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mercoledì 21 maggio 2025

Lettere a Pier Paolo Pasolini da Massimo Ferretti - Nuovi Argomenti, 7 dicembre 2024

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Lettere a Pier Paolo Pasolini

da Massimo Ferretti | Dic 7, 2024

Pubblichiamo in anteprima tre lettere di Massimo Ferretti a Pier Paolo Pasolini, con risposte di quest’ultimo, dal volume da poco uscito per Giometti & Antonello curato da Massimo Raffaeli.

 LETTERA N. 2

A Pier Paolo Pasolini, Roma

Jesi, 5 agosto 1955

 Caro professore[1],

ho rinunciato a Schwarz[2], cioè a 60.000 lire. Delle ottantamila versate, forse ne riavrò venti: merito di una bugia «drammatica» inventata per l’occasione. Per almeno 5 anni non potrò neppure pensare di stampare un libro; ma non mi dispiace: capisco perfettamente cosa significhi esordire su una rivista come «Officina», e soprattutto cosa voglia dire essere scoperto da LEI.

Dal ’52 in poi ho letto con passione e disordine diversi libri di poesia – buoni e cattivi –; tutti mi hanno dato qualcosa ma nessuno mi ha offerto un mondo da continuare. Dunque, se la «vena» si è sporcata le ragioni sono più gravi dell’influenza esterna di brutti versi (Di Ruscio, Non possiamo abituarci a morire)[3]: ma non voglio pensarci. Sono contento del consenso dei Suoi amici, che a suo tempo ringrazierò direttamente. Se avrà occasione di scrivermi qualche altra volta La prego di darmi del «tu».

Ora sono del tutto inedito, e Lei è il mio Sole: illumini pure quello che vuole. Con i più cordiali saluti suo aff.mo

Massimo Ferretti

 Lettera dattiloscritta con firma autografa  

Pasolini - FOGLIE FUEJS - Libertà, 6 gennaio 1946 - pag. 3

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Pasolini
FOGLIE FUEJS

Libertà

6 gennaio 1946

pag. 3

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )

(Oggi in "Un paese di temporali e di primule" - a cura di Nico Naldini)

 Madame de Sévigné scrisse un giorno in una lettera dai Rochers questo periodetto che il Sainte-Beuve riporta nei suoi Ritratti di donne (senza rilevarne tuttavia una gratuità romantica): «Come sarei felice tra questi boschi, se avessi una foglia che cantasse: oh la cosa meravigliosa, una foglia che canta». C’è una svenevolezza che rischia di scoprirsi in quel desiderio irrichiesto di sentir cantare le foglie; e il soffermarsi sull’idea, col gusto di chi rigiri tra le dita una perla, sfiata un poco le parole in quell’esclamazione sicura dell’effetto. Ora io riconosco a Madame de Sévigné il merito di aver avuto per prima l’impressione che le foglie possano cantare; e quel po’ di romanticismo ante litteram me la rende del resto anche più amabile. Stabilito questo punto, vengo subito alle mie foglie, alle mie «fuejs», che dopo Pordenone (tornando in treno da Bologna) mi diedero un’impressione inesatta, vasta. Un soffio mi separava dall’Emilia (il Po correva a poche ore dalle mie spalle, in un paesaggio inciso nel buio), e l’abitudine a sentirmi laggiù, per le strade della città dov’ero vissuto da ragazzo, stava disfacendosi dentro di me, rotta dallo spietato muoversi del treno. La naturalezza con cui questo avveniva, e io permettevo che avvenisse, mi dava un disgusto distaccato da me; e ne rimandavo l’esame a quel momento imprecisabile del mio arrivo a Casarsa, che tuttavia non mi si sarebbe mai disegnato con la precisione richiesta da un atto conclusivo. Sapevo che in quei prati favolosi un altro «presente» mi avrebbe gettato nelle sue possibilità infinite, benché io, vestito di verde con la cartella in mano, fossi per camminare sopra certi determinatissimi fili d’erba, certo determinatissimo fango. Seduto sulla dura panca, guardavo il paesaggio veneto, e quel verde rosicchiato dall’autunno, quelle case isolate dove si diceva «pare», «mare», «fradèo», «gèrimo», «l’è morto»... entravano nel buio dietro a la mia schiena, sfiorandomi appena l’occhio impotente.

Pasolini, Canzonissima (con rossore) - Tempo, 1 novembre 1969 - pag. 17

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Pasolini
Canzonissima (con rossore)

Tempo

1 novembre 1969

pag. 17

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


È incredibile quello che hanno visto ieri sera i miei occhi, per non più di cinque minuti, fin troppo esaurienti, alla televisione. In quei cinque minuti stavo cenando in fretta, e i miei occhi non potevano non cadere sul «video» acceso, proprio davanti alla tavola (mia madre e mia zia sono tra i dannati che vedono la televisione tutte le sere).

Il mio sguardo era acre, s’intende. Infatti, per tutta la mezz’ora precedente la cena, avevo corretto delle bozze, e la voce sciocca e futile, piena di insopportabile ottimismo, della televisione, mi aveva tormentato.

Acri, erano dunque i miei occhi, ma tutto sommato abbastanza distratti e lontani. Ho realizzato solo dopo un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili una all’altra, stavano facendo delle evoluzioni, d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle, che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote, incastonate in un ritmo, che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile. A cosa alludevano quelle mossucce, quei colpetti di reni e quelle tiratine di collo? Non si capiva bene, ma certo a qualcosa di estremamente convenzionale comunque: a un’allegria collegiale e orgiastica, in cui la donna appariva come una scema, con dei pennacchi umilianti addosso, un vestituccio indecente che nascondeva e insieme metteva in risalto le rotondità del corpo, così come se le immagina, se le sogna, le vuole un vecchio commendatore sporcaccione e bigotto. Tutto ciò, che si presentava come leggero, era invece pesantemente volgare. La «disparità dei sessi» era sbandierata spudoratamente come una legge fatale e prepotente di un «sentimento comune». (Si lotta per il divorzio, e poi si continua a volere e vedere la donna come una buffona, vestita e agghindata come per un mercatino delle schiave?)