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martedì 28 dicembre 2021

1963 La ricotta

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



La ricotta 1963

Quarto episodio del film RoGoPaG. Gli altri episodi sono:


  • Illibatezza di Rossellini
  • Il nuovo mondo di Godard
  • Il pollo ruspante di Gregoretti .

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini 
Fotografia
Tonino Delli Colli
architetto Flavio Mogherini
costumi Danilo Donati
commento e coordinamento musicale Carlo Rustichelli
montaggio Nino Baragli
aiuto alla regia Sergio Citti, Carlo di Carlo. 

Interpreti e personaggi 

Orson Welles (il Regista, doppiato da Giorgio Bassani); 
Mario Cipriani (Stracci); 
Laura Betti (la "diva"); 
Edmonda Aldini (un'altra "diva")
Vittorio La Paglia (il giornalista); 
Maria Berardini (la stripteaseuse); 
Rossana Di Rocco (la figlia di Stracci).


E inoltre:


Tomas Milian, 
Ettore Garofolo, 
Lamberto Maggiorani, 
Alan Midgette, 
Giovanni Orgitano, 
Franca Pasut. 

Hanno partecipato anche: 

Giuseppe Berlingeri, 
Andrea Barbato, 
Giuliana Calandra, 
Adele Cambria, 
Romano Costa, 
Elsa de' Giorgi, 
Carlotta Del Pezzo, 
Gaio Fratini, 
John Francis Lane, 
Robertino Ortensi, 

Letizia Paolozzi, 
Enzo Siciliano. 

Produzione Arco Film (Roma) / Cineriz (Roma) / Lyre Film (Parigi); 
produttore Alfredo Bini; 
pellicola Ferrania P 30, Kodak Eastman Color; formato: 35 mm, b/n e colore; 
macchine da ripresa
Arriflex; 
sviluppo e stampa Istituto Nazionale Luce; 
doppiaggio CID-CDC; 
sincronizzazione Titanus; 
distribuzione Cineriz; 
durata 35 minuti. 
Riprese ottobre-novembre 1962; 
teatri di posa Cinecittà; 
esterni periferia di Roma; 

premi
Grolla d'oro per la regia, Saint Vincent, 4 luglio 1964.



