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venerdì 20 maggio 2022

Pasolini, Poesia d'oggi - La Panàrie, maggio-dicembre 1949,

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
Poesia d'oggi

La Panàrie
Maggio‑Dicembre 1949


Quando nel 1943 la mia famiglia venne a stabilirsi definitivamente in Friuli, nella vecchia casa materna di Casarsa, io del Friuli non sapevo praticamente nulla e non conoscevo nessuno se non i miei compagni d'infanzia.

Avevo però con me un libretto di versi, stampato da pochi mesi dalla «Libreria Antiquaria» a Bologna, e quel libretto era scritto in friulano: un curioso friulano che una appassionata lettura del Pirona, previe s'intende le mie predilezioni un po' estetizzanti per la lingua letterariamente assoluta dei provenzali e le delizie di una poesia popolare quale poteva essere quella dei Canti del popolo greco del Tommaseo, assolutezza e abbandono che insieme si prestavano a essere due componenti di un medesimo gusto letterario molto contemporaneo - aveva trasformato da casarsese in una specie di koinè un po' troppo raffinata da una parte un po' troppo candida dall'altra. Non si tratta ora di chiarire quale fosse (ed è ancora) la mia vocazione letteraria nei suoi rapporti con

il «dato», più o meno divenuto cosciente, dei complessi; comunque posso dire, da un punto di vista strettamente linguistico, che il mio friulano del '42 era qualcosa di di­ verso da un dialetto, in quanto io ambivo, per usare la mia terminologia di allora, a un mio linguaggio privato ed ermetico (non oscuro ! ) dove perseguire puri fantasmi poetici ossessionato da un sentimento solo: la nostalgia. Era d'altra

parte «dialetto» in quanto aveva richiesto da me una forma di regresso linguistico, verso un lessico turgido di vita inespressa, vergine, immediato e imprudente, con vocalità delicate e penombre nelle quali io ravvisavo, già data, quella che poteva essere la musicalità pura del simbolismo; dal regresso, dunque, a un recupero fin troppo fulmineo delle suggestioni letterarie più avanzate l'intervallo era brevissimo. Ecco perché quei miei versi di allora non furono e non sono capiti dai friulani. Ma io non sapevo che i friulani vivessero ancora al tempo dello Zorutti e che la Filologica che io, da Bologna, sopra il Pirona, amavo come un prodotto altamente civile, di tipo quasi centro-europeo, fosse senza filologi. Mi recai dunque a Udine, nella primavera del '43, e, col mio libretto sotto il braccio, andai a trovare Cadetti. Mi fece una forte impressione: era nel suo ufficio di ragioniere capo nel palazzo del comune, con la sua bella faccia di vecchio dalla canizie aristocratica e, come dire, alpina (ora che è morto la sua immagine torna in me legata a un aroma di climi montani). Mi accolse con un'agitazione un po', e affettuosamente, maniaca e i suoi problemi impostati con una passione che le delusioni avevano leso ma non scalzato dal suo cuore sempre pronto, mi investirono con la loro senile inquietudine. Era il tempo dei tedeschi, dell'ultimo fascismo; tutto viveva, anche la Filologica col suo Zorutti, in un clima eroico. Cadetti mi congedò abbracciandomi, cosa che mi commosse molto; naturalmente non capì i miei versi e ne parlò sul «Ce fastu?» come di un curioso prodotto del gusto ermetico, non raccapezzandosi davanti a quelle ingenue violenze linguistiche. Tra noi due nacque una specie di trepida amicizia, confermata in me, dopo la sua morte, da alcuni dei suoi versi che, nell'ambito di un pascolianesimo e di un intimismo un po' morboso, restano con quelli di Argeo, come i più belli della letteratura friulana tra le due guerre gravitante intorno alla nascente Filologica.

