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martedì 28 dicembre 2021

Pier Paolo Pasolini, 1969 - MEDEA - con un'intervista a Maria Callas

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. E’ il tecnico abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo.
Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello spirito, fa scattare una tragedia spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due culture, sull’irriducibilità reciproca di due civiltà. Potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del
resto, nell’irreligiosità, nell’assenza di ogni metafisica, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è un’illusione. Nulla si perde...

P.P. Pasolini, in Jean Duflot, 
Il sogno del centauro, Roma, 1983



1969
MEDEA

1969–1970
MEDEA
 (da Medea di Euripide)
scritto e diretto da: Pier Paolo Ppasolini

 
fotografia:
Ennio Guarnieri; 
scenografo arredatore: Dante Ferretti; 
architetto: Nicola Tamburro (c.s.c.); 
costumista: Piero Tosi; 
commento musicale: P.P.P. con la collaborazione di Elsa Morante; 
montaggio: Nino Baragli; 
collaborazione alla regia: Sergio Citti; 
assistente alla regia:
Carlo Carunchio; 

interpreti e personaggi: 

Maria Callas (Medea); 
Laurent Terzieff (Il Centauro); 
Massimo Girotti (Creonte); 
Giuseppe Gentile (Giasone); 
Margareth Clementi
(Glauce); 
Sergio Tramonti (fratello di Medea); 
Anna Maria Chio (Nutrice);

Altri interpreti:


Paul Jabara
Gerard Weiss
Franco Jacobbi

Luigi Barbini
Gianpaolo Duregon
Piera Degli Esposti
Luigi Masironi
Graziella Chiarcossi
Michelangelo Masironi

produzione:
San Marco S.p.A. (Roma) / Le Films Number One (Paris) / Janus Film und Fernsehen (Frankfurt);
produttori: Franco Rossellini, Marina Cicogna;
produttori associati: Pierre Kalfon, Klaus Helwig; 

pellicola: Kodak Eastmancolor; 
formato: 35mm., colore, 1:1.85; 
macchina da presa:
Arriflex; 
sviluppo e stampa: 
Technostampa; 
sincronizzazione: NIS Film; 

distribuzione: Euro International Films; 

durata: 110’28’’ (3022 m.)


PRIMA PROIEZIONE:
28 dicembre 1969, Milano, Cinema Mignon.


STORIA:
Film girato dal 7 maggio al 16 agosto 1969 nei teatri di posa di Cinecittà; esterni in Turchia, Siria; interni Aleppo (Siria), Pisa, Marechiaro di Anzio, Laguna di Grado, dintorni di Viterbo.


Perché tutto questo, signora Callas?

       Perché lavorare mi piace, lavorare è sempre bello, è il mio vero divertimento.

       È questa la sua filosofia?
La vita è seminare e raccogliere. Via via che gli anni
passano si vede ciò che si raccoglie, nel bene e nel male. E poi il tempo consolida giudizi più precisi, quello che sembrava male diventa bene, spesso, perché in un primo momento a qualcuno sembra sbagliato ciò che fai, e che si rivela invece giusto.

       Ma spesso non si lavora soli, signora, ci si
confronta con qualcuno, con qualcosa...

       Il lavoro col regista deve essere un lavoro a pari livello, non di responsabilità, ma di intelletto: se i due sono intelligenti le cose vanno bene, e i traguardi, per quanto mi riguarda, sono ambiziosi non per me, ma per il mio lavoro, la qualità che voglio raggiungere.

       Che cosa conosceva di Pasolini?

       Mi aveva interessato, naturalmente, vedere i suoi film, più tardi ho letto le poesie, che mi hanno colpito per la loro grande semplicità. Successivamente, conoscendolo di persona, la base della nostra stima è
stata proprio questa semplicità così autentica e oggi così rara.

       Come è arrivata a lavorare con lui?

       Da tempo, ogni anno, Franco Rossellini mi offriva gentilmente un film. Per una ragione o per l’altra
rifiutavo, e specialmente rifiutavo l’opera lirica sullo schermo. A un certo punto ci si fermò su Macbeth, il regista doveva essere forse Antonioni o Bolognini: ma io tenevo più alla tragedia che all’opera, e non se ne fece nulla. Un anno dopo, Rossellini venne da me con un progetto concreto di Pasolini, su Medea – era, credo, il 19 ottobre del ’68 –, e ci incontrammo in una felice
coincidenza di volontà. Io avevo visto Edipo re, che mi era piaciuto, poi Teorema, Teorema non l’ho capito, a me occorre il cento per cento di verità e di chiarezza; anche Il Vangelo mi è piaciuto. In generale molti parlano bene di Pasolini, contestatore, come si dice oggi, ingenuo, poeta, nuovo, sincero, persino indifeso. Ma la prima volta che ho parlato con lui, non mi ha
persuaso: io ho attaccato gli intellettuali che sono troppo difficili e portano via la verità alle cose, state col naso sui libri e non vedete la vita. Lui non ha reagito, nello stesso tempo – è vero – non ha tenuto verso di me un atteggiamento violento, voglio dire verbalmente, è chiaro.