Le vicende narrate nel film

Stracci, che "interpreta" come comparsa la parte del ladrone buono in un film sulla Passione di Cristo che un
pretenzioso regista (
impersonato da Orson Welles) che si autodefinisce marxista ortodosso sta girando su un enorme prato della periferia romana, è un sottoproletario perennemente affamato. La scena è ingombra di decine di membri della troupe e di comparse, che in mezzo alla scenografia "sacra", alcuni ancora in costume da santo, ballano un twist scatenato. Quando la
sua povera e numerosa famiglia lo va a trovare sul set, Stracci dona loro il cestino del pranzo che gli spetta in quanto attore per consentirgli di consumare un misero pasto in mezzo al prato, che assume il valore di una vera e propria eucaristia. Per non saltare il pasto, Stracci, approfittando della confusione del momento di pausa, si traveste da donna e riesce a "rimediare"
un nuovo cestino dalla produzione. Con infantile entusiasmo si accinge quindi a mangiarlo, al riparo da tutti, in una piccola grotta poco lontano dal set. Ma dal set giunge l'ordine di presentarsi in scena, e Stracci a malincuore è costretto ad abbandonare il suo cestino dietro un sasso. Quando torna, trova che il cagnolino della prima attrice del film ha divorato tutto il contenuto del suo
cestino. Stracci, sconsolato, piange a grandi lacrime come un bambino, e nella disperazione rimprovera il cane accusandolo di voler essere meglio di lui perché è "il cane de 'na miliardara". Nel frattempo sul set giunge la visita importuna e inattesa di un giornalista di "Teglie sera", che con fare deferente e complimentoso avvicina il regista per un'intervista. Il regista risponde alle sue
domande piene di retorico buonsenso di "uomo medio" con una feroce e beffarda ironia intellettuale, che il cronista non è neppure in grado di cogliere. Dopodiché il regista recita una poesia davanti all'attonito giornalista, e con fermo cinismo gli spiega perché, secondo la sua ottica "marxista", lui semplicemente "non esiste". Il giornalista, frastornato, se ne va dal set, e incontra Stracci che,
nei pressi della grotta, accarezza il cane della prima attrice. Notato l'insistente interessamento del giornalista per il cane, Stracci glielo vende per mille lire, ripagandosi così del maltolto. Appena concluso l'affare Stracci si precipita a comprare un gigantesco pezzo di ricotta, con l'intenzione di ingurgitarlo al riparo da tutti. Ma proprio mentre sta per cominciare il pasto, il "ladrone buono" è
richiamato sul set dal megafono. Così, Stracci, lasciata la ricotta nella sua grotta, viene legato sulla croce, e nell'attesa che sia pronto il set, assiste a un improvvisato strip-tease di una rubiconda attrice vestita da santa, mentre viene stuzzicato sulla sua fame dai membri della troupe. Quando tutto è pronto, la prima attrice pretende di girare subito la sua scena, e la
scenografia viene di nuovo smontata, per lasciare spazio alle interminabili riprese di un tableau vivant che riproduce la Deposizione del Pontormo. Finalmente Stracci può tornare nella grotta a "strafocarsi" della sua ricotta. Mentre mangia con avidità, altre comparse e alcuni tecnici, divertiti dal grottesco spettacolo della sua fame atavica, lo fanno cibare dei resti della
scena dell'ultima cena, ormai già girata. Stracci, in mezzo alle risa dell'improvvisato pubblico, mangia ogni sorta di cibarie senza battere ciglio. Nel frattempo, sul set

arriva il produttore seguito dal drappello della stampa specialistica: il gruppo assisterà alle riprese della scena della crocefissione della morte di Cristo, nella quale Stracci ha addirittura una battuta:
"Quando sarai nel regno dei cieli, ricordati di me". Al grido di "azione!" del regista, però, la scena non parte: Stracci, infatti, è morto di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta:
"Povero Stracci. Crepare... non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo...".

da S. Murri, Pier Paolo Pasolini, 
Il Castoro-l'Unità 1995

*****

«La ricotta»
Pasolini su Pasolini
    Conversazioni con Jon Halliday


   
H. – Quando fece La ricotta stava già pensando al Vangelo?

   P. – Sì, scrissi la sceneggiatura della Ricotta mentre stavo ancora girando Mamma Roma, ma pensavo già di fare Il Vangelo prima di incominciare le riprese della Ricotta, e quando effettivamente girai quest’ultima avevo già scritto il treatment del Vangelo, e delineato le
idee creative in generale.

   H. – Mi dica: Ro.Go.Pa.G. fu concepito come opera unitaria? C’era qualche accordo circa quello che avrebbero fatto lei e Godard e Rossellini, o tutti e tre faceste quello che volevate, ciascuno per proprio conto?

   P. – Sfortunatamente, Bini organizzò il
film a modo suo. Già prima avevo avuto l’idea di fare La ricotta, e l’avevo proposta a un altro produttore, che morì. Ma i suoi l’avevano tirata per le lunghe perché avevano paura; pensavano che fosse troppo violento. In ogni modo, non ero riuscito a far decollare il film e così mi trovai ad avere quella sceneggiatura pronta quando Bini mi chiese se volevo farne un film per lui.
Però aveva già deciso di fare un film a episodi. Non ebbi alcun contatto né con Rossellini né con gli altri; seppi solo che anche loro stavano preparando degli episodi.

   H. – Orson Welles è un altro attore professionista che ha usato, in questa occasione. Come andò? Chi l’ha doppiato, visto fra l’altro che doveva
leggere una sua poesia?

