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martedì 22 novembre 2022

Pier Paolo Pasolini, "Dialetto nella poesia e nel romanzo" - «La Fiera letteraria», IX, 47, 25 novembre 1956

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
Dialetto nella poesia e nel romanzo

La Fiera letteraria», IX, 47

25 novembre 1956

     L'uscita delle poesie di Noventa, finalmente raccolte in volume (ed. di «Comunità»), dopo anni di attesa da parte dei suoi privati ammiratori, e premiate con uno squillante Viareggio, ha rinnovato un certo interesse intorno alla poesia dialettale. Anzi per molti è stata una scoperta, in quanto problema di stile e fenomeno di cultura: e allora si è avuta una serie di interventi che, riguardo a quel problema e a quel fenomeno, si dichiaravano apertamente agnostici o lecitamente incerti. Ma bastava, almeno, che questi facitori di recensioni e notiziari leggessero qualche pagina degli scritti usciti in questi ultimi anni del Devoto, dello Schiaffini, del Contini, per rendersi conto, almeno, di come

andasse impostata la questione, e, nella fattispecie, per capire il fenomeno Noventa: che non è affatto eccezionale. Anzi, è tipico. La scelta di una lingua inesistente in natura è un caso di quella che, a proposito della poesia dialettale, vien definita «evasività». Che poi, nei dati interni, l'operazione in Noventa si complichi, si faccia inconfondibile, è naturale. Per anticipare una possibile ipotesi su tale originalità, diremo che la «lingua inesistente» (un dialetto veneto genericamente di terra ferma, circa tra Venezia, Padova e Treviso, se non erriamo), scelta da Noventa come materiale - vero e proprio materiale grezzo - per la sua poesia, è una lingua che, come spesso accade nei dialetti, implica una forma di salute psicologica, nel poeta perduta, e ritrovata, per simpatia, nei parlanti: ma, nel caso di Noventa, si tratta non della salute del popolano, del contadino, del piccolo-borghese artigiano, come per lo più accade, ma dalla salute del grosso borghese colto, magari anche erudito, che per aristocratica tradizione famigliare, usi ancora con gli amici il dialetto. Ossia: il parlante «tipo» di Noventa, è lui, Noventa. Naturalmente guardato in chiave di rimpianto (altra componente tipica della poesia dialettale): guardato come un Noventa quale sarebbe stato se ben diverse fossero state le con dizioni civili e culturali della nazione: un Noventa morto prima del fascismo e coltivato nella memoria degli antifascisti, perduti e scacciati ai margini, appunto, dal gioco, patetico ma sterile, della memoria. E difficile, stando così le cose, concepire un caso più contemporaneo di quello di Noventa: la sua protesta contro la «modernità» (nella specie, in letteratura, contro l'ermetismo) non è che un aspetto tipico di quella modernità (e dell'evasività ermetica: anche se questo può parere assurdo).

     Il problema del dialetto, però, non riguarda la sola poesia: ma la narrativa anche scritta o rappresentata cioè il romanzo e il cinematografo (e forse ormai anche un po' il teatro: si veda l'ultima commedia La bugiarda di Diego Fabbri: dove guarda caso l'unica persona vera, viva, e non un manichino pirandelliano dedito ai vecchi birignao riveduti nei centri sperimentali, è la ragazza del sarto, che la tasta in silenzio, ma in un silenzio dialettale). La differenza esterna tra l'uso del .dialetto nella poesia e l'uso del dialetto nella narrativa è che nel primo caso è totale, nel secondo variamente parziale, frammentario. Ma le deduzioni che si possono trarre da questo dato di fatto sono contraddittorie.

     Il dato di fatto di un volume tutto in dialetto, quasi che lingue letterarie o koinè non esistessero nemmeno, potrebbe far pensare a una tendenza assolutamente centrifuga rispetto a quella lingua letteraria o a quella koinè. L'assunzione totale di un dialetto potrebbe far pensare a un rifiuto dei centri linguistici tradizionali, anzi a una tendenza eversiva. Ma sia nei poeti mediocri, dilettanti , antiquati (come finge di essere Noventa), che sono un residuato romantico ormai del tutto provinciale - sia nei poeti migliori, al livello, per qualità e necessità ai migliori poeti in lingua (Noventa, per es.), non c'è nulla che autorizzi a pensare a uno Sturm und Drang linguistico contro la lingua letteraria. La scelta del dialetto è dovuta, nel primo caso, a una poetica romantica, ritardataria (moltissimi poeti di questa categoria sono stati fascisti, e sono comunque di un estremo conformismo: strapaese implica reazione) ; è dovuta, nel secondo caso, a una poetica estetizzante, sul filone storico, attuale, necessario, del post-romanticismo decadentistico. L'a priori del dialetto non consiste in questo secondo caso nella «spontaneità» e affini, ma nella misteriosa fisicità di una lingua diversa. Che è un po' la lingua pura - trascendente la storia - che andavano cercando gli ermetici nella loro operazione di dilatazione semantica e ipotattica sulla lingua letteraria e strumentale.

