"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Bestia da stile
di Pier Paolo Pasolini:
analisi critica
di un’opera totale
e autobiografica.
"Bestia da stile" rappresenta senza dubbio uno degli apici della produzione drammatica di Pier Paolo Pasolini e costituisce un oggetto di studio privilegiato per comprendere non solo l’evoluzione artistica del poeta e intellettuale, ma anche il senso del dissidio ideologico e civile che attraversa la cultura europea del secondo Novecento. Scritto e riscritto nell’arco di quasi un decennio, dal 1965 al 1974, "Bestia da stile" è una tragedia che mette in scena il dramma di Jan, alter ego dell’autore, simbolo universale della crisi dell’intellettuale, ed evoca suggestioni storiche e filosofiche che dal nazifascismo alla Primavera di Praga riflettono sul destino della modernità e sulla speranza della rivoluzione.
Pasolini stesso ne rivendica la natura spiccatamente autobiografica, ma, come nota la critica più attenta, sarebbe riduttivo considerare quest’opera solo in chiave di confessione personale: "Bestia da stile" si configura piuttosto come un "esperimento di teatro totale", in grado di modulare la forma drammatica secondo vettori molteplici – tra mito e attualità, tra soggettività e populismo, tra memoria storica e urgenza etico-politica.
Per comprendere pienamente "Bestia da stile", occorre inquadrare il clima storico, culturale e personale in cui Pasolini si dedica alla sua scrittura. Siamo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, momento di profondi sconvolgimenti politici, sociali e morali in Italia e in Europa. Il teatro stesso, dopo le rivoluzioni formali di Pirandello, la sospensione della quarta parete nelle avanguardie, le lacerazioni del Living Theatre e di Grotowski, il nichilismo del Teatro dell’assurdo con Beckett e Ionesco, aveva profondamente messo in discussione le proprie coordinate. Pasolini risponde proprio a questa crisi generalizzata della rappresentazione con una precisa proposta alternativa: il "teatro di parola", di matrice greca, orientato a una funzione pedagogica e politica, che rifiuta tanto il teatro borghese quanto quello anti-borghese contemporaneo.
A livello personale, Pasolini attraversa un periodo di isolamento e revisione radicale delle proprie posizioni politiche, soprattutto nei confronti del Partito Comunista e dell'intellighenzia italiana. Le sue riflessioni si intrecciano a una critica aspra con il "pensiero unico" sovietico e con la progressiva mercificazione della cultura. Non meno importante è il contesto internazionale: "Bestia da stile" nasce in risposta diretta all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia nell’agosto 1968, evento che pone fine alla stagione delle riforme di Alexander Dubček e che culmina nel tragico gesto di Jan Palach – il giovane studente che, dandosi fuoco il 16 gennaio 1969 in piazza San Venceslao a Praga, diventa il simbolo stesso del sacrificio in nome della libertà.
Il teatro, per Pasolini, si configura come un luogo di scontro e scandalo, non come spazio di consolazione: egli mira a rivolgersi non al pubblico massa, ma a una élite "colta", a una borghesia intellettuale dotata degli strumenti per decifrare la densa rete di riferimenti letterari, storici e politici presenti nei suoi testi. In ciò il "Manifesto per un nuovo teatro" del 1968 fornisce la chiave di lettura essenziale: la parola è il reale protagonista, la scenografia è ridotta, i personaggi sono funzioni ideali, la messinscena non deve sedurre ma provocare. Tale visione, se da un lato accusa il colpo della sconfitta storica delle masse e delle rivoluzioni, dall’altro rivendica il recupero di una funzione alta dell’arte come "rito culturale".
La ricchezza tematica di "Bestia da stile" è tale da giustificare la definizione di "summa vertiginosa" della produzione pasoliniana. Tra i temi politici, autobiografici ed esistenziali, spicca innanzitutto la riflessione sul destino dell’intellettuale nel Novecento – tra massacro e auto-massacro, tra eresia e condanna del conformismo. Jan Palach, attraverso la scrittura di Pasolini, diventa l’allegoria stessa dell’intellettuale in rivolta: non solo dissidente, ma costantemente preso nel conflitto etico fra bene e male, destinato al sacrificio e all’incomprensione, simile a una "bestia da macello" posta al centro della disputa tra la Storia e il mito.