   P. – Be’, come le ho già detto, io scelgo gli attori per quello che sono realmente; scelsi Welles per quello che è: un regista, un intellettuale, un uomo che aveva qualcosa del personaggio che viene fuori nella Ricotta; anche se, naturalmente, è una persona molto più complessa di tutto questo. A doppiarlo
fu Giorgio Bassani.

   H. – Se sceglie gli attori per quello che sono, deve allora esservi una continuità nei personaggi da un film all’altro: per esempio, l’uomo che fa il giornalista nella Ricotta è la stessa persona che è raggirata e irrisa in Mamma Roma. È questa la sua funzione, di essere gabbato anche nella Ricotta?

  
 P. – Ciò che una persona è veramente è qualcosa di profondo e misterioso. La caratteristica profonda e misteriosa di quest’uomo non è che si lasci raggirare, cosa tipica di molta gente, in particolare quella ingenua e gentile; la caratteristica più profonda è la sua volgarità, una volgarità fondamentalmente incolpevole, perché egli non si rende conto di quello
che è. È solo un poveraccio che sprizza volgarità da tutti i pori. Non credo che sia cattivo o qualsiasi altra cosa: è vile e profondamente volgare, ma con innocenza. È questa la vera qualità di cui mi sono servito in entrambi i film.

H. – A quanto sembra, lei pensa che il conformismo sia un carattere essenziale dell’uomo medio: è una delle parole che
usa in Comizi d’amore, quando parla agli studenti dell’Università di Bologna e cerca di indurli a dare una definizione del conformismo. Lei che cosa pensa che sia, e fa parte dell’essenza dell’uomo moderno non rendersi conto di ciò che egli stesso è?

   P. – Si potrebbe dire che è la decadenza dell’integrazione nella
società. L’uomo medio è fiero di essere quello che è e vuole che tutti gli altri siano uguali a lui. È riduttivo; non crede nella passione e nella sincerità, non crede in quelli che si svelano, che si confessano, perché non ci si aspettano queste cose dall’uomo medio. Ma l’altra sua caratteristica, uguale e di segno opposto, è che questa sua coscienza non è coscienza di classe; è moralismo, non
coscienza politica.

   H. – Quella è stata la prima volta che ha usato il colore e lo zoom: ha incontrato difficoltà?

   P. – No, usare lo zoom è la cosa più facile del mondo. L’ho scoperto per caso. Ho visto che servendosene si potevano ottenere determinati effetti, e me ne
sono servito. Poi, invece di fare un primo piano con un certo tipo di lente, l’ho fatto da una certa distanza con un 250 ricavando effetti pittorici che mi piacciono, che danno un’immagine masaccesca. Non ho avuto difficoltà con il colore perché la sola cosa difficile è la scelta dei colori: nella vita reale ce ne sono troppi. Per questo ho scelto il Marocco per girare Edipo, perché lì ci
sono soltanto pochi colori dominanti: ocra, rosa, marrone, verde, l’azzurro del cielo; solo cinque o sei colori che la macchina deve registrare. Per fare un film a colori veramente buono bisognerebbe dedicare un anno, un anno e mezzo a scegliere i colori giusti per ciascuna immagine, quelli di cui si ha veramente bisogno e non i venti o trenta colori che si trovano sempre nel cinema.
Dunque La ricotta è stato facile: mi sono limitato a riprodurre esattamente i colori usati dal Pontormo e da Rosso Fiorentino.