     Ecco dunque che un libro di versi tutto in dialetto, si presenta come un prodotto, marginale - ma forse più coraggioso e perfetto - della coeva poesia in lingua. La tendenza generale che conforma e unifica un novecentista in lingua, un dialettale come Giotti e un dialettale come Noventa, è una comune aspirazione all'evasività: un insoluto· desiderio d'assoluto. L'ermetico cercava di tradurlo in uno stile oscuro e sublime, inalienabile perché, pur profondamente radicato nella grammatica, veniva liberato dalla caducità semantica - dall'evolversi della storia - per ascendere all'assolutezza del fonema. Un dialettale come Giotti, invece, cercava di tradurlo in una lingua che, quando è viva, è fin troppo viva (il triestino storico della piccola borghesia e del popolo), e, scritta, diviene tout court, com'egli stesso dice, la lingua della poesia. Un dialettale come Noventa, infin e, cerca di tradurlo anch'egli, in una rinuncia alla storia, non però abolendo la storia, come gli ermetici, non riducendola , come i dialettali squisiti, ma facendola patetico e un po' ambiguo oggetto di rimpianto.

     Al contrario, il dato di fatto di un volume scritto in parte in dialetto, potrebbe far pensare a un' assunzione del dialetto al livello della lingua, a un suo ridimensionamento storico. Sì, in parte è vero, ma bisogna distinguere. C'è anche in questo caso un contingente di prodotti di quarto ordine: analoghi a quelli che abbiamo visto in poesia: resto di un romanticismo fattosi domestico, paesano, conformista e puramente vivace (tradizione del teatro dialettale, passata direttamente - anche se attraverso un'apparente suggestione neorealistica - nel cinema commerciale «napoletano» o, ora, «romanesco») . I casi che ci interessano non sono certi questi (che sono però estremamente indicativi) . Nella letteratura che importa, il dialetto può entrare - a incastro, a inserzione, a reagente - con due diverse funzioni: una che potremmo chiamare soggettiva, e un'altra oggettiva. Del primo caso abbiamo un esempio così tipico e clamoroso, che basta da solo a colmare un piatto della bilancia. È il caso di Carlo Emilio Gadda. In questo scrittore, il dialetto, milanese o romanesco, con frequenti tessere meridionali, è una delle componenti dello spettacoloso pastiche: la mimetizzazione del parlante che tale componente implica, non si attua però, in Gadda, attraverso un regresso a quel parlante, cioè in una mimetizzazione del suo monologo interiore: chi monologa è Gadda. I pezzi dialettali, incastrati in discorsi diretti o in discorsi indiretti, sono in funzione caricaturale, lirica, anche se la loro lontana origine è naturalistica e manzoniana. Gadda s'impossessa con una vorace zampata di un brandello d'anima dialettale- realistica e la schiaffa sanguinolenta e piccante nel mosaico.

     L'altro caso, quello a funzione oggettiva, non presenta un paradigma cosi perfetto e assoluto com'è Gadda: comprende la produzione neorealistica, ed è di origine e forma interna verghiana. Qui il dialetto è un reagente che distrugge l'italiano nelle sue punte letterarie, borghesi e lo assimila a sé, nella sintassi, nei modi, nel lessico: ne è l'unica e decisiva componente, fino ai limiti del gergo, non solo popolano, ma piccolo-borghese, arrivistico. Da ciò risulta chiara la sua funzione oggettiva: il calarsi cioè, dell'autore al livello del suo oggetto, l'anima di un parlante proletario, povero - dialettale, insomma e nel suo ambiente. Ne deriva una mimetizzazione continua, un continuo rifacimento, più o meno approssimativo, del discorso interiore.

     Nell'uno e nell'altro caso, però, quello soggettivo e quello oggettivo, si dà un comune atteggiamento polemico, spesso violento, contro la lingua letteraria: il che implica un atteggiamento ugualmente polemico e violento, contro la classe sociale che di quella lingua è depositaria. Ma, mentre nel primo caso è di tipo anarchico - è l'atto del borghese, profondamente e inguaribilmente ferito, che protesta senza speranza, perché la sua illusione è troppo radicata - nel secondo caso è di tipo socialistico, è l'atto del borghese che si pone in lotta contro la propria classe in nome della classe dominata - dialettale -. creandosi una diversa illusione.

Pier Paolo Pasolini



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Curatore, Bruno Esposito

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