Un secondo grande tema è quello della storia europea letto come dramma esistenziale e collettivo: i riferimenti alla Boemia degli anni Trenta, alle persecuzioni naziste, alla Resistenza, fino ai drammi della Primavera di Praga e all’avvento dei carri armati sovietici, costruiscono uno sfondo che affonda le radici nei traumi non risolti del XX secolo. La vicenda stessa di Jan si sovrappone autobiograficamente a quella del fratello di Pasolini, Guido, partigiano assassinato nell’eccidio di Porzûs, avvolto in una bandiera rossa poi trasfigurata nei rossi dell’Armata sovietica, amplificando il senso di colpa, lutto e sconfitta che pervade tutto il dramma.
Cruciale è lo scontro simbolico tra Capitale e Rivoluzione: personaggi allegorici, che nel finale si contendono il cadavere di Jan, incarnando i poli di una dialettica ormai logorata e senza sintesi. La rivoluzione, nel suo continuo sforzo di realizzarsi, tende fatalmente alla conservazione o al tradimento; il capitale, invece, nella sua capacità di assorbire ogni moto di rivolta, trasforma ogni purezza ideale in mercificazione, lasciando sul campo solo il corpo del martire. In questo, l'opera di Pasolini anticipa molti dei nodi critici del postmoderno e della cosiddetta "società liquida".
Altro nodo tematico fondamentale è la sessualità: lontano dal puritanesimo, la tragedia la pone al centro come esperienza poetica, politica e di coscienza. Jan, nella sua diversità, rivendica la sessualità come vettore della propria differenza e come forma di scandalo necessario alla vita sociale. La sorella, suo doppio, manifesta la dialettica tra gloria (il riconoscimento sociale, la funzione pubblica) e vergogna (il rifiuto, la colpa privata), delineando quella dissociazione interna all’identità che è tra i lasciti più innovativi del pensiero pasoliniano.
Inoltre, la memoria – individuale e collettiva – attraversa tutta la vicenda: la perdita della madre, la follia domestica, il lutto per il fratello, la guerra e la persecuzione sono sempre vissuti non come semplici ricordi, ma come "traumi produttivi" che interrogano il presente dell’autore e del lettore. La presenza del coro, infine, funge da cassa di risonanza critica, sottolineando l’impossibilità della catarsi e la dimensione meta-teatrale dell’opera.
"Bestia da stile" si sviluppa secondo un impianto atipico rispetto alla tradizione della tragedia: Pasolini stesso lo definisce un "poema del ritorno", una parabola anti-narrativa che rigetta la divisione netta tra personaggi e punta a una drammaturgia eminentemente "di parola". L’opera viene continuamente rimaneggiata, suddivisa in diverse versioni (alcune fonti tra cinque e nove episodi principali, con appendici e prologhi), segno che la revisione e la frammentazione ne sono caratteristiche costitutive.
La struttura può essere così riassunta:
• L’opera si apre con una introduzione corale che ambienta la vicenda nella Boemia tra gli anni Trenta e Quaranta, preannunciando l’atmosfera sospesa tra morte e rinascita, tra festa e catastrofe.
• I vari episodi seguono, in modo non lineare, la biografia di Jan – la formazione, il trauma familiare, la guerra, la resistenza, i dialoghi con i genitori, la morte del fratello, la repressione sovietica e infine il sacrificio estremo. Dialogano continuamente realtà storica, memoria autobiografica, mito letterario e simbolismo politico.
• I personaggi sono di due tipi: alcuni sono “reali/autobiografici” (Jan, Sorella, Madre, Padre, Karel, Novomesky – poeta slavo di riferimento, amico e doppio di Jan), altri sono allegorie, funzioni ideali (Rivoluzione, Capitale, Coro). Centrale lo sdoppiamento tra Jan e la sorella, che incarna la stratificazione dialettica della soggettività.