       E così...

       Così ho capito che il lavoro con lui sarebbe stato facile. Da lì in avanti, dopo quel primo incontro, poi, qualche tempo dopo, cominciò il film e Pasolini non ha mai imposto se stesso né nei confronti di me come attrice né nei confronti del personaggio di Medea, una
volta che mi ha chiarito la sua interpretazione.

       E lei come ha visto Medea?

       La meno sanguinaria possibile, non credo al grand guignol... La Medea di Euripide sono due ore di tragedia molto pesante. Pasolini ha avuto un’idea straordinaria,
che a me è piaciuta molto: c’è una Medea barbara e una greca, c’è il sogno e c’è la realtà. In Cherubini c’è la tragedia e basta. Questa è più moderna, alla tragedia vera e propria si arriva progressivamente, oltre la metà, perché c’è tutto un inquadramento di mitologia e di leggenda che è molto significativo. D’altra parte il personaggio lo abbiamo via via costruito
un po’ insieme, anche per adattarlo alle esigenze di oggi.

Lei è famosa e importante, oltre che per la sua voce, anche perché ha riportato – o portato – sulla scena lirica la qualità della recitazione, l’«interpretazione» oltre che la bellezza del canto. Come si è trovata, col 
cinema?

       Non c’è una gran differenza, malgrado quel che sembra, c’è solo una diversità di misura nei gesti, anche perché, anziché avere davanti a me tremila persone, in un teatro, qui ho uno spettatore solo, e 
vicino, il regista. A certi gesti in teatro, ne corrispondono in cinema altri ridotti; a un gesto ridotto può non corrispondere niente.

       Per esempio?

       Sulla scena dovevo rendere con un movimento di
mano la circostanza che Medea non è greca, un gesto non civilizzato più duro: nel cinema il problema non esiste, tutto è più breve e più accorciato. Le dirò di più: anche sul palcoscenico io ho sempre cercato l’intensità, l’essenzialità, non avevo particolari problemi: intensità e movimenti essenziali, potevo permettermelo, un gesto, solo quando ce n’era davvero bisogno. Il gesto
inutile è un gesto folle. La mia prima Medea è del ’53, al Maggio Musicale Fiorentino, queste non sono idee di oggi. Vorrei ricordare che in quella occasione facemmo soltanto cinque giorni di preparazione, compresa la prova generale.

       E con Pasolini come si trova, a proposito di questi
suoi punti di vista?

       Credo proprio che la nostra collaborazione abbia portato qualche vantaggio a lui e a me. Con Pasolini parliamo molto, lui ha una maniera molto ingenua di esprimersi, che è poi molto poetica.

       Proprio in questi giorni si è riparlato molto di lei, del suo lavoro come cantante, c’è stato un dibattito sul «Radiocorriere»...

       Sì, ho letto... vede vorrei dire che non penso tanto a inquadrare i miei personaggi nella loro realtà storica, ma devo interpretarli come personaggi di «invenzione».
Ad esempio, devo dimenticare la storia vera di Anna Bolena, io la devo rendere come figura di fantasia, anche se è storica. Quindi mi baso sul mio istinto.

       E il canto, signora Callas? Cos’è il canto, cos’è la voce?

       La voce è uno strumento di espressione. I suoni sono colori, per esprimere un sentimento; anche per un oratorio, ci si esprime con dei colori. La voce non sono note, e basta. Sono colori, con la voce si dipinge, deve essere anche acidula, mi occorrono tutti i colori per esprimere tutti i sentimenti. Ma ci vuole molta fede, molto istinto e molta sicurezza, anche se mentre si
crea un personaggio vengono dubbi enormi: noi siamo interpreti, non compositori, rispettiamo il compositore e il suo stile, poi ne abbiamo in mano il destino. E anche quando le cose vanno bene, non credo mai a un «trionfo» per me, è sempre un lavoro d’équipe, così sulla scena come in cinema: non dico mai io, da sola; penso piuttosto al compositore, che deve essere
rispettato per primo.

       In Medea, come andrà...