Il nome di Chino Ermacora lo trovai in una dedica di Diego Valeri: A Chino Ermacora e al suo beato Friuli. Era quanto bastava perché io ne avessi una immagine seducente. Di Don Marchetti lessi, su alcuni vecchi numeri del «Ce fastu?» dei nutritissimi articoli sulle origini del friulano che mi diedero una specie di ubriacatura, riaccendendo, come un bicchiere d'assenzio, la mia Sehnsucht glottologica . . . Frattanto, vivendo a Casarsa, dentro il mio utero linguistico, la poetica iniziale subiva delle modificazioni: sentivo la necessità di un più diretto contatto con gli usi e la vita rustica, del «campanile», e il bisogno di un'espressione più immediata e filiale: tutte cose che mi si rivelarono poi sbagliate e che del resto costituirono un breve periodo (il periodo dei primi «Stroligut») facente parte di una specie di nevrosi e di scadimento sentimentale causato in quasi tutti noi dalla guerra. Quest'esperienza di tipo un po' più dialettale mi servì tuttavia a individuare meglio il «casarsese» e a localizzare i suoi pregi (le dittongazioni in specie) convincendomi che una koinè ricercata a priori è un' astrazione. A Casarsa in quei mesi mi feci degli amici, e in questo fui fortunato, trovando due giovani, Riccardo Castellani e Cesare Bortotto, con i quali ebbi una lunga e serrata dimestichezza letteraria; ambedue accolsero la mia poetica

dialettale e diedero subito dei risultati che non solo mi convinsero della bontà della formula (il che non avrebbe alcuna importanza) ma rivelavano, specialmente in Castellani, un'autenticità di vocazione davvero notevole. La sua poesia friulana tende, a dire il vero, a una forma di compromesso tra lo scrivente suggestionato da alti esempi poetici (dai Romantici tedeschi, a Pascoli e fino a un Ungaretti e a un Montale ancora non del tutto «capiti») e il parlante dotato di una immediatezza vernacola e di una compiacenza per il gergo non sempre giustificati. I ·sentimenti che prevalgono in Castellani sono un rimpianto smorzato dalla rassegnazione (ecco ancora il dualismo scrivente-parlante! ) e un amore per il paesaggio classificato con termini tecnici (agricoli, meteorologici, ecc. ), il tutto dominato da un senso del destino che dà alla vita una intonazione fallimentare, riducendola ai piaceri della meditazione saggia, amara e confidente. Egli sostituisce la limpidità e la leggerezza del verso, (le metafore plasticizzanti e rivelatrici, per usare i termini del poeta rumeno Lucian Blaga), con un'atmosfera tonale dominata da grigi intensi; il suo è un discorso «descrittivo» sopra sottintesi comuni, e, perciò, un po' dialettali (il destino, le stagioni, il rimpianto della giovinezza) . La sua forza tecnica, resta dunque un po' torbida e incerta, salvo a dare, e man mano che passano i mesi più di frequente, dei versi di questa fattura:

su lis cujeris lentis coma il meil.

Quando lo scrivente avrà del tutto partita vinta sul parlante, e il compromesso con la poesia dialettale della tradizione sarà abbandonato, Castellani potrà dare al Friuli uno dei più bei canzonieri del Novecento. L'esperienza poetica di Bortotto è stata invece molto più saltuaria e incerta; una strenua sensualità giovanile gli forniva l'estro in cui egli incanalava immagini visivamente un po' incolori, musicalmente un po' disordinate· ma niente affatto prive di una comunicatività persuasiva ed echeggiante. Il lettore dello «Stroligut» ricorda certamente i versi di Peràulis di amòar.

Jo i soi smarit lontan

ta n'altri vint,

su un flun sensa pì aga,

così incisi in un'essenziale musica d'enunciazione.

Quando nell'aprile del '45 fondammo la nostra «Academiuta di lenga furlana» intorno a noi c'erano altri giovanissimi (Tonuti Spagnol addirittura un ragazzo) i quali cominciavano a scrivere i loro primi versi. Erano tutti miei allievi (durante la guerra gli studenti di Casarsa non potevano frequentare regolarmente la scuola), ed accettarono dunque da me con la necessaria suggestione i suggerimenti e le pressioni estetiche come se fossero essenzialmente indubitabili: insomma trovarono lì la loro tradizione. Certi procedimenti tecnici della poesia italiana e francese più moderna, attribuzione analogica, valore della rima fuori dalla forma chiusa, accostamenti puramente fantastici, e certe urgenze sentimentali (un'esplorazione insistente nei luoghi più appartati del cuore, dove il sottobosco affettivo fermenta in sensazioni pure un po' simili a quelle che in psicologia si chiamano allucinazioni ipnagogiche) divennero subito familiari a questi ragazzi.

