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mercoledì 21 maggio 2025

Pasolini - FOGLIE FUEJS - Libertà, 6 gennaio 1946 - pag. 3

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini
FOGLIE FUEJS

Libertà

6 gennaio 1946

pag. 3

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )

(Oggi in "Un paese di temporali e di primule" - a cura di Nico Naldini)

 Madame de Sévigné scrisse un giorno in una lettera dai Rochers questo periodetto che il Sainte-Beuve riporta nei suoi Ritratti di donne (senza rilevarne tuttavia una gratuità romantica): «Come sarei felice tra questi boschi, se avessi una foglia che cantasse: oh la cosa meravigliosa, una foglia che canta». C’è una svenevolezza che rischia di scoprirsi in quel desiderio irrichiesto di sentir cantare le foglie; e il soffermarsi sull’idea, col gusto di chi rigiri tra le dita una perla, sfiata un poco le parole in quell’esclamazione sicura dell’effetto. Ora io riconosco a Madame de Sévigné il merito di aver avuto per prima l’impressione che le foglie possano cantare; e quel po’ di romanticismo ante litteram me la rende del resto anche più amabile. Stabilito questo punto, vengo subito alle mie foglie, alle mie «fuejs», che dopo Pordenone (tornando in treno da Bologna) mi diedero un’impressione inesatta, vasta. Un soffio mi separava dall’Emilia (il Po correva a poche ore dalle mie spalle, in un paesaggio inciso nel buio), e l’abitudine a sentirmi laggiù, per le strade della città dov’ero vissuto da ragazzo, stava disfacendosi dentro di me, rotta dallo spietato muoversi del treno. La naturalezza con cui questo avveniva, e io permettevo che avvenisse, mi dava un disgusto distaccato da me; e ne rimandavo l’esame a quel momento imprecisabile del mio arrivo a Casarsa, che tuttavia non mi si sarebbe mai disegnato con la precisione richiesta da un atto conclusivo. Sapevo che in quei prati favolosi un altro «presente» mi avrebbe gettato nelle sue possibilità infinite, benché io, vestito di verde con la cartella in mano, fossi per camminare sopra certi determinatissimi fili d’erba, certo determinatissimo fango. Seduto sulla dura panca, guardavo il paesaggio veneto, e quel verde rosicchiato dall’autunno, quelle case isolate dove si diceva «pare», «mare», «fradèo», «gèrimo», «l’è morto»... entravano nel buio dietro a la mia schiena, sfiorandomi appena l’occhio impotente.

 E infatti contenevo già in un piccolo spazio della mia testa tutta l’Emilia, con l’enorme svolta da Rovigo a Venezia. È noto come le impressioni troppo precise dell’alba estenuino i sensi, e come quel loro eccessivo nitore, che consente i più imprevisti trapassi illogici, si muova poi, un po’ alla volta, sempre più meccanicamente. Per esempio, la sensazione «emilia» (e rinuncio a tutta Bologna che possiede la mia immagine di adolescente che passa davanti alla chiesa di San Domenico, o tace dall’alto dell’Osservanza), mi aveva talmente pervaso di sé che l’esprimerla in una sua terribile perspicuità «di sogno» mi sarebbe sembrata una cosa naturale; ne possedevo una specie di stile equivalente. Chi guardi infatti la distesa puzzolente di canapa, senza un albero, intorno a Ferrara, o meglio, quella pianura rialzata d’una fertilità esasperante, e tutta immersa in un cielo impassibile, tra Bologna e Ferrara, non può non riconoscervi la sensualità particolare dei suoi abitanti. Cose convenzionali, come le suggestioni etrusche o galliche nei volti di questi, o l’«asprura» pascoliana riferibile tanto alla terra che a quei volti, animate dalla velocità del treno e dalla vivezza dell’alba, si allacciano fra loro con un ritmo nuovo. Certi nessi appaiono virginei, e per nulla strani: si guardi il colore delle zolle attorno a Malalbergo e il colore (nella memoria) di quel tratto della guancia che sta tra le mascelle e le narici di un emiliano: la corrispondenza è perfetta. Il desiderio amoroso in quella parte del volto di un giovinotto emiliano (di una sensualità così prosciugata e soda) compare con la stessa naturalezza schiacciante dei campi. Ma l’incanto di questi confronti, così abusivamente personali, vive nell’eccitazione poetica della solitudine, quando ci si sente superiori a tutti gli altri uomini; e una condizione speciale, come un viaggio difficile, lo fa esplodere con una lucidità che sembra inesauribile. Del resto l’ora era già tarda, e benché il noioso stupore dell’alba (con la nota luce disanimata, la nauseante indifferenza dei luoghi stranieri) non accennasse a finire, una nuova ora stava per operare il miracolo immancabile; voglio dire l’ora del vespro. Una luce d’oro stagnò nelle nubi, un raggio rosso batté sul legno dello scompartimento dietro il capo di un vecchio. L’esterno si staccò ancor più da noi, che eravamo dentro, perdendosi in un silenzio fantastico, in brume incolori. L’inquietudine della campagna deserta, rotta dalle pareti infuocate delle case, trascinava a pensieri amorosi incerti, con immagini umane di una sensualità assoluta. Quanto più inerte e grigia si faceva la campagna vicina, tanto più s’inazzurrava l’orizzonte... Ma la spaventosa luce rossa incollata sul legno, sfuggiva a ogni paragone; era di una intensità tale, e così innocua, aerea, che mi teneva spostato da me, facendomi riconoscere «vivo» nel suo tranquillo sfolgorare. Ma lentamente appassiva. (Non faceva pensare né a sangue, né a fiori, né a pietre preziose; c’era invece nella mia memoria un rossore falso e soprannaturale: lentamente lo riconobbi come la quintessenza di certi versi omerici, virgiliani, tassiani.) Finalmente il Boiardo ebbe un repentino sopravvento:

 «E il rozo pastorel se meraviglia del vago rossegiar de l’oriente...».

 Passato il ponte sulla Meduna, guardai fuori del finestrino e vidi le foglie. Una diversità improvvisa me le dipinse nella loro informe calma sui gelsi, sugli ontani, sui pioppi. Mi bastò guardarle ancora un momento perché il loro aspetto famigliare mi toccasse così acutamente da sentirle davvero cantare. «Fuejs», cantavano le foglie, «aghis» le acque, «Mari, mari» gridava un fanciullo, correndo giù per l’argine, verso una vecchia curva sulla terra, «radic» cantava il radicchio colto da quella mano scura, «vecia» cantava il gesto famigliare di quella donna chinata. Il vespro mi riportava nel Friuli, tra le care foglie, e l’odore della polenta che indovinavo nelle tinte smorte e accecanti dei tronchi, dei muri, mi fece pensare a mia madre con tenerezza insostenibile.

Pier Paolo Pasolini





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Curatore, Bruno Esposito

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