       Con Medea vorrei aiutare tutti, fare del bene a Pasolini, a Medea, a una leggenda suscitatrice di sentimenti non piatti. Infatti io amo i personaggi
«nobili», nobili di sentimenti, voglio dire, non di classe; e anche se non è facile cerco sempre di mettere in loro dei sentimenti nobili. Credo questo si addica alla mia natura. Spero di essere riuscita a far venir fuori l’umanità di Medea il più possibile, anche se nella leggenda non ce n’è molta, c’è più cattiveria... forse sono un po’ in contrasto con Pasolini, ma io voglio più
la bontà del personaggio, vado oltre i suoi aspetti più sgradevoli. L’aggressività non esiste nella mia natura. Mi dispiace quando sono obbligata a difendermi, ma attaccare non è nella mia natura. L’arte non è mai «aggressiva», perché non si può lavorare bene con una tensione continua, e l’ambiente di lavoro deve essere tranquillo per favorire quella concentrazione che
permette di dare il massimo.

       E nella vita?

       Anche nella vita, certamente. So che è più difficile vivere così, ma questo è naturale. Portare gli interessi professionali nella vita è una cosa spesso spiacevole,
infatti io cerco di tenere la mia vita molto lontana dal mio lavoro. Proprio quando mi si vorrebbe costringere alla lotta, resto calma, per natura, e ne ho vantaggio, anche se alla lunga costa fatica.

       Questo rende la vita più difficile, no?

       Certamente, è vero, ma questa è la mia natura e io sono a posto con me stessa. Sono gli altri che devono qualcosa a me, io non devo nulla a nessuno. Voglio dare e basta. Chiedo rispetto e non insulti. Non amo gli estremi, anche se il destino mi porta a situazioni estreme. La gente crede che io sia molto diversa, forse il contrario di quello che sono, sono
convinta di questo. Voglio anche dire che non arrivo a offrire l’altra guancia, però non rispondo mai a uno schiaffo con uno schiaffo. Questo è un discorso metaforico, ma non può essere smentito, voglio che sia molto chiaro.
       
Quanto influisce, sulla sua mentalità, la sua
origine greca?

       Nella filosofia della vita mi sento greca davvero, cioè specialmente nella costruzione positiva della vita, non nel masochismo, direi. La fatalità la capisco, nel destino credo fino a un certo punto, credo nel destino che ciascuno si fa con le sue mani. Non mi fermo a dolermi nel
male, ma vado avanti a costruire, invece i personaggi greci (e i greci, forse?) hanno tendenza a distruggersi.

       E lei come reagisce, in questo?

       Cerco di uscire dai personaggi a-tutti-i-costi-tragici per uscire dalla disgrazia, cerco di evitare le cose che non vanno, per andare avanti. Questo si riflette anche nella mia vita. Potrei forse
uccidere se mi venisse tolta la libertà, ma in certi casi, se sono attaccata, reagisco – secondo un modo che mi è naturale – con una indifferenza che è soltanto apparente, perché, pur soffrendo, non sono portata alle spiegazioni. Questo sorprende gli altri che però non chiedono a se stessi se abbiano delle responsabilità: e gli resta misterioso che io mi comporti così, e da qui viene la mia fama di dura e di
fredda...

       Il quadro di sé che lei mi dà è molto diverso da quello che ci offrono, da tempo, i rotocalchi, i giornali... Anche in questi giorni c’è un’intervista su un settimanale, in edicola proprio adesso, un’intervista in cui lei dà giudizi sull’uno e sull’altro, e dice alcune cose direi «cattive»...

       Ma io non faccio mai polemiche sui giornali, io sono un’introversa. Sono una vittima di quello che i giornali scrivono, i giornali inventano, rilascio rarissime interviste, e poi spesso vengo ingannata. Non faccio mai interviste in Italia – lei è un’eccezione – perché poi qui i giornali, i settimanali si divertono a ironizzare a tutti i costi o nei titoli degli articoli o nel testo, facendomi dire ciò che non ho mai detto: questo è inutile e
avvilente, anche perché sottovaluta l’intelligenza del lettore. Anche ora Pasolini deve insistere perché qualche volta io parli col corrispondente di qualche giornale importante, ma io non mi sento a mio agio, non ho voglia di parlare. Sa che ha dovuto insistere un po’ anche perché parlassi con lei? Questa storia dei giornali che scrivono su di me tutto quello che vogliono, che inventano, eccetera, deve finire,
finalmente...1

       Pensa di continuare, col cinema?

       Nel cinema, come le ho detto, la differenza sta nei gesti, il personaggio è come sotto una lente di ingrandimento... Credo al destino, in una certa parte... chissà! In questo credo al destino. Se mi vorranno, o no. Sto al gioco della vita e... della maggioranza. In certe cose la
massa ha ragione, anche se non l’ha: nei giudizi su uno spettacolo, per esempio.