Dei quali il più maturo e cosciente è Domenico Naldini, lettore degli spagnoli da Ruben Dario a Lorca, oltre che dei francesi e degli italiani contemporanei e di un Leopardi divenuto modello di poesia. Inoltre Montale gli ha insegnato a caricare d'ignoto e d'allusione l'oggetto, che in Naldini è quasi sempre in movimento (rondini che volano, giovinetti che passano per le strade in bicicletta, voci che cantano) piegando la lingua a immagini estremamente rarefatte e nel tempo stesso, per quella carica di contenuto alluso, consistenti. Si legga questa bellissima chiusa di Un fil di vint:

Ma coma nassus da l'erba

'a van soranej sensa cuarp

cu'l flòur da l'istàt in man.

Dove la magicità appena avvertibile nell'esclusione «sensa cuàrp» dà all'empito sentimentale (che è al solito la nostalgia ma stavolta fermatasi alla constatazione della felicità altrui) una leggerezza, un rapimento e una chiusura che lo purificano istantaneamente. Le Seris par un frut (Edizioni dell'Academiuta, Casarsa 1948) poetizzano una esperienza sentimentale molto complessa (si vedano le dediche: a mia madre e a un fanciullo di Arzene, che ne sono gli estremi molto accostati) escludendo del tutto il rischio della «letteratura» in questo giovane poeta alla .letteratura così interessato.

Ovidio Colussi, B. Bruni, F. Ghirart, hanno scritto delle cose felici, per quanto sempre un po' riflesse, in cui la spontaneità e la non -letteratura rischiano l'orecchiabile, salvandosi però spesso in modo molto persuasivo in quel tessuto tecnico e in quell'operazione psicologica cui accennavo. Caso eccezionale è Tonuti Spagnol (di cui i lettori dello «Stroligut» ricorderanno ]o i soi un contadinùt mus e quelli dello «Strolic 1 948» Vitis di un soranel, prose che indicano quanto il friulano sia congenito al ragazzo di quindici anni che le scriveva senza rinunciare a nessuna delle sue abitudini linguistiche più diuturne). Ma di Tonuti, che ora ha diciotto anni, si legga questa Cresima: «A è ferma lì - la baraca - inciamò d'in ché volta. / A son dèis àins - ma no par straca - parsé chel di lu jot vuei. l No soi pf jo ch'i vif- ta ché aria ruda - in ta chel grun di ligria. / A è la me anima - blanda e nuda - che sora dai pensèirs / a brila e ascolta - l'Ave Maria - enciamò d'in ché volta». Dove si noti la compagine linguistica così serrata e disadorna da rischiare il prosaico e sostenuta invece da un rigore di dettato che non fa una grinza nell'enuncia re la situazione sentimentale come se fosse un teorema (la baracca vista il giorno della Cresima e poi rivista dieci anni dopo come se nulla fo sse mutato) . E si noti anche l'imbastitura resistentissima delle rime «invisibili»: Lì-dì -vif; pensèirs -vuei, e di quelle scoperte con tanta fermezza: baraca-volta-straca, ruda- ligria -nuda, scolta-Maria-volta. Tonuti è un fatto di sensibilità e d'intonazione, là dove i poeti incolti del suo tipo sono sentimentalismo e orecchio.

