del loro astorico e pagano codice di comportamento.
Leggermente diverso appare il trattamento riservato ai due tombaroli che nella notte incontrano Andreuccio, imbrattato e maleodorante per essere caduto nel «chiassetto», fuggito dalla contrada di Malpertugio e rifugiatosi in una botte all’interno di una grotta. L’immagine dei due, il "dritto" grasso e collerico e la "spalla" querula e funestata dai tic, è fortemente connotata in senso grottesco ma senza le punte sarcasticamente caustiche che Pasolini aveva riservato ai personaggi di Musciatto Franzesi e dei due usurai nell’episodio di Ciappelletto. Causticità e sarcasmo che sembrano, invece, ritornare nel ritratto del sacrestano che, per secondo, va a razziare l’avello in cui è stato rinchiuso, a sua insaputa, lo sfortunato Andreuccio. Infatti questo stralunato sacrestano, che parla un italiano studentesco e medioborghese, dopo aver ripreso i due compari superstiziosi con la sua saccenteria "illuministica" è il primo a fuggire vergognosamente rimboccandosi la veste e riempiendo la chiesa con le sue grida di spavento.
Una significativa differenza tra la novella e l’episodio di Andreuccio può essere ravvisata, invece, nella conclusione e nella diversa importanza che ha, in Boccaccio e Pasolini, la maturazione, l’Entwicklung del protagonista. Nel Decameron pasoliniano non manca del tutto la rappresentazione della parabola ascendente delle fortune e della virtù di Andreuccio (che però in Boccaccio aveva ben altro spessore); se si confrontano i piani di Ninetto al mercato dei cavalli o mentre "abbocca" ascoltando il discorso della sedicente sorella naturale, con le inquadrature dello stesso che ha ormai capito il gioco dei due tombaroli (che lo vogliono costringere ad entrare nella tomba) e che atteggia il viso nella smorfia di chi, disincantato, ha scoperto «di che pasta è fatto l’uomo», risulta evidente l’avvenuta costruzione e l’avvenuto sviluppo del personaggio che ha fatto tesoro delle proprie esperienze e le sa sfruttare nelle diverse contingenze a cui lo espone la fortuna mutevole. Ma mentre Boccaccio terminava la novella con la constatazione del diverso (e ugualmente proficuo) investimento operato da Andreuccio, Pasolini dimentica i fiorini e l’anello in favore della celebrazione della pura e santa felicità di Ninetto che esce dalla tomba e riassapora la vita, danzando allegro come un matto.
All’esaltazione boccacciana dei valori laici della mercatura si sovrappone e si sostituisce la riscoperta – o la nostalgia – della vitalità primigenia e incorrotta.

2.3. Masetto (III, 1)

"Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso messale la nera cocolla, che ella più non sia femina, né più senta dei feminili appetiti se non come se di pietra l’avesse fatta divenire il farla monaca; e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza n’odono, così si turbano come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo aver rispetto a se medesimi…"

Questo è il preambolo attraverso il quale Filostrato, all’inizio della terza giornata, introduce il racconto di Masetto da Lamporecchio, con il chiaro intento di ribadire la naturale vocazione dell’uomo alla sessualità al di sopra di ogni vincolo e convenzione sociale. Pasolini, ancora una volta, nel fare sua la novella boccacciana focalizza la sua attenzione su alcuni elementi specifici e ne arricchisce il significato attraverso la sua visione e la sua lettura, come è lecito aspettarsi da ogni vero autore, e attraverso la sua poetica e la sua ideologia. Il corpo e il sesso sono chiaramente il centro tematico dell’episodio pasoliniano e più che l’attestazione dell’insopprimibilità dell’eros viene privilegiato il momento della scoperta – o, dal punto di vista ideologico, della riscoperta – e del mistero che ammanta desiderio e appagamento.
Le sequenze più importanti dell’episodio, da questo punto di vista, risultano essere quella dell’incontro delle due suorine – una "che alquanto era più baldanzosa" e una ingenua – con Masetto al lavoro e quella dei due successivi amplessi nel capanno dell’orto. Innanzitutto c’è la scoperta, nel vero senso della parola, del sesso maschile che "appare" alle due suore che passano sotto l’albero; poi c’è il dialogo tra la "baldanzosa" che propone, con gli occhi azzurri colmi di desiderio sotto la cuffia candida, di "provare che bestia fosse l’uomo" e l’ingenua che, attraverso lo sguardo placido e le sorridenti proteste di verginità, manifesta di aver già assentito nell’animo alle parole della compagna; infine c’è l’invito a Masetto che viene fatto, significativamente, toccandogli il pene con un bastone. La sequenza successiva (quella dell’amore nel capanno) sembrerebbe essere dominata dalla gioiosa levità e bellezza della sessualità: l’orto fecondo di foglie e limoni, il saltello allegro e buffo che fa la prima suora per rimboccarsi le vesti in vista del coito, i dolci e insistenti «trase» o i «monteme ‘n coppa» colmi di desiderio con cui invita Masetto, eccetera. Ma questo è vero solamente in parte, o comunque la levità non esclude anche il mistero, il sacro, il perturbante o forse, addirittura, li richiede come elementi fondanti. A questo proposito mi soffermo su due inquadrature che, in maniera diversa, sembrano confermare quanto appena detto.
Durante il primo amplesso, dopo i ripetuti inviti della suora e lo scambio di sorrisi fra i due, la m.d.p. si sofferma, per qualche secondo, sul pene di Masetto che spunta, in erezione, dalla camicia aperta; questa inquadratura, soprattutto se messa in relazione con l’episodio "dell’usignolo" nella seconda parte del film, lungi dall’essere una mera componente naturalistica risulta connotata, nella purezza dell’inquadratura frontale, dalla nota visione sacrale pasoliniana che sembra racchiudere l’immagine in una sorta di "ciborio visivo" che esalta l’essenza delle cose attraverso la massima semplificazione. La seconda inquadratura è il p.p. della suora "baldanzosa" mentre aspetta fuori dal capanno che la compagna provi quanto lei ha testé sperimentato. In questo p.p., di qualche secondo, la suora aspetta con un’espressione ambiguamente assorta che poi trascolora in un placido sorriso appena accennato; questo viso pensieroso e come sospeso in contemplazione non sembrerebbe limitarsi ad esprimere la soddisfazione dell’appagamento, e nemmeno essere un sorta di rimorso tardivo fugato dal sorriso finale; ma, bensì, pervade la scoperta dell’eros che si è appena compiuta con la perturbante presenza del silenzio e del mistero.
Sotto questa luce le sequenze successive della scoperta della tresca, dell’organizzazione "taylorista" delle prestazioni di Masetto e della proclamazione finale del "miracolo" da parte della badessa, in parte ritornano all’ossequio della pagina boccacciana e in parte sono dovute all’ironia, qui mai veramente acida, di Pasolini verso il clero. Un esempio di quest’ultima può essere il gesto sorpreso ed estasiato (quasi una citazione della postura della madonna nell’Annunciazione di Lorenzo Lotto) che fanno le due suore, ma poi anche la badessa, quando cantando un inno si trovano davanti "all’apparizione" del sesso di Masetto.
Questo episodio si distingue dagli altri perché, assieme a quello di donno Gianni e al proemio dell’episodio di Giotto, non è ambientato in città ma nel contado e, inoltre, perché è l’unico in cui viene filmato il lavoro nei campi. Sia all’inizio, quando Masetto è al suo paese e lavora come bracciante, sia nella seconda parte, quando il giovane è assunto come ortolano del convento, il modo in cui Pasolini ritrae il lavoro agreste ricorda, sotto alcuni aspetti, l’opera poetica degli anni ’40, anni immersi, in buona parte, nell’universo arcaico-mitico del Friuli contadino; oppure, per rimanere più vicini, le riprese dei braccianti al lavoro ricordano le analoghe sequenze dei contadini africani al lavoro negli Appunti per un’orestiade africana. Le inquadrature di Masetto che beve, dei braccianti che dormono sotto i rami, del giovane che cammina scalzo nel rigoglio dell’orto richiamano da vicino le immagini dei contadini di Casarsa presenti sia come "viventi" nelle poesie di quegli anni sia come "scomparsi", assieme alla loro "idea dell’uomo", negli Scritti corsari o ne La nuova gioventù.