       E nella realtà, nella storia?

       Le rivoluzioni le fanno le minoranze, d’accordo: ma se poi la maggioranza non è d’accordo o rapidamente non si va avanti con una causa buona per la maggioranza, non si va avanti. Nell’arte,
si giuoca una carta, e devi stare al giuoco anche se la massa ti respinge a torto.

       Quali sono e quali sono stati i suoi rapporti col pubblico?

       Credo sempre buoni, ma il giudizio del pubblico non è mai prevedibile: tu hai mille ragioni però forse paghi qualcosa di male che hanno fatto altri e
il pubblico non ti vuole e basta.

       E in Medea?

       Credo che in Medea potrò essere capita, perché il personaggio è reso il più possibile umano, nel personaggio ci sono tutti i sentimenti: ma è una carta con mille incognite. Ma gli attori, noi dobbiamo sempre tener conto dell’opinione del pubblico, con l’essere
fedeli ciascuno a se stesso e alla propria arte, alla personalità e al mondo interiore di Pasolini, della Callas, senza ricorrere a ermetismi fini a se stessi. Penso di essere chiara. Ci sono tanti uomini, tanta gente brava e buona: se ognuno ha rispetto di sé e degli altri, penso che la maggioranza mi dia ragione, e quindi felicità.
     
  Ancora un pensiero al suo futuro nel cinema...

       Proprio perché ho cercato di giocare bene la mia prima carta, nel futuro guardo avanti, spero di avere da lavorare, di avere altre occasioni per altri personaggi: non mi interessano cose come I fucili di Navarrone, né La Bibbia, che pure mi fu proposta. Ci sono stati molti
progetti, alcuni anche seri, due di Losey – una persona di cui ho un ottimo ricordo –, per un episodio da Poe e per il Boom; Zeffirelli pensò a una Tosca, ma non mi interessava rifare l’opera; Dreyer – un uomo eccezionale – pensò anche lui a Medea ma i produttori non gli dettero fiducia e il progetto non andò in porto.

       Ma questo è il passato...

       Sì, ma il passato le dà un’idea delle cose che voglio fare, non tanto come tipo di personaggi, ma come serietà di impegni, come chiarezza. Cerco sempre, direi esigo la chiarezza nei rapporti di lavoro, e la serietà degli impegni che si prendono, perché io prendo gli impegni seriamente e desidero altrettanto dagli altri. Ora
volevano mettere su una Traviata a Parigi, ho detto bene, chi è il maestro, chi è il tenore, quando si prova... invece tutto era troppo vago...
Pensa che l’opera lirica abbia ancora ragione d’essere, oggi, specie per il pubblico?

       Forse la lirica invecchia molto rapidamente, anche una bella messinscena dopo pochi anni non vale più. Ma, vede, io
ho fatto i personaggi che mi hanno divertito, non mi pento di nessuno. Ho dato il massimo, sempre, per dovere e per impegno. Ho cominciato a quattordici anni, sa? La mia è una carriera bella, lunga, piena. Forse la lirica è superata. Ci vogliono troppi soldi, troppa gente, per poco pubblico. E poi o la si fa nel modo migliore o no. Lo dissi nel ’54 inaugurando la
stagione di Chicago: l’opera è un cadavere che ha ancora qualche reazione nervosa. Ma costa troppo, per raggiungere poi pochi spettatori. Il cinema tocca milioni di persone, e non parliamo della televisione.

       La televisione, a proposito, può servire per diffondere ancora l’opera?

       Non credo, l’opera non la puoi vedere a breve distanza, la scatola è piccola ed è troppo vicina allo spettatore. L’opera è sempre «totale», la musica è lenta, o improvvisamente rapida. Penso abbia un suo tempo che non è in rapporto con quello del cinema e della televisione.

       La televisione è utile più alle canzoni...

       Qualche canzone mi diverte, sa? E anche qualche cantante. Però devo dirle che la musica – anche la musica leggera – mi piace soprattutto ben orchestrata, non cantata: e ne sono una ascoltatrice fedele, quando desidero un po’ di tranquillità e di gaiezza.

       Una conclusione, signora, sulla sua Medea?

       Vorrei ripetere quanto forse ho già detto. Medea ha una caratteristica, nel temperamento, che io non ho, l’aggressività: ma qui non è aggressiva, sono riuscita a farla vivere, credo, negli spettatori, con una umanità ricca.

       (intervista di GIACOMO GAMBETTI)



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

2 commenti:

  1. Maravilloso documento, muchísimas gracias. Brillante y esclarecedor sobre el gran maestro.

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