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sabato 26 dicembre 2020

La “Trilogia della vita” 5) Il Decameron, Pasolini e Boccaccio - di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Qui l'indice del lavoro

Il Decameron

1. Pasolini e Boccaccio.


"Ho letto il Decamerone, ho scelto le novelle che mi piacevano di più, selezionando fino a che sono arrivato a undici0 […] La scelta è stata fatta per motivi un po’ arbitrari, cioè per motivi di gusto personale. Evidentemente, le ragioni per cui una novella mi piace più di un’altra sono complesse. Non sono, cioè, puramente edonistiche."
Con la sola eccezione dell’episodio tratto dalla novella di Alibech (poi escluso in fase di montaggio) in cui Pasolini fa divenire figlia di re la fanciulla protagonista (mentre in Boccaccio era solamente "figlioletta bella e gentilesca" di "un ricchissimo uomo"), nella selezione operata da Pasolini rispetto alle cento novelle boccacciane l’elemento saliente è, senza dubbio, quello di aver completamente ignorato le novelle di ambientazione aristocratica ereditate dalla tradizione cortese e che caratterizzano molti episodi «culti» e dal registro stilistico «alto» del novelliere trecentesco. Inoltre risulta essere largamente ridimensionata «l’epopea dei mercatanti» (Branca) assieme all’esaltazione dell’ingegno, dell’intraprendenza, «dell’onestà» presente nei racconti che hanno come protagonista l’eroica classe borghese della rinascenza medievale. Gli episodi che si rifanno a novelle che in qualche modo presentano personaggi di estrazione borghese sono quelli di ser Ciappelletto (I, 1), di Andreuccio da Perugia (II, 5),di Lisabetta (IV, 5) di Ricciardo Manardi o de "l’usignolo" (V, 4) e l’episodio quasi completamente modificato di Giotto e Forese da Rabatta (VI, 5); ma, come vedremo, nell’adattamento pasoliniano (anche per il tipo di novelle scelte) l’elemento sociale e delle virtù connesse è allontanato sullo sfondo per una sorta di "livellamento verso il basso" che appiana i tipici tratti borghesi che in Boccaccio distinguono nettamente i "messeri" dagli "uomini discoli e grossi" del popolo minuto. Quando nella stesura cinematografica questi tratti distintivi permangono risultano significativamente ribaltati in vizi meschini, e all’esaltazione eroica boccacciana si sostituisce l’antico disprezzo di Pasolini per la classe sociale che lo aveva emarginato ed escluso.
Gli episodi tratti da novelle che hanno protagonisti di "leggiera condizione" sono quattro (sempre che non si voglia considerare tale la novella delle "brache del prete" (IX, 2) che, nel film, viene narrata da un "lettore pubblico" nella seconda parte dell’episodio di Ciappelletto) vale a dire: la novella di Masetto da Lamporecchio (III, 1), di Peronella (VII, 2), di Tingoccio e di Meuccio (VII, 10) e di donno Gianni di Barolo (IX, 10). Mentre dal semplice punto di vista quantitativo il rapporto tra novelle "borghesi" e novelle "popolari" risulta paritario, in realtà nel Decameron di Pasolini il mondo proletario risulta essere preponderante ed egemone stravolgendo l’ottica aristocratico-borghese del Boccaccio; infatti lo scrittore fiorentino fondando il suo futuro utopico sulla sintesi dei valori cortesi della vecchia nobiltà con lo spirito di intraprendenza borghese, tratta le storie e i personaggi della classe sociale inferiore partendo dal suo punto di vista privilegiato, osservando e godendo con curiosità la spontaneità e l’arguzia popolare senza disprezzarla, ma mantenendo sempre il distacco ironico (ma non sarcastico) di chi non viene mai meno alla coscienza e al riconoscimento della propria classe sociale; trasfigurando la "materia bruta" del racconto nella "nobiltà letteraria" della sua prosa luminosa ed immortale. Pasolini invece, come si è detto, nella sua personale rilettura del Decameron opera un ribaltamento della prospettiva originaria, in modo tale che alle dinamiche sociali del medioevo storico, oppure interne all’opera del Boccaccio, si sostituisce un universo coeso e uniforme; il "brulichio puramente esistenziale" di chi vive al di fuori o ai margini della storia, vivendo e morendo all’interno del solco eterno ed immutabile della millenaria cultura popolare. Cultura che appartiene a coloro che sono "I più adorabili di tutti" perché "sono quelli che non sanno di avere diritti" e vivono in quel mondo che, in poche parole, da Boccaccio era visto ironicamente "dall’alto", e che ora, in Pasolini, assorbe "dal basso" ogni altra realtà proponendosi come unico ed assoluto perché separato dal divenire storico.
"Io ho ritagliato un Boccaccio mio, particolare. Il mio Boccaccio infinitamente più popolare del Boccaccio reale. Il Boccaccio reale è popolare in un senso molto più vasto di questa parola: la borghesia veniva lecitamente compresa nel popolare, allora le istituzioni erano ancora feudali, erano ancora aristocratiche. Il potere era ancora un potere, o metafisico nel Papa, o insomma era comunque un potere sacro. Dunque, la borghesia, in qualche modo, era estremamente più vicina al popolo. Quindi, l’opera del Boccaccio si può definire popolare. In questo momento, ho dovuto ritagliare ciò che di tipicamente borghese c’era in Boccaccio, e propendere verso la parte, concretamente, veramente, esistenzialmente popolare. Quindi ho ritrovato quella gioia (che nel Boccaccio è giustificata ottimisticamente dal fatto che lui viveva la nascita meravigliosa della borghesia) e l’ho, diciamo così, sostituita con quella innocente gioia popolare, in un mondo che è ai limiti della storia, e in un certo senso, fuori della storia."
Rispondente a questa esigenza di "ritagliare" un Boccaccio particolare (o di ricrearne uno nuovo attraverso la rilettura personale) è la decisione di ambientare i nove episodi nel napoletano e di utilizzare, al posto del fiorentino letterario del Decamerone, il dialetto campano, sfaccettato, spesso, nella moltiplicazione delle varie calate contadine. Napoli, secondo Pasolini, era una di quelle enclaves della cultura popolare di cui si è già parlato e che ancora resistevano (tragicamente perché destinate ad una scomparsa irrevocabile) all’omologazione distruttiva del nuovo capitale:

"Ho scelto Napoli per il Decameron perché Napoli è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano, e, così, di lasciarsi morire: come certe tribù dell’Africa, i Beja, per esempio, nel Sudan, che non vogliono avere rapporti con la nuova storia, e si lasciano estinguere relegati nei loro villaggi, fedeli a se stessi, autoescludendosi. I napoletani non possono fare proprio questo, ma quasi."

La lingua usata, invece - che secondo alcuni indicherebbe una contaminazione tra Boccaccio e il Basile de Lo cunto de li cunti, in modo tale che alla mediazione letteraria trecentesca Pasolini avrebbe sovrapposto, manieristicamente, il filtro letterario dell’opera barocca - secondo me deriva direttamente dal napoletano parlato che il regista conosceva "esistenzialmente" nei "parlanti" e nei "viventi" che, fra l’altro, prestavano il loro corpo e la loro voce come attori nel film. Quindi non ci sarebbe una contaminazione erudita tra due Auctores, ma la contaminazione tra la lingua medievale e letteraria del Decamerone e il dialetto "dell’ultimo istante" ancora vivo e fecondo nella città meridionale. Pasolini chiarì le ragioni ideologiche ed artistiche di questa scelta in questo modo:

"[Rispondendo alla domanda se la scelta del napoletano era dovuta ad una polemica contro il centralismo della lingua toscana del Boccaccio] Nessuna polemica con Firenze: ormai Firenze, come centro linguistico-guida è finita. I centri linguistici-guida dell’Italia sono le aziende di Milano e Torino, checché ne dicano i linguisti, come Segre, essi sì rimasti agli anni Cinquanta, all’idea dell’egemonia linguistica popolare, attraverso un’ascesa della lingua dal basso! Ho scelto Napoli non in polemica contro Firenze, ma contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente Babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano. Non si tratta tuttavia di film dialettale. Il napoletano è la sola lingua italiana, parlata, a livello internazionale"

Amplificando il senso di ciò che è appena stato detto si potrebbe dire che Pasolini non abbia voluto ricreare nel suo film un medioevo storico plausibile, e nemmeno il medioevo visto attraverso la mediazione boccacciana, ma piuttosto abbia ricercato una sorta di "medioevo della memoria" che facesse rivivere (riesumandoli o sottraendoli alla corruzione del divenire) i volti e i corpi del passato recente, spazzati via o fatti sopravvivere a se stessi dal nuovo corso storico.
Ma allora quale senso si deve dare alla scelta del Boccaccio? È solo un pretesto? Oppure esistono delle consonanze che vanno ricercate nelle profondità delle due opere?
Il Decamerone è un inno alla realtà, i luoghi, le cose, le persone vivono sulla pagina che hominem sapit; inoltre è (anche) un’opera comica: la situazione «carnevalesca» in cui è inserito il racconto delle novelle (l’evasione dall’orrore della Firenze appestata) permette di porre al centro dell’attenzione, di riscoprire irridendo ogni ipocrisia, gli elementi tipici della comicità liberatoria: il «basso», la materia, il corpo, il sesso. Nel famoso proemio alla Quarta Giornata Boccaccio, di fronte ai "riprensori" che gli imputavano una passione eccessiva per "gli amorosi basciari e i piacevoli abbracciari e i congiungimenti dilettevoli", si difende raccontando la "novella delle papere" che, in sostanza, definisce l’amore carnale come un'insopprimibile componente dell’uomo e quindi ne esalta la naturalità contro l’ipocrisia, il gioioso appagamento contro l’insana repressione.
Questa riscoperta tardomedievale della bellezza e della naturalità del corpo e del sesso (anche se limitata alla situazione "carnevalesca") può essere facilmente accostata a quanto si è detto dell’ideologia e della poetica pasoliniana attorno alla Trilogia della vita. L’autore di Trasumanar e organizzar ricercava nel Decamerone i fatti e i personaggi che avrebbero dato forza e vita ai corpi e ai luoghi della sua memoria, e che gli avrebbero permesso il recupero momentaneo – seppur cristallizzato nella mediazione letteraria – della sua "idea dell’uomo" che declinava irrimediabilmente verso la voragine del passato e dell’oblio.
Ma se questo può essere un punto di contatto vi sono anche, come vedremo, le differenze:

"Il mio stile, sempre eccessivo, ha trovato il modo di diventare medio. Oh certo, non sono arrivato e non arriverò mai al razionalismo e alla salute del Boccaccio. Purtroppo, non arriverò mai alla grandezza del pessimismo laico che permette di amare sanamente la vita, senza alibi della coscienza, senza pretesti. Non bisogna credere in niente per gioire di tutto"


"Quanto al mito è la mia relazione con il mondo che è mitica: quindi anche nello «stile medio», che ho adottato per il Decameron (rivoluzionariamente rispetto alle mie opere precedenti) persiste quel certo silenzio…"
All’inno della vita boccacciano che si leva dalle soglie di un’età nuova risponde contrappuntisticamente l’elegia pasoliniana della vita "dall’orlo estremo di qualche età sepolta".

Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo

tesi di laurea



La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini

Laureando:
Fabio Frangini

Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000

Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm



Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

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