Comunque su ciò che sia, in sede estetica, l'«Academiuta» ho già scritto altrove e spesso; è inutile che mi soffermi ancora, tanto più che qui sto facendo un riassunto e mi limito a dare, per quanto è possibile, dei dati. Dico questo perché la mia poetica, se di poetica posso parlare obbiettivamente, come termine tecnico

non implicante immodestia, è in continua evoluzione, e la mia morale letteraria mi insegna a non temere le contraddizioni. Dal punto di vista glottologico posso ricordare qui, e con un certo spero perdonabile orgoglio, che il prof. Tagliavini, che insegna glottologia all'Università di Padova, ha citato in una sua lezione, con onore, il lavoro svolto dall'Academiuta in questi anni. Mi resta dunque da esaminare un punto su cui non mi ero mai soffermato perché mi pareva assolutamente pacifico, cioè il valore della presenza del Friuli, proprio come dato geografico e etnico, nella nostra poesia. G.F. D'Aronco, in una sua noterella su «La Panarie» (n. 95, genn.-febb. 1949) che è stato il pretesto per questa mia tavola sinottica, ci accusa di essere insensibili al paesaggio friulano, al «colore» friulano. Ma è proprio poeti del «colore» che noi vogliamo essere! Può stare certo il D' Aronco che «fogolàrs», «ciavedai», «tavielis», «zefirès» ecc., nell'accezione zoruttiano-dialettale, non compariranno mai nel nostro lessico. La poesia dei félibri friulani, che detestano la provincia, il suo gusto, le sue ambiguità sentimentali, non fornirebbe la rappresentazione, secondo D' Aronco, che di un mondo generico, non comunque friulano. Ma se al contrario il paesaggio del nostro Friuli occidentale, non come dato folcloristico, si badi, ma come dato paesaggistico-amoroso è quasi il motivo dominante della nostra poesia ! (Tanto che il critico bergamasco G.C. Pozzi, in una relazione sulla vita della sua città nella «Fiera letteraria» ebbe a scrivere: « ... pensiamo alla delicata operazione poetica di P., che ha fatto .del Friuli occidentale uno dei luoghi più dolci dei nostri itinerari sentimentali». E non attribuiamo alla testimonianza del Tagliavini, del Pozzi o di qualsiasi altro in Italia, naturalmente!, non in Friuli, si sia espresso in modo lusinghiero sul nostro conto, il credito che il D' Aronco concede ai geni tutelari del Friuli: la crediamo soltanto fornita di quella attendibilità che nasce da una gratuita simpatia.) Ometto del resto in questa sede la documentazione dei rapporti tra la vita friulana (con annesse postille topografiche, agricole, ornitologiche, toponomastiche, onomastiche, ecc. ) e la nostra poesia friulana, perché sarebbe troppo lunga. Casarsa, San Giovanni, Versuta, Valvasone e tutta la pianura sulla riva destra del Tagliamento, è l'obbiettivo più diretto e appassionante del nostro friulano, e rientra nel corpo della nostra poesia con tutta la sua fisicità, appunto in quei dittonghi e in quelle sibilanti che il D'Aronco accusa di esteriorità e di applicazione. Certi che noi non sentiamo la natura come quel buon diavolo dello Zorutti, per cui fa testo quella réclame della pioggia che è la Plovisine, e nemmeno come il Cadetti, preoccupato com'era ad assumere la natura sul piano di un retorico amore per il Friuli come collettiva terra natale. Non arrossiamo a confessare che il nostro eros di giovani felibri ha trovato in questi luoghi l'incanto fisso dell'infanzia e il mobilissimo splendore della giovinezza nostra e altrui.

Quanto alle altre accuse del D'Aronco (da qualche tempo in Friuli mi accusano da tutte le parti: una vera offensiva) non posso rispondere perché non le ho capite, se egli si esprime con frasi come queste: « ... i quali concetti - e qui sta il nocciolo