2.4. Peronella (VII, 2)

Senza voler dare un giudizio estetico, sono poche le notazioni che si possono fare attorno a questo episodio, soprattutto perché ciò che si è detto, e si dirà, a proposito del film nel suo complesso, e cioè attorno alle tematiche del sesso e del gioco, esaurisce quasi tutte le argomentazioni particolari.
Si può dire, comunque, che nell’episodio di Peronella il sesso e il gioco assumono valori caratteristici; il sesso diventa più greve e carnale, senza per questo assumere una valenza negativa; basti pensare ai primi piani del viso di Peronella accaldato e stravolto dal piacere mentre rimprovera il marito o mentre sta avendo l’amplesso segreto con Giannello. Anche il gioco si ispessisce e diventa triviale nella beffa del doglio e nelle ironiche lodi che Peronella indirizza al marito intento a pulire l’interno del vaso; e il riso e la gioia diventano iperboliche nell’incontenibile risata asinina del marito che accompagna tutto l’episodio.

2.5. L’Allievo di Giotto (VI, 5)
I Parte –

L’episodio si apre con un nubifragio che costringe due compagni di viaggio, "l’avvocato" messer Forese da Rabatta e "’nu bravo artista dell’alta Italia, il miglior discepolo di Giotto", a rifugiarsi sotto la misera capannetta di un vecchio contadino, che offre loro due miseri panni e due cappellacci per coprirsi dalla pioggia. Fin da subito Pasolini, che interpreta l’artista, viene presentato, contro il suo volere, come il "il maestro" che deve affrescare la chiesa napoletana di Santa Chiara. Questa presentazione, e il p.p. successivo che inquadra il regista bagnato dalla pioggia che guarda di lato, connotano ed isolano nello stesso tempo la figura dell’artista che, da questo momento in poi, sarà il "creatore" ma anche il "diverso", "l’osservatore" ma anche il "solitario".
La figura di Forese da Rabatta, che in Boccaccio era un celebre giureconsulto "da molti valenti uomini uno armario di ragione civile […] reputato", qui risulta ridimensionata in quella di un qualsiasi "avvocato", come lo chiama l’Allievo di Giotto, in virtù di quell’abbassamento al livello più schiettamente popolare di cui si è già parlato all’inizio del capitolo. Ma la differenza più vistosa tra questo episodio e la novella boccacciana è dovuta, naturalmente, alla pressoché completa reinvenzione della trama; infatti la storia originaria, che prevedeva solamente uno scambio di motti tra Forese e il pittore Giotto in persona, viene mantenuta solo nelle sequenze iniziali della I parte e, addirittura, viene stravolta nel senso, poiché Pasolini omette la risposta di Giotto, che concludeva la novella, ai lazzi del Giureconsulto. In questo caso, dunque, Boccaccio è poco più che un pretesto per introdurre la figura dell’Allievo di Giotto e il macro-episodio che fa da cornice alla seconda parte del film.
L’arrivo dell’artista a Santa Chiara e la successiva presentazione ai notabili della confraternita permettono di innescare una sorta di sequenza chapliniana: l’Allievo di Giotto, ancora imbacuccato nella mantella offerta dal contadino, giunge a grandi falcate di fronte ai notabili, per poi fare improvvisamente dietrofront intimidito dagli astanti; quindi, rassicurato, si incammina verso l’entrata della chiesa togliendosi il cappello con un ampio gesto e camminando buffamente come un piccolo generale al comando di un esercito al suo seguito.
La sequenza dell’inizio dei lavori vede l’artista immerso nella contemplazione del muro bianco mentre, con un fragore di tuono, l’impalcatura viene collocata al suo posto di fronte alla parete. La scena, dal chiaro valore simbolico (Pasolini creatore al cospetto della pagina bianca), è resa quasi solenne dall’alternarsi dei primi piani del regista, con gli occhi fissati profondamente di fronte a sé, e dei totali della parete da affrescare, a cui viene appoggiata l’impalcatura che ha il proprio centro simmetrico nella figura dell’artista di spalle. Ad aumentare l’impressione di solennità e grandezza contribuisce il rimbombo continuo prodotto dallo spostamento dell’impalcatura che, proprio come un tuono primordiale, accompagna il momento del concepimento della "creazione". Ma, d’altra parte, giunge, creando una sorta di contrappunto sarcastico alla ieraticità della scena, l’inserimento nella sequenza dell’inquadratura, in m.f., dei due frati effeminati che osservano, impudicamente lascivi, il pittore all’opera. La figura dei due frati ritorna ancora, sullo sfondo, nell’inquadratura frontale in cui Pasolini, al centro del campo, guarda verso l’alto il muro da affrescare. Questi inserimenti dissacrano e complicano nello stesso tempo la sequenza dell’inizio dei lavori: nel momento stesso in cui l’attenzione si concentra, con la solennità di cui ho parlato, attorno alla natura e allo spirito dell’artista e dell’arte – sia pur con la facile similitudine tra il pittore dentro il film e il regista (quasi una mise en abyme) – Pasolini spietatamente autodenuncia la propria omosessualità, la propria diversità "razziale", e lo fa, apparentemente, in una maniera degna del più becero e teppistico rotocalco scandalistico; cioè additandone qualunquisticamente, oltre ogni indulgenza, gli aspetti «sconvenienti» e «degeneri» e accostando la propria immagine colta nell’attimo più sublime e privato - il concepimento artistico - al pubblico sberleffo e al dileggio più grossolano
Parlare del rapporto tormentoso e dilacerante che Pasolini ebbe con la propria sessualità non sarebbe cosa nuova né cosa agevole; per di più esulerebbe in gran parte dall’argomento di queste pagine. Parlare, inoltre, del modo in cui Pasolini avvertiva l’esclusione dal corpo della società, dovuta appunto a questa diversità "razziale", e l’angosciosa coscienza di questa esclusione, risulterebbe altrettanto complesso e risaputo. Ma si può comunque affermare che, senza alcun dubbio, le ragioni di questo "irrispettoso accostamento" vanno ben oltre un’improbabile stigmatizzazione sarcastica delle proprie pulsioni o, addirittura, un quasi impronunciabile riconoscimento («revisionista» e «reazionario») delle posizioni di quella subcultura clerico fascista che a colpi di processi ed articoli calunniosi aveva avvelenato, esasperandolo, l’ultimo ventennio di vita dello scrittore-regista.
Infatti il parlare della propria omosessualità rifuggendo ogni eufemistico abbellimento e, anzi, banalizzandola nel renderla sgradevole, ha un palese intento provocatorio; un modo per imporre lo "scandalo della propria diversità" in tutta la sua forza e al di fuori delle ghettizzazioni che la cosiddetta «età della tolleranza» implica per sua stessa natura. Illuminanti, a questo proposito, risultano alcuni passi delle Lettere luterane, scritte solo nel 1975, ma espressione compiuta della maturazione di tutta una fase del pensiero pasoliniano il cui centro focale è costituito, appunto, dai film della Trilogia:

"Ebbene: in tal senso [a proposito della sessualità] io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un «tollerato».