• Come nella tragedia greca, il coro assume il ruolo di voce collettiva, commentatore e alter ego del pubblico, e, in alcuni momenti, diventa vero protagonista della scena.
• La scena conclusiva è affidata al dialogo-alterco tra Capitale e Rivoluzione che si contendono il senso del sacrificio di Jan, la cui immolazione si tramuta da evento concreto a emblema della condizione esistenziale e politica dell’intellettuale.
• L’opera si chiude talora con una appendice, o con la voce registrata di Pasolini stesso, che sottolinea l’impressione di opera-testamento e autoriflessiva.
Dal punto di vista formale, "Bestia da stile" abbandona ogni tentazione mimetica e spettacolare: il testo è segnato da una verbosità ossessiva, talvolta volutamente prolissa o "verbigerante", in cui la performatività della parola (il suono, il ritmo, la risonanza) assume più peso dell’azione scenica. Non vi sono vere e proprie "scene" nel senso tradizionale, ma situazioni interiori, processi, afasie, soliloqui, silenzi. La lingua stessa muta registro: si passa dal lirismo colto alla parlata popolare, dal dialetto all’invettiva, in una continua sfida alla "naturalità" del linguaggio.
Pasolini postula così il primato della parola poetica, la quale, lungi dall’essere un semplice travestimento del pensiero, si fa gesto politico e testimonianza di resistenza alla "regressione linguistica" imposta dall’omologazione culturale. L'importanza attribuita alla parola è tale che spesso le repliche teatrali prediligono la lettura e la declamazione rispetto all’azione scenica.
Il titolo "Bestia da stile" rappresenta uno dei cruciverba più affascinanti del teatro di Pasolini. Esso allude, innanzitutto, al rapporto ossessivo tra l’individuo (il poeta, l’intellettuale, Jan-Pasolini) e il processo creativo, ovvero lo "stile" come coazione, come ossessione ineludibile e, paradossalmente, come condanna. La "bestia" non è solo la creatura istintuale, la componente pulsionale, il corpo oggetto del sacrificio e della sofferenza, ma anche la "macchina" produttiva dello stile, lo strumento dell’espressione che, nella società della tecnica, rischia di diventare mero involucro, guscio senza vita.
Nel testo stesso, questa dimensione viene tematizzata da Jan anche in chiave polemica: essere una "bestia da stile" significa, da un lato, sacrificarsi per la forma e, dall’altro, svolgere una funzione sociale sopportando il disprezzo (e la "gogna") dell’opinione pubblica, della società-massa e della critica. Il poeta non è più maestro, ma "bestia" – nel senso di colui che si fa carico sulla propria pelle dell’impossibilità della comunicazione autentica, non più in grado di "essere compreso". Il titolo si trasforma così in diagnosi esistenziale (la solitudine della differenza), in accusa sociale (la regressione della lingua, la violenza simbolica della cultura di massa) e in definitiva in profezia della propria sconfitta.
C’è infine un connotato autobiografico e meta-teatrale: lo "stile" allude a tutta la parabola di Pasolini, costretto ad aggiornare e rimaneggiare l’opera per quasi dieci anni, in una ricerca costante di senso e di forma, testimoniando la volontà (forse impossibile) di coniugare autenticità poetica e impegno civile in un'epoca di destini collettivi infranti e deluse utopie.
Anche la galleria dei personaggi riflette la tensione tra autobiografia, metafora esistenziale e funzione simbolica:
• Jan (Palach/Pasolini): protagonista e alter ego dell’autore, Jan incarna la crisi dell’intellettuale e del poeta, il suo sentimento di inadeguatezza, il dissidio tra gloria e vergogna, l’impossibilità della poesia nel mondo moderno. Jan è anche vittima sacrificale: nelle sue vene scorrono tanto il ricordo del fratello partigiano morto quanto la volontà di "essere poeta" fino alla dissoluzione. Il suo gesto estremo, ispirato a Palach, si trasforma in parabola dell’incomprensione e del fallimento della parola.