del nostro discorso - sono raramente friulani». Che cosa diavolo siano questi «concetti friulani» sarà una cosa chiara per il D'Aronco, ma per me è oscurissima, a meno che ... (a meno che non siano i concetti espressi con tanta profondità dallo Zorutti nella Plovisine) . Inoltre per noi, che siamo lettori dei moderni europei, il D'Aronco ha escogitato la strana formuletta «imitazione dell'imitazione»: che cosa rispondere a una così impudica e innocente insinuazione? Mi fa piacere comunque notare com'egli si sia finalmente accorto che la roccaforte Zorutti è alquanto smantellata e che, ripiegando sulle posizioni Ermes e Percoto, abbandoni con precipitazione un po' offensiva il suo poeta, lasciandolo in un atteggiamento alquanto ridicolo con in mano «l'incontrastata palma del friulano Pamaso». A proposito di D' Aronco, vorrei aggiungere una chiosa: in uno degli ultimi numeri del «Mattino del Popolo» intonando un italiano inusitatamente nobile, egli ha confrontato il Friuli con la Provenza, incitando i friulani all'autonomia e dandosi l'appellativo di félibre; documenti dell'esortazione erano delle citazioni (tra le più brutte che si potessero fare) di Mistral e degli altri felibri suoi amici e seguaci. Ora, si rende conto D'Aronco che siamo nel 1949? Non gli sembra un po' anacronistico scegliere come pezze d'appoggio per un discorso quanto mai attuale, qual è l'autonomia, dei versi scritti un secolo fa? Naturalmente questo non lo direi se non sapessi che in Provenza operano, in questi anni, dei poeti notevolissimi che amano e leggono Mistral ma che linguisticamente si tengono al livello più «moderno» possibile (simbolismo, Verlaine, Valéry, Mallarmé). Esiste a Tolosa una «Societàt d'estudis occitàns» e una rivista letteraria, «0c», diretta da Ismael Girard che sotto la insegna di «Messages» va pubblicando degli squisiti volumetti di poesia occitanica. Cito per i Friulani che vogliono avere delle ragioni concrete per la loro simpatia, diciamo così analogica verso la Provenza, da Entre l'esper e l'absénci a ( Tra la speranza e l'assenza) , ed. Messages, Tolosa 1942, di Renat Nelli, questi versi:

Castel de Cabaret

que tas torres s'empluejan

ambe malinconia,

de la cendre dels segles,


Una fresca ombra blava

tomba de tas parets

pariva a lar irises

dont tos monts s'sclarisson.


Amont sola una flamba

t'escalpra dins l'azur

e daureja l'augiva

de ta finestra abugla;


Mas, pus naut, dins la lutz

mos uellhe miran lo cercle

de mort que fan la goiras

sus Amor escantida. 


Da Paraulas au vie/h silenci (Parole al vecchio silenzio) di Robert Lafont (Tolosa, 1946), la lassa n. III:


Puei s'envàn silenciosas lis oras

detràs lo fum di cigaretas

estrangieras come ta vida

dins l'etemitat di dimenches blaus.


e la lassa n. VIII:


Lo jorn de seda e de soleu

es dins l'espandi blau que lo calinka.


E dormiràn eternament li chatas

derrier lo secret de si labras

fauta d'un dieu per lis amar.


Escota lo cant de l'aura blava entre li pins,

e puei lo cant eterne di cigalas dins li pins. 


Come si vede se un'analogia si può fare tra Provenza e Friuli, in sede poetica, i termini del paragone potrebbero essere Renat Nelli e Naldini, Robert Lafont e Cantarutti ... non altri. Approfitto di questa mia improvvisa digressione provenzale per accennare a un'altra questione, stavolta dibattuta con diversità di punti. di vista tra l'Academiuta e la «Patrie dal Friul». I poeti provenzali del Duecento come si sa usavano varie parlate occitaniche contemporaneamente, ma ciò non impedisce che esista «una» letteratura occitanica; la stessa cosa fanno i poeti provenzali contemporanei: i volumetti di «Messages» sono scritti nelle diverse varietà linguistiche della regione senza affatto comprometterne l'unità letteraria. Ecco un argomento in favore della tesi dell'Academiuta che sostiene doversi far uso della lingua parlata nei vari luoghi friulani, ritenendo accusabile di astrazione il tentativo della «Patrie» di creare, sulle peste zoruttiane, una koinè letteraria. A questo proposito, portavoce della «Patrie», sono stati i giovani Cantoni e Virgili, che mi hanno attaccato con giovanile durezza. Ma facciamo qualche passo indietro.