La tolleranza, sappilo [si rivolge a Gennariello, l’interlocutore immaginario di una parte delle Lettere luterane], è solo e sempre puramente nominale. [...] E questo perché una «tolleranza reale» sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si «tolleri» qualcuno è lo stesso che lo si «condanni». La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. Infatti al «tollerato» - mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua «diversità» - o meglio la sua «colpa di essere diverso» - resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della «diversità» delle minoranze. L’avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi – certo – il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori – certo – dal «ghetto» fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato.
Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un «ghetto mentale», e guai se uscirà di lì.
Egli può uscire di lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza.
Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere «tinta» dall’esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria."
Dunque, nella sequenza dell’inizio dei lavori, Pasolini rifiuta di smussare la propria "negritudine", di chiedere tacitamente perdono per propria diversità, e la "getta sul piatto" nuda e cruda, vera e propria «pietra d’inciampo» per "tolleranti" e "moralisti". Anche se (bisogna ammetterlo) si è ancora lontani da quella "poetica dell’anomia", cioè dal perseguire l’opera d’arte inconsumabile per smascherare la falsa tolleranza del nuovo potere, che sarà alla base di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Un aspetto ulteriore di questo accostamento tra l’artista che crea e il "marchio" della sua diversità – e, in questo senso, una sfaccettatura complementare di quanto si è appena detto – è dato dalla denuncia che Pasolini sembra fare contro coloro che avevano sempre legato ogni sua espressione artistica e comportamentale alla manifestazione di quella "tara di fondo" che ne contaminava l’esistenza. Come Pasolini aveva sempre respinto con sdegno chi lo vedeva come una "bestia da stile" riconducendo all’espressione artistica o alla poetica ogni suo concetto e ideologia, così, in questo caso, rifiuta la riduzione di tutta la sua personalità alla patologia della devianza; e lo fa assumendo, per assurdo, le "tesi del nemico", cioè ritraendosi "così come lo vedevano". Sempre nel 1975 Pasolini dichiarò a Jean Duflot:

"Sono vent’anni che la stampa italiana, e in primo luogo la stampa scritta, ha contribuito a fare della mia persona un controtipo morale, un proscritto. Non c’è dubbio che a questa messa al bando da parte dell’opinione pubblica abbia contribuito l’omofilia, che mi è stata imputata per tutta la vita come un marchio d’ignominia particolarmente emblematico nel caso che rappresento: il suggello stesso di un abominio umano da cui sarei segnato, e che condannerebbe tutto ciò che io sono, la mia sensibilità, la mia immaginazione, il mio lavoro, la totalità delle mie emozioni, dei miei sentimenti e delle mie azioni a non essere altro se non un camuffamento di questo peccato fondamentale, di un peccato e di una dannazione."

Tutto questo, però, viene espresso senza venire mai meno, almeno in superficie, alla programmatica levità dello «stile medio», l’accento è posto sul racconto e sul piacere del racconto e le rimanenti implicazioni esistenziali ed ideologiche rimangono, non per questo sminuite, nella profondità del testo filmico.
Subito dopo la sequenza dell’inizio dei lavori - espressi cinematograficamente con il montaggio (una dissolvenza su nero e una successiva apertura a stacco) tra l’inquadratura del muro nudo, la "pagina bianca", e quella della prima parte dell’affresco – ha inizio la ricerca, da parte dell’Allievo di Giotto, dei soggetti e delle fisionomie per il suo lavoro nel mercato di Santa Chiara. Tra le zucche appese di una bancarella fa capolino il viso di Pasolini che coglie dal vivo la realtà, anzi addirittura la "riprende", anacronisticamente, guardandola attraverso un obiettivo improvvisato dalle dita incrociate. I "soggetti scelti" saranno i protagonisti (la ragazza e i suoi genitori) dell’episodio successivo "dell’usignolo"; ma nello stesso tempo sono fonte di ispirazione per il pittore che, infatti, subito dopo ritorna all’opera e dà inizio ad una nuova fase dei lavori (un nuovo episodio?), in cui si assiste alla preparazione dei colori da parte dei garzoni dell’artista; questa è la materialità "artigianale" dell’arte fatta di tempere grasse e nerofumi così come il cinema si avvale dell’ausilio tecnico di altrettanti "artieri" che collaborano alla realizzazione dell’opera.
A cosa alluda Pasolini quando riprende se stesso al mercato, calato nel profondo di quella realtà che vuole ritrarre, è estremamente evidente: allude scopertamente sia alla sua storia artistica sia, e soprattutto, alla sua concezione del cinema, prescindendo dalla sua poetica e dal suo stile, come "lingua scritta della realtà"; cioè come arte il cui segno (l’im-segno o il cinèma) non allude metaforicamente (come nella letteratura) ma "riproduce" la realtà attraverso se stessa.
Successivamente, l’Allievo di Giotto – dopo aver raccolto il "materiale" con la sua immaginaria macchina da presa – ritorna al lavoro e dà la prima pennellata del nuovo affresco, una pennellata rossa sull’intonaco disegnato, alla quale segue, a stacco senza neri o dissolvenze, la prima inquadratura dell’episodio successivo – cinque donne in mezzo ad un giardino lussureggiante in cui spiccano, in basso a sinistra, alcuni fiori rossi che riecheggiano la prima pennellata – come se la storia di Ricciardo e Caterina scaturisse dalla fantasia del pittore e questi la facesse "interpretare" da attori catturati nel vivo del loro milieu e della loro autenticità.
Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte ad una complicazione e ad un "arricchimento di significato" che discende, per via diretta, dal fatto che il protagonista dell’episodio-cornice della seconda parte del film sia interpretato da Pasolini stesso; del valore complessivo da assegnare a questa interpretazione si parlerà più oltre, alla luce, in modo particolare, del commento del pittore che suggella la fine dell’affresco e del film.

II Parte –

Questa parte dell’episodio è poco più di uno sketch, sia per la durata sia per alcuni elementi stilistici (ad esempio la velocità doppia), ma permette comunque di rintracciare alcuni elementi significativi - sia pur, per certi versi, esteriori – nell’economia del racconto.
La prima sequenza si apre con l’inquadratura del refettorio in cui i frati attendono impazientemente che il pittore si presenti a mangiare – uno dei frati sbotta dicendo: «Eh ma allora non arriva più... Eh, questi artisti...» - alla fine «l’artista» arriva scusandosi ma rimane seduto al desco (da notare che tutti si fanno il segno della croce mentre il pittore si gratta semplicemente la testa) solamente per qualche istante, perché colto da una ispirazione improvvisa fugge, scusandosi di nuovo, per ritornare al lavoro.
Anche in questo caso, nella levità e freschezza dello sketch, il personaggio dell’artista spicca e si isola dagli altri per la sua diversità e per la sua solitudine, rinuncia al cibo e alla compagnia di coloro che sono esclusi, in quanto committenti e non collaboratori, dal Sancta Sanctorum della sua officina; ma anche il pittore è escluso a sua volta, bollato come un "inetto alla vita" proprio in virtù della sua diversità e del suo essere visto come una "bestia da stile" legata simbioticamente e univocamente al proprio lavoro.
Infatti la sequenza successiva, quella del ritorno all’affresco, vede il pittore correre liberato e fremente verso l’impalcatura (la scena è girata parzialmente a velocità doppia) e sollecitare con impaziente allegria i garzoni che accorrono solleciti agli ordini del maestro. Finalmente, calato nella dimensione che gli è congeniale, l’Allievo di Giotto può stendere lo sfondo dell’affresco, un cielo azzurro chiaro che prelude alla prima inquadratura, montata ancora una volta a scatto, dell’episodio di Lisabetta. Anche questa inquadratura – una piccola finestra aperta sull’azzurro carico del cielo subito prima dell’alba – richiama per "assonanza cromatica" la pennellate stese dal pittore dell’episodio-cornice.