   H. – Ebbe un sacco di fastidi per quel film, non è vero? Come mai fu condannato alla prigione?

   P. – Fui condannato a quattro mesi
con la condizionale in base a una legge fascista che è ancora in vigore perché fra i magistrati di qui non è mai stata fatta una epurazione. Sono molti i magistrati condannati da tribunali antifascisti che ancora «siedono a scranna». Nel codice fascista sono contemplati molti reati di vilipendio, compresi quello alla nazione, alla bandiera, alla religione. Il processo fu
una specie di farsa, e la sentenza fu ribaltata in appello. Non saprei ancora dire esattamente perché e di che fui imputato, ma per me si trattò di un periodo tremendo. Fui diffamato pubblicamente per settimane e settimane, e poi per due o tre anni dovetti subire una specie di persecuzione inimmaginabile. Non posso, tuttavia, dire veramente perché
tutto questo sia avvenuto, se non come espressione dell’opinione pubblica, che io giudico essere, cosa curiosa, profondamente razzista. Si dice che gli italiani non siano razzisti, ma io credo che sia una grossa bugia. La borghesia italiana finora non è stata razzista solo perché non ne ha avuto occasione. In Libia e in Eritrea gli italiani generalmente non erano razzisti perché
erano dei sottoproletari calabresi e siciliani. La piccola borghesia non ha avuto modo di dimostrarsi razzista, ma lo è. L’ho capito dal suo atteggiamento nei confronti dei miei film. L’opinione pubblica mi si è voltata contro per qualche indefinibile odio razzista, un odio che, come tutto il razzismo, è irrazionale. Non ha potuto accettare Accattone e i suoi personaggi
sottoproletari. È stato il razzismo a dare all’opinione pubblica quella spinta che ha reso possibile il processo.

H. – Il film fu vietato definitivamente in Italia?

   P. – No, fu proibito per qualche tempo dopo il processo e sequestrato, ma riuscii a farlo uscire con qualche taglio di
minor conto, come una scena di un tale che gridava: «Via le croci» (quando il regista voleva girare un’altra scena); la battuta era stata giudicata anticattolica. Ma La ricotta non ha comunque avuto successo perché, come sa, se un film non esce al momento giusto è un fiasco assicurato.


*****

Angela Molteni - aprile 1997

TRAMA


“Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Co­loro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente
affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la sto­ria della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”, 
è una premessa che Pasolini stesso fa al suo film La ricotta.­
Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita. Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell’autore è quello di trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi che cercherò qui di seguito di mettere in luce.


Vi sono alcuni segni “forti” della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini:

– le citazioni figurative (l’accostamento alla pala d’altare del Pontormo);
– i richiami che ha inserito nel film (alcune sequenze accelerate sia
nelle immagini sia nella musica ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini);
– l’utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un “Sempre libera degg’io” dalla Traviata di Verdi
– titolo oltremodo significativo se solo si consideri l’effettivo grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest’ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica
accelerazione che trascina la musica in un irrefrenabile  “zumpa-pa-zumpa-pa” che si avvita su se stesso...).
È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel
film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l’“enorme mangiata” di ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. Ma, per la prima volta nel cinema pasoliniano, compare anche la
borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage. E viene anche “messa in scena” l’“integrazione sociale” cui sembra essere pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles).

La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle numerose pagine in cui il presente commento è inserito se
ne parla molto ampiamente. Quindi non mi soffermo più di tanto sul processo che ne seguì e nel quale, tra l’altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come 

“il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”.
Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: 

le tre ripetizioni de “la corona!”, lo spogliarello della ge­nerica Maddalena, la risata del generico Cristo;

si sostituisce l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”,

l’espres­sione “cornuti” con “che peccato”,
la frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivolu­zione” con “povero Stracci! crepare, non aveva altro mo­do di ricordarci che anche lui era vivo”!
Soltanto nel maggio 1964 la Corte
d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”.

Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede.
Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco
frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti.

Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista:

“Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”

“Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
“Che cosa ne pensa della società italiana?”
“Il popolo più analfabeta, la
borghesia più ignorante d’Europa.”
“Che cosa ne pensa della morte?”
“Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione”
“Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?”
“Egli danza... egli danza...”

Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia (“Io sono una forza del passato...), tenendo tra le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride):

“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il
produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio.”

In un breve scitto del 1961, infine, Pasolini così si espresse:


“Nulla muore mai in una vita.
Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sem­pre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese roma­niche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio  patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”.

NULLA MUORE MAI IN UNA VITA: è una frase che può essere convintamente e affettuosamente rivolta proprio a Pier Paolo Pasolini.


Angela Molteni - aprile 1997

* Le citazioni sono tratte da Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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