Dopo la parentesi sentimentale-paesana del '44, dei cui risultati, visibili nei primi «Stroligut», arrossisco, e dopo la fondazione dell' Academiuta, ripresi il filo di un più autentico ragionamento sulla poesia in dialetto. (Ma il lettore che abbia avuto la pazienza di seguire fino qui questo mio memoriale, senza ritenere che io presuma troppo di me, non creda che la mia produzione poetica viva di quei ragionamenti, che sono tutti a posteriori: prese di coscienza, inquietudine autocritica, non programmi.) Comunque m questi ultimi due o tre anni sono andato pubblicando qua e là con una certa frequenza scritti di estetica dialettale e versi credendo candidamente di essere capito (cioè: che venissero capiti i miei problemi e i miei riferimenti). Invece in Friuli ho avuto, ch'io sappia, un solo lettore: Don Marchetti. Tutti gli altri facevano delle sciocche riserve, inutili a me e a loro, campate in aria e spesso stranamente maligne. Ho conosciuto un po' alla volta l'ambiente letterario friulano e naturalmente è stata una delusione: insincerità, mancanza di una morale letteraria, superficialità ... La Filologica con i suoi inutili congressi, superfetazioni su un arto atrofizzato, mi ha fatto rimpiangere di non possedere il dono dell'umorismo per scriverne pagine che avrebbero potuto essere esemplari. Ma è inutile che insista su queste cose: non c'è nessuno che in cuor suo non le sappia. In questo bilancio fallimentare, tuttavia, un conto torna: e sono i versi di N.A. Cantarutti, A. Cantoni, e B. Virgili. Checché essi dicano, fanno parte del cerchio delI'Academiuta e io li annovero tra i felibri, data la loro giovanissima età, per la tecnica della loro lirica e per i sentimenti espressi pressapoco con lo stesso procedimento che ho descritto a proposito dei giovani poeti casarsesi.

N.A. Cantarutti aveva cominciato con una poesia che già non era zoruttiana; certo intimismo un po' crudo del Carletti, certi accenti pascoliani del Lorenzoni potrebbero forse esser citati come fonti indirette di quella poesia stranamente priva di sensualità, irruente, scomposta, nella convenzionalità dei motivi, e un po' gelida nelle sue commozioni aneddotiche (il giovane soldato morto, ecc.) . Il friulano di Navarons, varietà felicissima, fortemente vocale , inquietante, la salvava, quasi che fosse la sua stessa forza nativa, dallo scadimento a puro sfogo sentimentale. Lentamente la Cantarutti si è liberata prima della sua prolissità, indi del suo disordine metrico (superficialmente libero e moderno), indi dei suoi motivi esterni e a loro modo oratori e un po' molesti. Interiorizzandosi, liberando in sé quella sua immagine in cui la sensualità si era completamente tradotta in inquietudine priva di calore e ricca di angoscia, ha da una parte trovato nella lingua il coraggio di certe sincerità brucianti e, in quel coraggio, una coerenza linguistica che si incide nella pagina. La sutura tra la prima e la seconda poesia della Cantarutti, o per dir meglio, tra la sua non-poesia e la sua presenza poetica, è costituita appunto da un travaglio in direzione di una libertà tecnica e di motivi che, in Friuli, io credo solo l'Academiuta le poteva indicare. Così si hanno avuti prima degli esercizi, un po' gratuiti, in cui la traduzione dell'angoscia in immagine era incerta e per così dire velleitaria; poi, in quest'ultimo anno, i risultati, nitidi, immobili, senza scorie. Attualmente il suo metro ricorda un po' quello dell'Allegria, ma è un accostamento superficiale e casuale: le sue brevissime liriche - che si potrebbero paragonare, non so, a tanca giapponesi, a frammenti di lirici greci o a cose del genere - vibrano di una trasparenza linguistica di prim'ordine, con immagini essenzialissime e cariche ( «Il canaj spiritàt - al ceir - arcs di lusour», «]o i ciaminavi - ta l'aria verda, - sot i teis, - ta l'aria cioca ...»).