III Parte -
Questa parte non è altro che un inciso nel fluire dei singoli episodi: scandisce e commenta il progresso nella realizzazione dell’affresco; tutti sono immersi nel lavoro ed iniziano a fischiare, tutti tranne lo sdentato che dopo qualche vano tentativo erompe in una risata stridula e folle.
Ma il pittore continua a lavorare imperterrito, e i suoi aiutanti con lui, tutto compreso nella sacralità della sua arte, per nulla sminuita, verrebbe da dire, da quella risata ma che, anzi, fa della gioia e della spontaneità il proprio mezzo e fine.
Il collegamento con l’episodio successivo, questa volta, è dato dall’inquadratura dell’esterno della chiesa di Santa Chiara (dove lavora l’Allievo di Giotto), ai cui piedi si trovano le bancarelle del mercato dove lavorano Tingoccio e Meuccio.

IV Parte –

Sull’inquadratura finale della prima parte dell’episodio di Tingoccio e Meuccio (Tingoccio addormentato in seguito alla reprimenda del compare) si inseriscono i piani all’interno dello stanzone dove dorme l’Allievo di Giotto assieme ai suoi collaboratori. Le inquadrature, basse e rigorosamente frontali, scorciano i corpi dai piedi alla testa ricordando vagamente gli sperimentalismi prospettici dei pittori quattrocenteschi (si potrebbe citare, sbrigativamente, il San Sebastiano di Antonello da Messina accanto all’ovvio riecheggiamento del Cristo morto mantegnesco) e i colori smorzati e densi imbrigliati nella fissità dei piani danno la sensazione di osservare una serie di dipinti ad olio.
L’Allievo di Giotto, che dorme in un giaciglio separato da quello degli altri, ad un certo punto si sveglia (o sembra svegliarsi) ed ha una visione: ai suoi piedi si apre lo spettacolo folgorante del Giudizio Universale.
Come nella prima parte del film, anche qui ci si trova di fronte ad un tableau vivant, ricalcato quasi pedissequamente sul giottesco Giudizio della cappella degli Scrovegni, con l’eccezione notevole della Madonna col bambino - che trionfa nella "sacralità della visione frontale" all’interno della mandorla centrale - al posto del Cristo giudicante dell’affresco padovano. I campi da cui è costituita la sequenza si alternano col ritmo incalzante della visione mistica che si impone, con la sua lancinante assolutezza, agli occhi rapiti del pittore. Il vero "punto di fuga" di tutta la visione è però costituito dallo sguardo della Madonna, che compare in un primo e in un primissimo piano (al centro della sequenza) su cui si impernia tutta la scena.
La simmetria della composizione è confermata anche dal montaggio.
Alla prima inquadratura totale che dà il senso complessivo della visione, segue il p.p. della Madonna (il centro del tableau vivant) che sembra guardare direttamente negli occhi, in un muto colloquio, l’Allievo di Giotto dell’inquadratura successiva. A questa seguono una panoramica sinistra-destra e una destra-sinistra, rispettivamente dell’ala destra e dell’ala sinistra del coro angelico; in modo che dall’immagine centrale della Madonna ci si allontana verso i margini della scena. Successivamente si hanno due inquadrature dei margini inferiori – sinistro e destro – della mandorla in cui è racchiusa Maria col Bambino, come se l’attenzione ritornasse, dopo la digressione delle due panoramiche, verso il fulcro dell’apparizione. Infatti l’inquadratura successiva è quel primissimo piano di Silvana Mangano di cui si è già rilevata la centralità simmetrica all’interno della rappresentazione; anche in questo pp.p. gli occhi della Madonna sono puntati direttamente verso la m.d.p., con uno sguardo interrogativo e perturbante insieme; e ancora una volta questo sguardo è diretto verso il pittore che appare nell’inquadratura successiva.
Di seguito si hanno poi due brevi panoramiche destra-sinistra che ritraggono i dannati torturati e trascinati - la seconda panoramica (in maniera più spiccata della prima) è orientata diagonalmente dall’alto verso il basso – da dei diavoli ricoperti di peli come fauni malefici. Quindi ancora un’altra inquadratura che ritrae alcune suore che piangono dirottamente (anch’essa con un lieve movimento destra-sinistra della m.d.p.) e appartenente alla destra del tableau vivant (quella della massa damnationis).
Centrale rispetto alla rappresentazione dei dannati e dei beati è l’immagine dell’Allievo di Giotto pietrificato nell’identica posizione di tutte le altre sue inquadrature: la testa sollevata dal giaciglio e lo sguardo fisso davanti a sé.
La rappresentazione dei beati avviene, simmetricamente (ancora), con lo stesso numero di inquadrature dei dannati: tre. Tre piani fissi di grandezza decrescente: un campo medio della zona a sinistra della croce centrale sorretta dai due angeli, un’inquadratura di tre beate che guardano, verso il basso, il ragazzo che regge la chiesa in miniatura dell’inquadratura seguente.
Chiude la sequenza e la IV parte dell’episodio l’Allievo di Giotto, che ricade sfinito sul cuscino per addormentarsi di nuovo.
I significati insiti in questa sequenza sono complessi e molteplici.
Sotto un certo punto di vista tutta la visione può essere considerata come una sorta di "testamento ironizzante" steso da Pasolini che, nel contemplare in quel momento l’abisso di un mondo perduto, si trovava, fra l’altro, a tirare le somme della sua arte, della sua sensibilità, del suo universo esistenziale.
Figurativamente, infatti, la scelta della "macchina pittorica" rappresentata dal Giudizio di Giotto, la rigida simmetria della composizione e l’assolutezza della visione frontale – che culmina nella figura centrale della Madonna – rimandano direttamente alle caratteristiche formali del primo cinema pasoliniano che, nella pressoché totale assenza di campo e controcampo e di piani sequenza, ha suggerito a molti l’immagine di un affresco i cui personaggi, con i visi e i corpi immersi in un’identica luce, vengono catturati dalla macchina da presa che sembra scorrere, per questo, sulla superficie piana di un dipinto.
Ma la cifra autentica che informa la totalità della visione va cercata oltre la mera componente formale (che comunque, come si è visto, ha una certa importanza); infatti tutta la sequenza può essere considerata come la manifestazione netta e irrefutabile della percezione pasoliniana della natura come ierofania, colloquio della divinità con se stessa, perpetuo mostrarsi della "straziante e meravigliosa bellezza del creato". La stessa frontalità (di cui si è appena parlato per la sua valenza figurativa) è un elemento fondamentale e caratteristico della visione sacrale del regista, assieme a quella "assolutezza sacrale degli oggetti e dei volti" che Pasolini ritrovava in Dreyer per poi rispecchiarla su di sé. Infatti solamente un anno prima di girare il Decameron, Pasolini scriveva nella poesia Ancora sull’orso:

"La visione frontale, è sacra, la mia anima è un tabernacolo dove coi nuovi numi che li hanno assimilati persistono, niente affatto ammuffiti, anzi vivi e vegeti, i vecchi..."

versi che riecheggiano, significativamente, quelli citati da Orson Welles nella Ricotta:

"Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini o le Prealpi dove sono vissuti i fratelli."

nel senso che la "visione frontale" propria delle "pale d’altare", appartenenti a quella "età sepolta" di cui Pasolini avverte l’orribile scomparsa, vale già di per sé, all’interno dell’anima-tabernacolo del poeta di Casarsa, come manifestazione del sacro e della "innaturalità" della natura.
Molto significativa, inoltre, è la sostituzione della figura giottesca di Cristo Giudice con quella di Maria col Bambino. Per esprimere il suo rapporto con la sacralità Pasolini ricorre ad un’immagine femminile, poiché è nella donna-madre che si addensa il mistero e l’ineffabilità del concepimento, della gestazione, della vita che nasce; ed è sempre la donna-madre che nella psicologia dell’autore può essere angelizzata in un’aura sacrale; mai l’uomo, che invece è connotato dalla pesantezza e dall’ossessione dell’eros, o dal divenire e dal pragma della storia. Lo stesso Pasolini, in più di un’occasione, ricercava le radici della sua omosessualità proprio in questa concezione e nel rifiuto (problematico) dell’autorità paterna (la storia) in favore della "autorità materna"(il sacro, il mito). Ecco cosa dichiarava nel 1975:

"In tutti i paesi in cui l’omosessualità è fortemente endemica o pubblicamente riconosciuta, il rapporto con la madre, con il significante materno, determina un’inversione fondamentale dei rapporti con la donna. Forse l’omosessuale ha il senso dell’origine sacra della vita più di chi si vuole strettamente eterosessuale. Il rispetto della santità della madre predispone ad una particolare identificazione con essa; direi anzi che nel fondo dell’omosessuale c’è in modo molto inconscio la rivendicazione della castità: il desiderio dell’angelizzazione. In modo altrettanto oscuro, l’omosessuale cerca lo stesso nell’altro (l’altro-stesso), un partner con cui non rischi di riprodursi il terribile potere del padre, del profanatore"

Ancor più significativa appare la scelta di far recitare, nella parte della madonna, Silvana Mangano. Pasolini scriveva nel 1968, in una lettera aperta all’attrice:

"...Ed è tutto questo, strano a dirsi, che produce la tua bellezza. La tua bellezza amara che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre, in realtà, tu sei lontana. Appari dove si crede, si lavora, ci si dà da fare: ma sei dove non si crede, non si lavora, non ci si dà da fare. Richiamata qua da un obbligo che (chissà perché) si ha vivendo, resta la realtà della tua lontananza, come una lastra di vetro tra te e il mondo. Senza che ce lo siamo mai detto (dato il selvaggio pudore) la mia anima era spesso con te, dietro quel vetro."

Questa descrizione di Silvana Mangano, fatta due anni prima delle riprese del Decameron, si adatta in maniera affascinante all’apparizione mistica dell’episodio dell’Allievo di Giotto; lo confermano i termini "incombente", "teofania", "lontananza", "apparire" che richiamano, con un’evidenza quasi imbarazzante, la figura della Madonna in trionfo al centro della composizione pittorica pasoliniana. Bisogna ricordare, a questo punto, che Silvana Mangano aveva interpretato la parte di Giocasta in Edipo re, uno dei film più fortemente autobiografici dell’autore, e che, d’altro canto, nel 1964 la madre di Pasolini, Susanna Colussi, era Maria vecchia nel Vangelo secondo Matteo. Quindi si può dire che ancora una volta, nel Decameron, i motivi della maternità, del sacro e del mitico si trovano intrecciati in un unico, inestricabile nodo che tanta parte ricopre nel fare artistico del regista (senza esserne, per questo, l’unico elemento fondante).
Ma a rendere diverso dagli altri questo riemergere di elementi ricorrenti del gusto figurativo o della sensibilità pasoliniana, contribuisce una carica ironica che mancava nei film precedenti. Quando, più sopra, ho parlato di testamento ironizzante, intendevo appunto questa tendenza a distanziare e a demistificare gli elementi "forti" della propria arte attraverso la mediocritas del racconto aneddotico; calato all’interno del susseguirsi degli episodi boccacciani, il rapporto tra l’artista e la visione mistica, e quindi la riflessione di Pasolini su se stesso, viene in un certo senso "imbastardito" (ma non certo ridicolizzato), viene come "gettato in piazza", esposto al giudizio degli "uomini discoli e grossi", agli umori del "mercato"; e quindi perde quanto poteva avere di lirismo e di accoramento autobiografico per acquistare in obbiettività e impietosa lucidità.

V Parte –

La breve sequenza (poco più di un minuto), che conclude l’episodio e il film, è interamente dedicata alla conclusione dei lavori. Viene tolta l’impalcatura, con lo stesso rombo sordo e maestoso di inizio episodio, e i due frati effeminati (gli stessi della prima parte) vanno a suonare allegri le campane per annunciare il completamento dell’affresco. Il pittore è ancora una volta al centro della navata e contempla la sua opera mentre si sposta l’impalcatura; un p.p. dell’artista che guarda verso l’alto riprende una simile inquadratura iniziale che lo vedeva esaminare il muro vuoto, alla ricerca della fatale ispirazione. Ora che l’opera è finita l’Allievo di Giotto riflette sulla sua creazione e sul concretarsi nella materia delle sue aspirazioni e delle sue visioni. Infatti pur partecipando alla festa assieme ai collaboratori e ai frati sorridenti, non può fare a meno di osservare a mezza voce tra i brindisi gaudenti: «...Ma...Io mi domando...perché realizzare un’opera quando è cosi bello sognarla soltanto?».
In poco più di un minuto Pasolini concentra il suggello di tutto il suo film, prende congedo dal frutto del suo lavoro che ormai gli si presenta, nella sua finitezza che esclude la miriade delle alternative possibili, come qualcosa di estraneo e che vive di vita propria senza più richiedere l’assidua partecipazione del suo "creatore". Ma questo congedo viene fatto attraverso quella frase finale che, se da un lato appare come una banale e scoperta riflessione metafilmica (o metartistica), dall’altro, con il suo ineliminabile residuo di ambiguità che ne impedisce la piena comprensione, sembra aleggiare sospesa sulla parola «Fine», spalancando la rosa dei significati proprio quando ci si aspetterebbe che ne restringesse il senso.
Dunque il Decameron di Pasolini è quel che si dice «un’opera aperta»? Non basta una frase dal senso sospeso a rendere sospesa tutta un’opera; ma quel che si può dire è che quella frase è "aperta" proprio in virtù della sua ineffabile duplicità. Sempre nell’intervista rilasciata a Dario Bellezza, Pasolini dichiarò:

"Cosa significa la mia presenza nel Decameron? Significa aver ideologizzato l’opera attraverso la coscienza di essa: coscienza non puramente estetica, ma, attraverso il veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale. Non ti dico le parole pronunciate da me, con cui finisce il film, perché voglio che sia una piccola sorpresa: ma in esse l’opera si ironizza, e diviene un’esperienza particolare, non mitizzata. La «colpevole mistificazione» di cui ti parlavo si rivela come «gioco»."