• Sorella: rappresenta il doppio di Jan, la parte vergognosa e femminile, il peso del dolore e della scandalo, il necessario contrappeso alla gloria pubblica. Nel loro rapporto si coniuga la dialettica dello sdoppiamento psicologico, laddove la dissociazione è condizione fondamentale della moderna soggettività.
• Madre e padre: ricalcano, con sfumature grottesche e a tratti visionarie, la biografia familiare di Pasolini. La madre, in particolare, assurge a simbolo del lutto, della maledizione e della "regressione linguistica", manifestando la propria furia in una lingua impura e dialettale che segna la disfatta della comunicazione civile.
• Karel: amico e partigiano, è l’incarnazione della vittima innocente, di chi paga con la vita il prezzo della storia. La sua presenza spettrale e il dialogo con Jan amplificano il senso di colpa del protagonista e connotano l'opera di una malinconia funebre.
• Novomesky: poeta e amico di Jan, simbolo della saggezza antica, della memoria storica, della voce che ammonisce e consola, ma che a sua volta è destinata all’esilio e all’oblio.
• Capitale e Rivoluzione: personaggi allegorici di chiara ascendenza dantesca, incarnano la disputa irrisolvibile tra i due poli della storia del Novecento. Nel finale, la loro contesa sulla "proprietà" del cadavere di Jan sottolinea la vanità delle utopie ideologiche e l’inesorabile vittoria dell’indistinzione.
• Coro: funzione metateatrale, incarna la collettività inerte, la società degli spettatori impreparati, incapaci di ricevere lo scandalo e la verità "impossibile" del poeta.
"Bestia da stile" rappresenta, nella traiettoria artistica di Pasolini, sia un punto di arrivo che un testamento poetico e civile. Non a caso lo stesso autore la definirà la sua "autobiografia" più radicale, un bilancio esistenziale e artistico, l’assunzione consapevole dell’impossibilità di "essere compresi" in una società ormai dominata dalla regola del consumo e dal conformismo. In essa si riversano i traumi personali (la morte del fratello e il rapporto con i genitori), le grandi delusioni politiche (la disfatta della Primavera di Praga, la crisi del marxismo occidentale, il fallimento del Sessantotto) e quella tensione costante alla ricerca di uno "stile" poetico che non sia puro formalismo, bensì testimonianza incarnata.
Sul piano della poetica, "Bestia da stile" fornisce la sintesi più sofisticata del "Manifesto per un nuovo teatro": nella sua versione teatrale e meta-teatrale, Pasolini inserisce la propria vocazione di intellettuale "corsaro", pronto alla sfida contro ogni riduzione conformistica dell’arte e della politica. Per questa ragione, l’opera segna anche il limite del progetto teatrale pasoliniano: dopo di essa, il poeta-regista concentrerà gli ultimi anni della sua esistenza soprattutto sul cinema e sulla saggistica "eretica" degli "Scritti corsari" e delle polemiche giornalistiche.
Nel panorama teatrale italiano, l’impatto di "Bestia da stile" si misura soprattutto nel dibattito sulla politicità del teatro e sulla necessità di riconciliare parola poetica e riflessione civile. Molti drammaturghi e registi hanno riconosciuto in Pasolini il fondatore di una nuova linea di teatro civile, che, pur nei suoi limiti elitari, ha saputo riattivare le potenzialità del linguaggio e la funzione del rito comunitario della parola. Tematiche come la crisi dell'intellettuale, il dissidio tra ideologia e vita, il senso di perdita nella società post-industriale, sono divenuti nuclei costanti della drammaturgia contemporanea e del dibattito accademico sul "teatro politico".
"Bestia da stile" continua a rappresentare un banco di prova estremo, forse insuperato, per chiunque voglia interrogarsi sui limiti e le potenzialità del teatro, della parola poetica e della presenza civile dell’intellettuale. Nella sua tensione tra autobiografia e allegoria, tra scandalo e rito, tra fallimento e desiderio di libertà, l’opera di Pasolini testimonia la grandezza e l’urgenza di un’etica della parola che, oggi come allora, ci interroga sul senso e sul valore del nostro stare insieme – in teatro, nella società, nella storia.
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