Per Cantoni e Virgili possiedo solo pochi testi di poesia per poterne avere un'immagine umana. (Le loro pro­se, come del resto quelle della Cantarutti, contano poco.) Comunque Cantoni ci offre sullo «Strolic 1949» un componimento «Lis zuculis di Nene» che ci dimostra come il superstite convenzionalismo dialettale di questo auto­re (che tonalmente è un «piglio» ardito e popolaresco in origine stucchevole) possa essere fissato in un'atmosfera aprioristicamente fantastica, ma non priva di una bella vocalità, ariosa e nitida. Che Cantoni possieda la· vita interiore necessaria all'operazione poetica, con le sue tensioni e le sue crisi, ce lo dimostra il «Corot dai cin cagn», segnalato al concorso dell'Academiuta (Premio «Ermes» 1949) : è una composizione confusa, ancora involuta e in parte irrisolta, proprio come sentimento, allo stesso autore, sì che l'ermetismo è davvero oscurità in molti luoghi; con ciò non si vuol dire che anche l'oscurità non sia talvolta accettabile, come elemento poetico, specie , com'è in questo caso, se si tratta di un'oscurità di tipo per così dire espressionistico. Comunque il corot, pur così frammentario e torbido, ha dei passi d'una violenza

limpida e accorata che fanno pensare seriamente a una possibilità di poesia in Cantoni. Circa le stesse cose si potrebbero ripetere per Virgili, solo che Virgili si è ascoltato con più pazienza. Il suo «Fì sòl» segnalato al concorso dell'Academiuta è una cosa che giustifica la propria ambizione con un risultato notevole. Peccato che i motivi siano troppi (l'infanzia, il paesaggio, la stagione, il regresso al grembo materno, l'identificazione con la madre) talché il Virgili ne è quasi sopraffatto e, impaludato nell'alone di quei motivi di cui sente la forte suggestione di poeticità, perde quasi il controllo fissando nella pagina più quella poeticità, che i motivi stessi. Interessante è comunque, a parte il raggiungimento formale, il contenuto di quei versi; il lettore avrà capito che si tratta della nostalgia , questo sentimento inverecondo e dolcissimo che fa apparire leggendaria la vita passata e poetico il paesaggio ... In «Lus e scur», la poesia premiata al concorso dell'Academiuta, Virgili ha invece risolto il suo assunto: la presenza e poi l'assenza dell'amata attraverso le cose che erano state testimoni di quell'amore. Montale (ceno non direttamente) ha insegnato a Virgili questa trasfuione, sì che quella «loggia bianca» è tutta caricata dall'assenza della donna e di una storia non detta. In generale in questi tre ultimi poeti che ho citato c'è un resto di timidità e di prudenza; qualche zeppa e qualche aggettivo richiamano improvvisamente un tono tradizionale appena superato. La cosa peggiore che potesse loro capitare è il complimento di D' Aronco alla fine del suo articolo contro la mia «modernità», in cui vengono definiti «moderni sì, creatori di una poesia spesso nuova ma pur sempre friulana». Quel «ma pur sempre friulana», Virgili e Cantoni lo capiscono, è un capolavoro di incomprensione: lì c'è Zorutti e la loro superstite pavidità letteraria.

Quanto agli altri poeti friulani, non dimentichiamo il vecchio Lorenzoni, a cui però «canta un'allodola nel cuore» com'egli dice col più bel verso della sua vita; egli ha scritto dei buoni versi sempre del tipo dialettale pascoliano, ed è un peccato, con le sue possibilità di raggiungimenti formali assai dignitosi, che si sia fermato ad una poetica limitatrice. Degli altri la maggior parte passa il tempo a rifare uno Zorutti veramente inconcepibile: alcuni di questi zoruttiani avrebbero delle possibilità (per es. la Cragnolini e Argante, da cui io attendo una specie di conversione già da qualche anno; verrà? lntanto Pietro Someda de Marco, nelle poesie segnalate al concorso dell' Academiuta proprio per questo fatto, dimostra di sentire il bisogno di un rinnovamento ... ). Chi avrebbe detto sette anni fa che in Friuli si potessero scrivere dei versi come quelli di Castellani, Bortotto, Naldini, Spagnol, Colussi, Cantarutti, Cantoni e Virgili? D'Aronco mi lancia, indirettamente, la sfida del tempo, e io l'accetto; intanto, se la sfida ha valore retroattivo, la prima tappa è mia.


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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