Del valore ironizzante e demistificante di certe sequenze e inquadrature ho già parlato più volte; quel che mi preme sottolineare, ora, è come secondo la sensibilità pasoliniana quest’ultima frase apparisse caricata di quel valore che, in realtà, connota l’episodio nella sua interezza; mentre, nello stesso tempo, Pasolini sembra ignorare quella certa parte oscura e indefinibile presente nelle sue parole conclusive.
Naturalmente chi si prefigge di interpretare un’opera d’arte deve necessariamente, in casi come questi, prescindere da quelle che potrebbero essere state le intenzioni autoriali, fondando il suo giudizio sull’opera così come si presenta ai suoi occhi. Ma è comunque interessante osservare come, innanzitutto, fosse un’esplicita intenzione di Pasolini quella di conferire all’episodio che lo vedeva come protagonista un valore demistificante, e come, per giunta, l’ambiguità e l’enigma siano talmente radicati nel profondo dell’animo pasoliniano, da emergere anche quando l’intento programmatico sia quello del «gioco» e dell’«ironia».
«Gioco» e «ironia» che vengono ripresi anche in altri aspetti di questa fine episodio. Ad esempio nel brindisi allegro in cui si incastra la famosa frase dell’Allievo di Giotto, a cui fa da sottofondo la risata folle dello sdentato, sembra confermare il gioco, la voglia di ridere, il felice incontro sul set con gli attori e i collaboratori:

Un collaboratore: Questo vino è bello e buono e fresca è l’anima di Sant’Antonio! Allievo di Giotto (fra sé): ...Ma...Io mi domando...Un collaboratore (continuando): Questo vino è bello e liscio e beato a chi lo piscia! Allievo di Giotto: ...perché realizzare un’opera quando è cosi bello sognarla soltanto?

Oppure il controcanto ironico ritorna nella figura dei due frati effeminati (su cui mi sono già soffermato) che "annunciano" alla città la conclusione dei lavori. Come se Pasolini volesse dire che il manifestarsi "pubblico" della propria opera (le campane che mimano il tam-tam dei rotocalchi scandalistici) sarebbe stato legato in qualche modo, agli occhi della "città", alla consueta e grossolana irrisione razzistica della sua diversità, non assimilabile dalla tolleranza maggioritaria.

2.6. "L’usignolo" (V, 4)

Come l’episodio di Masetto nella prima parte del film, così l’episodio de "l’usignolo" ha come tema la scoperta del corpo e del sesso; ma, mentre il primo poneva l’accento sul mistero e sul turbamento del desiderio e dell’esperienza iniziatica, il racconto della prima notte d’amore tra Ricciardo e Caterina è tutto trasposto sul registro idilliaco del gioioso e aproblematico godimento della bellezza e della freschezza della vita.
La leggerezza e la grazia del racconto sono evidenti sin dalle prime inquadrature: l’allegro brindisi al banchetto di Lizio da Valbona (il padre di Caterina) a cui partecipa il sorridente Ricciardo, il gioco delle fanciulle e, soprattutto, l’incontro dei due giovani tra le fronde del boschetto verdeggiante, dove si scambiano prima due sguardi intensi e seri, poi dei sorrisi colmi e puri che contrappuntano (senza negarle ma rendendole più serene e lievi) le reciproche promesse e attestazioni d’amore profondo:

Ricciardo: Caterì, te prego, nun me fa’ murì d’amore pe’ te! Caterina: Lu Padre Eterno vulisse che tu nun me fecisse murire a me!

La parte successiva dell’episodio (la notte d’amore e il risveglio) ne confermano il carattere idilliaco ma con alcune significative differenze che arricchiscono il senso della storia boccacciana caricandola di simboli paradigmatici e rientranti nella sfera del mito.
Mi riferisco, ad esempio, al giardino mediterraneo immerso nella luce del primo mattino dove si trova il balcone di Caterina, dipinto, nelle inquadrature silenziose che precedono l’amplesso, come un paradiso terrestre creato unicamente per fare da sfondo e da alcova alla reciproca scoperta dei due amanti. Oppure si potrebbe citare la soggettiva dello sguardo di Caterina che osserva il corpo di Ricciardo addormentato; la panoramica dall’alto in basso più che "svelare" il corpo, sembra crearlo in quel momento facendolo scaturire da quell’atmosfera "primigenia" attraverso gli occhi della ragazza.
Questa scoperta (o, meglio, questa "creazione") si compie con l’ultimo gesto dell’innamorata prima di addormentarsi, la cui mano si stringe attorno al pene del ragazzo. In questo gesto, l’esaltazione del corpo e del sesso che è alla base di tutta la Trilogia della vita tocca uno dei suoi momenti più alti e intensi; perché in questo gesto, dalla simbologia chiara e semplice, sono condensati i motivi ideologici ed esistenziali della "scandalosa purezza" dell’eros vissuto nella sua spontanea autenticità.
Quanto ho appena detto emerge con maggior chiarezza se si confronta, per contrasto, il valore che questo gesto ha sulla pagina boccacciana. Il fatto che Caterina abbia "col destro braccio abbracciato sotto il collo Ricciardo e con la sinistra mano presolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare" è finalizzato al gioco anfibologico tra l’usignolo che la ragazza diceva di voler sentir cantare e "l’usignolo" con cui effettivamente viene scoperta dai genitori. Questo bisticcio, che in Boccaccio era alla base della novella, ancora una volta in Pasolini passa decisamente in secondo piano in favore delle diverse letture di cui si è detto. Infatti il momento delle false minacce del padre (che, in realtà, ha già deciso, per calcolo "mercantile", di far sposare il ragazzo alla figlia) ha un valore accessorio rispetto al "miracolo del corpo" che risplende sulla fine dell’episodio. Basti pensare alla "celebrazione" improvvisata del matrimonio dei due giovani. In piedi, si scambiano l’anello mentre Ricciardo, racchiuso nella solita, rigida, inquadratura frontale, piegato di lato in un hanchement classicheggiante, ricorda un Adamo rinascimentale nell’aperto riconoscimento della bellezza e della pura sacralità del corpo umano.
Ma a questa idilliaca e (apparentemente) aprobelmatica esaltazione della sessualità non sono estranee le tematiche della morte e della violenza che, come si è visto, caratterizzano fortemente l’episodio-cornice di Ciappelletto nella prima parte del film. Mi sto riferendo alla già citata sequenza del banchetto di Lizio da Valbona, dove si intravedono, compagni di Ricciardo, i fratelli di Lisabetta che nell’episodio seguente uccideranno, tra le fronde di un giardino simile a quello dove ora banchettano, l’ignaro Lorenzo, colpevole di aver violato l’onore della sorella e quindi di essersi macchiato di un delitto del tutto simile a quello di Ricciardo. Di questa "presenza estranea" dei protagonisti di un altro episodio (una sorta di autocitazione interna al film) non è facile accorgersi: si vede il volto di un solo fratello, di profilo e per un attimo, gli altri due sono di spalle e se ne deduce l’identità solamente per i vestiti e per la capigliatura. Sembra quasi che il regista abbia voluto celare intenzionalmente questo riferimento disseminando questo perturbante indizio, che può essere colto solo dopo un attento esame, nel rapido fluire delle immagini. Ma appunto per questa intenzionalità la presenza degli spietati assassini d’onore, ai margini di questo episodio, sembra assai più significativa di una casuale ed esteriore concatenazione di due episodi vicini; lo zelo di Pasolini nel nascondere le proprie tracce in realtà non è che un modo per focalizzare l’attenzione attorno a ciò che sembrerebbe voler celare o sminuire.
La morte e la violenza non sono escluse, dunque, neanche dal "paradiso terrestre" di Ricciardo e Caterina ma ne sono parte integrante; con ciò che ne consegue e si ripercuote, come si vedrà, nella sostanza complessiva del film e di tutta la Trilogia della vita.

2.7. Lisabetta (IV, 5)

L’episodio di Lisabetta è stato considerato quasi unanimemente (soprattutto dalla critica contemporanea al regista) come uno dei più alti e riusciti del Decameron; come del resto la stessa novella della quarta giornata del novelliere trecentesco è ritenuta un felice esempio del «registro tragico» del Boccaccio adattato alla tematica della nobiltà d’animo nelle classi popolari. Anche i detrattori del film riconobbero in questo episodio un frammento isolato di buon cinema in un’opera che invece, nel suo complesso, prestava il fianco, secondo questi critici, a molteplici giudizi negativi.
L’episodio, come si è detto, si apre con l’inquadratura verso l’esterno della finestra nella camera di Lisabetta; quella stessa finestra su cui, alla fine, la ragazza poserà amorevolmente il "testo" di basilico in cui è seppellita la testa di Lorenzo. Ma già in queste prime inquadrature la giovane coppia è come ammantata dal fosco presagio della tragedia. Fuoricampo si ode - mentre i due amanti si scambiano, nel congedarsi, gli ultimi baci - la struggente nenia che era già stata cantata dai malviventi nell’episodio di Andreuccio; il momento stesso dell’addio, naturalmente assente in Boccaccio, in cui Lisabetta, con il volto serio illuminato dalla luce livida dell’alba, non vuol lasciare andare Lorenzo, ricorda per suggestione l’analogo passo shakespeariano di Romeo and Juliet quando il giorno sorprende i due amanti o quando Romeo, che ha già sul volto pallido i segni della futura morte, deve fuggire in esilio a Mantova.
Un vago riecheggiamento di Shakespeare può essere ritrovato anche nella sequenza dell’ultimo saluto di Lorenzo a Lisabetta; quando in un (relativamente) lungo piano dall’alto (una soggettiva dello sguardo della ragazza alla finestra) si vedono i tre fratelli, consci del rapporto amoroso della sorella, che invitano Lorenzo ad una scampagnata assieme a loro. Lisabetta intuisce immediatamente il pericolo, ma non può fare a meno di lasciar partire l’amato che la saluta sorridendole dal cortile della casa.
Un elemento caratterizzante di questo episodio è sicuramente la violenza; non la violenza "professionale" e a priori di un Ciappelletto, bensì la rabbiosa ira animalesca e il desiderio di crudele vendetta, derivante dalla coscienza dello scuorno compiuto dalla sorella che, in questo modo, sembra voler sottrarsi al prepotente rapporto di soggezione che la lega ai fratelli. Questo rapporto, che era velato di una certa ambiguità già in Boccaccio, si colora di morboso erotismo nella scena in cui uno dei fratelli, appena appresa la notizia del tradimento, si contorce nudo nel letto, mordendosi le mani in una folle vertigine di gelosia; oppure assume l’aspetto della trionfante dominazione – sottolineata dalle riprese dal basso dei fratelli e dall’alto di Lisabetta sottomessa – quando la ragazza va a chiedere sommessamente notizie dell’amato o quando, rassegnata, li prega di potersi recare a passeggiare assieme alla serva.
Ma la violenza dei tre fratelli è connessa anche alla lucida e fredda macchinazione del delitto; infatti riescono a convincere Lorenzo a seguirli attraverso l’inganno delle cameratesche manifestazioni di amicizia. Tutta la scena delle corse nella campagna è giocata sul filo di questo dissimulato ma inesorabile stringersi della maglie del tranello attorno all’ignaro Lorenzo. La prima corsa – accompagnata da un veloce carrello sinistra-destra che segue i ragazzi da dietro una staccionata – è ancora solamente un gioco; così come l’invito a farsi una "pisciata" assieme. Ma quando i quattro si fermano per riposarsi, l’aspetto sinistro della situazione inizia ad emergere nel ghigno sornione di uno dei fratelli, a cui viene schiacciato in faccia un grappolo di uva rossa, quasi un anticipo del sangue di Lorenzo che presto verrà versato. Infatti, quando la corsa riprende, Lorenzo ad un certo punto si ferma ed inizia a guardare i tre compagni; con il volto serio e fosco nella luce del giorno che sta finendo dice una sola parola (l’ultima in vita): «Perché?»; come se avesse intuito del tutto il piano dei fratelli e si interrogasse, più perplesso che spaventato, sulle ragioni di quella crudeltà tanto terribile quanto incomprensibile. Ma, come un eroe tragico o come uno sventurato ingenuo, sorride ai suoi carnefici e prosegue la corsa – da destra a sinistra, opposta simmetricamente alla prima – mentre i fratelli che lo inseguono snudano, uno dopo l’altro, i pugnali.
Antitetica rispetto ai ritratti dei tre fratelli è la figura di Lisabetta; alla rabbia disumanante dei primi corrisponde il malinconico dolore della sorella, sempre nobilitato e racchiuso all’interno dell’ovale smaltato del suo viso. Mai una lacrima, mai una smorfia turba l’espressione della ragazza; sia quando è in ansia per l’assenza dell’amato, sia quando ormai si è rassegnata al suo dolore dopo aver appreso dal fantasma di Lorenzo quanto è accaduto nel bosco. Nella seconda parte dell’episodio, nei frequenti primi piani della ragazza, Pasolini utilizza assai felicemente il viso da madonna quattrocentesca dell’attrice, connotandolo di struggente drammaticità attraverso un sapiente uso della luce naturale che esprime ciò che rimane ambiguamente sospeso sul volto di Lisabetta. Il silenzio, infatti, riempie e dà significato alle azioni di Lisabetta in questa seconda parte. La ragazza parla solamente quando, sorridendo dolcemente, chiede ai fratelli trionfanti il permesso di andare a passeggiare con la serva e, inoltre, quando taglia la testa di Lorenzo dopo averne dissotterrato il corpo, dicendo: «Tutto ti vorrei portare via, amore mio, ma non posso...»; il resto del tempo è occupato dal suo muto lavoro assieme alla serva: il ritrovamento del cadavere, il bacio sulle labbra ricoperte di terra, il seppellimento della testa nel vaso di basilico salernitano; tutte le azioni permangono come distillate dal doloroso silenzio della ragazza sul cui volto immobile, rivolto, in alto, verso il vaso venerato, si chiude l’episodio.

2.8. Donno Gianni (IX, 10)

Come per Musciatto Franzesi e i due usurai, o per il sacrestano ladro dell’episodio di Andreuccio, così, nel delineare il ritratto di donno Gianni da Barolo, lo stile di Pasolini torna a tingersi di acre ironia. Il prete, infatti, si distingue dall’universo coeso del popolo parlando un dialetto italianizzante e manifestando il proprio saccente disprezzo per l’ingenuità di compare Pietro e Gemmata. In questo modo Pasolini può caricarne la figura in senso negativo facendole assumere quegli aspetti sgradevoli di meschina ipocrisia che caratterizzavano i "borghesi" degli episodi precedenti. Queste caratteristiche trovano conferma nei tratti fisionomici del prete, atteggiati nelle varie espressioni di untuosa compiacenza nei confronti dei "subalterni" o di lubrica eccitazione davanti al corpo nudo di Gemmata. Pasolini sfrutta queste caratteristiche fisiche per opporre la "sofisticazione" e "l’inautenticità" di donno Gianni al candore quasi creaturale dei corpi nudi di Pietro e della moglie durante il rito magico della metamorfosi in cavalla.
I tratti acri del ritratto del prete non raggiungono mai, però, il livello del feroce sarcasmo, ma si stemperano indulgentemente (senza però sparire del tutto) nella piana descrizione della beffa architettata, seguendo, in questo, lo spirito della novella boccacciana.
Ma, ancora una volta, il centro dell’episodio pasoliniano deve essere ricercato altrove. Infatti più che sulla beffa (che si conclude nel greve appagamento degli istinti del prete) l’attenzione del regista si concentra sul mondo contadino che, da sfondo, diventa il vero protagonista della vicenda. Basti pensare al rilevo che ha, all’interno dall’episodio, la festa di nozze di Zita Carapresa che, annunciata all’arrivo nel villaggio da alcuni contadini che ballano e cantano, ritorna più volte a scandire la notte che trascorre fino all’alba. Questa festa ricorda nei costumi e nello "spirito" (senza però essere fissata in un ulteriore tableau vivant) il celebre Ballo di nozze di Pieter Bruegel il Vecchio: le risate sguaiate, le urla, i brindisi, le folli danze; tutto concorre a dare l’immagine, distaccata ma mai sprezzantemente grottesca (bruegeliana, appunto), della semplicità e della "realtà" di un mondo atavico ed immutabile.
Partecipi di questo mondo sono, naturalmente, anche compare Pietro e Gemmata, raggirati, a causa della loro "adorabile ignoranza", "dall’estraneo" donno Gianni che sfrutta, ipocritamente, il carisma del proprio magistero e della sua dottrina. Pietro, addirittura, nella sua sprovveduta dabbenaggine può ricordare il marito cornuto di Peronella. Ma, in questo episodio, il marito e la moglie sono investiti di una luce diversa che solleva il racconto al di sopra della beffa salace. Mi riferisco, soprattutto, alla sequenza del rituale pseudometamorfico officiato dal prete imbroglione; quando, nella rustica nudità della stalla, i due contadini si inginocchiano – ripresi di profilo, come i nobili nelle pale d’altare quattrocentesche - con le mani giunte in preghiera di fronte all’officiante, collocato, al centro di un’inquadratura frontale, sotto una finestrella da cui entra la luce dell’alba. Questa scena, nonostante i fini venali dei due coniugi e l’inganno architettato dal prete, è ricolma di quel senso religioso della sacralità della natura su cui si è spesso insistito; ma appunto perché parte di una mistificazione beffarda questa sacralità compenetra e si addensa esclusivamente attorno ai corpi e alle cose, assegnando a questi (e solo a questi) il significato ultimo e profondo di tutto l’episodio.

2.9. Tingoccio e Meuccio (VII, 10)

In questo episodio, il tema fondamentale della naturalità e della bellezza del corpo e del sesso viene posto a confronto con il senso del peccato e del castigo ultraterreno. Questa duplicità viene resa attraverso la contrapposizione dei due protagonisti: Tingoccio (il vizioso) che muore di consunzione per il rapporto adulterino con la comare, e Meuccio (il bigotto) che mortifica e reprime il desiderio di giacere con la propria per il timore di morire in peccato mortale. Il contrasto tra i due viene rappresentato da Pasolini a tutto detrimento del secondo; infatti, alla voracità insaziabile e sfrontata di Tingoccio (si veda, ad esempio, la scena in cui parla a bocca piena con l’amante in un intervallo del rapporto sessuale) si oppongono le querule reprimende di Meuccio, che rimane legato alla propria ascetica castità solamente in virtù del proprio pavido timore per la punizione divina.
Questo contrasto morale tra i due protagonisti è del tutto assente in Boccaccio; nella novella, infatti, Tingoccio e Meuccio sono invaghiti di una medesima donna, che cede alle lusinghe del primo mentre Meuccio - alieno da ogni tabù moralistico e, quindi, per nulla diverso dall’amico – soffoca il proprio desiderio solamente perché gli manca l’occasione di realizzarlo. Pasolini, invece, estremizzando la differenza tra i due amici nella dialettica tra istinto e repressione, amplifica il messaggio liberatorio della rivelazione finale: quando Meuccio, avendo appreso dal fantasma di Tingoccio che nell’oltretomba "non si tiene ragione alcuna delle comari", urla felice il suo «Nun è peccato! Nun è peccato», correndo tra le braccia stupite della sua comare.
In realtà questo urlo, e l’immediata ed istintuale soddisfazione che ne consegue, tradiscono la serenità apparente della liberazione del sesso; infatti in questo incontenibile sprigionarsi dell’istinto oltre le pastoie nevrotizzanti del conformismo bigotto, si cela un conformismo altrettanto irreale e nevrotico. Se si confronta la "liberazione" di Meuccio con la "scoperta" delle suore nell’episodio di Masetto o, addirittura, con la "creazione edenica" dell’episodio "dell’usignolo", ciò che risulta mancante è appunto quell’essenza di pura sacralità che pervadeva gli episodi precedenti. Meuccio non fa altro che passare da un obbligo ad un altro senza soluzione di continuità, e quindi senza una liberazione autentica.
Significativamente, l’altro elemento notevole dell’episodio è la presenza della morte. Tingoccio, nella seconda parte dell’episodio, viene trasportato cadavere per le stesse strade percorse da Ciappelletto, con l’assassinato nel sacco, all’inizio del film (l’inquadratura attraverso la finestra tonda è quasi identica); dunque c’è una riproposizione quasi speculare della parabola sesso-cibo-morte che contraddistingueva (in parte) il primo episodio: Ciappelletto, assassino e ricchione, sviene durante un pranzo, così come Tingoccio muore dopo aver amoreggiato e mangiato in casa della comare. Ma la somiglianza tra i due episodi termina qui; infatti in questo vi è "assai di quello che creder non si dee", cioè la presenza della morte è come esorcizzata dall’elemento fantastico. Tingoccio, infatti, ritorna dalla morte; e ritorna, recando il suo messaggio confortante, tronfio della stessa strafottenza da "dritto" che aveva in vita, descrive le punizioni del purgatorio con dovizia di particolari escrementizi e saluta l’amico con il dorso della mano dicendogli un prosaico «Statte buono».
L’abisso perturbante che si apriva davanti a Ciappelletto qui rimane confinato e notevolmente ridotto (ma presente) in alcuni particolari marginali: il vento gelido che scuote i fiori all’arrivo del fantasma, il suo pallore, la cappa di tristezza che lo avvolge quando deve congedarsi per il sopraggiungere della luce del sole; ma, come si è detto, si è ben lontani dalla vertigine e dalla solitudine titanica della dannazione di chi reca, impresso sulla fronte, "il marchio di Caino".



Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo


tesi di laurea



La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini

Laureando:
Fabio Frangini

Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000

Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

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