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mercoledì 16 febbraio 2022

Pier Paolo Pasolini, Io difendo padre Arpa «Paese Sera», 6 febbraio 1968

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Pier Paolo Pasolini 
Io difendo padre Arpa

«Paese Sera», 6 febbraio 1968


( Nell'immagine sotto, L'Unità del 7 febbraio 1968)


I lettori di «Paese Sera» hanno letto qualche giorno fa una notizia di cronaca abbastanza lunga — e articolata, commentata «scritta» — non puramente e meccanicamente informativa, voglio dire. Serpeggiava in quella notizia, resa «oggettiva» dal fatto di comparire nella pagina della cronaca, un certo spiritello divertito, non privo di non saprei dire che compiacenza (quella forse che dà la conferma di essere dalla parte della ragione?).

Come tutti i lettori di giornali, anche i lettori di «Paese Sera» non hanno buona memoria (suppongo). Quindi certamente non si ricordano che il padre Arpa della cui cattura e della cui traduzione a Regina Coeli si parlava in quella notizia, è lo stesso padre Arpa di cui «Paese Sera» si era occupato in altre occasioni: per esempio quando si parlava della difesa della Dolce vita (e io ho anche la presunzione di aggiungere la difesa di Accattone), oppure quando si parlava del festival del Cinema Sud Americano (quello stesso che ora viene delibato come se il saporino della truffa desse un certo piacere di vittoria).

Padre Arpa è un uomo piccolo come una formica, in uno stato perpetuo di raptus che può far anche sorridere i laici cattivi, che parla sempre come se non avesse incertezze; con una pronuncia alto-italiana che sanno avere (chissà perché) solo i preti, e aggredisce qualsiasi argomento come se a ordinare la sintassi e a concludere con la reggente giusta una serie imprevedibile di subordinate, ci pensasse uno spiritello serafico sempre pronto e sempre pacifico, (e padre Arpa considererebbe offensivo non affidarglisi ciecamente).

Perché scrivo queste cose? Perché mi lascio andare a questa aneddotica tra ironica e affettuosa? Perché questa captatio benevolentiae sorniona e appena mormorata?

È semplice, perché io difendo padre Arpa. E non intendo affatto — come fanno i galantuomini e le persone corrette — aspettare il giudizio della magistratura. Che uomo sarei se per giudicare aspettassi il giudizio della magistratura? Non sono stato vicino a padre Arpa? Non ho parlato con lui? Non l’ho sentito parlare? Non ho osservato la sua presenza fisica e il suo comportamento (con cui talvolta si parla più che con le parole?). E allora? Un uomo è forse un miracolo? E il nostro giudizio su lui è casuale? Può cambiare col cambiare delle cose, come se l’avessimo formulato non con la nostra testa, ma in una specie di sogno?

E noto: gli italiani sono poco psicologi. Demandano le proprie definizioni psicologiche al caso e al soccorso degli altri. Chiunque potrebbe essere un altro. Qualunque buono potrebbe essere cattivo e qualunque cattivo potrebbe essere buono. Gli italiani son pronti ad accettare tutto, su un loro concittadino, fuorché quello che può pensare la loro testa. Evidentemente mancano molto di fiducia nella propria testa.

Così oggi padre Arpa, che era un uomo serafico, sarebbe un imbroglione. È bastata una indagine dei carabinieri e un mandato di cattura, per dimostrarlo. Ciò che avevamo visto noi coi nostri occhi e ascoltato noi con le nostre orecchie, non conta niente. Il giudizio è da rifare. O comunque è da sospendere fino a «dopo» la sentenza del tribunale.

Difendendo padre Arpa, ho dalla mia parte sette otto persone, e dall’altra (suppongo) l’intera opinione pubblica: dai Gesuiti che si sono affrettati a misconoscerlo, ai comunisti che si sono completamente dimenticati di averlo, in altre occasioni, come si dice, «strumentalizzato»: per non parlare dei buoni lettori medi, per cui un mandato di cattura è sacro.

Invece un mandato di cattura è una cosa puramente formale, come qualsiasi cittadino di una nazione civile sa bene. E, innanzitutto, un imputato è per definizione innocente... Ma lasciamo stare queste finezze... incomprensibili... innaturali... Allora, se non è un truffatore, padre Arpa è un santo?

Neanche per idea. Egli crede troppo nel suo spiritello serafico, per essere un santo; ed è troppo leggero per essere veramente puro. Ha sbagliato, ecco tutto, non come sbagliano i santi, ma come sbagliano i poveri uomini, accecati dalle idee sbagliate e anche, diciamolo da un po’ di retorica. Insomma, padre Arpa doveva disprezzare un po’ meno il denaro, le cambiali, le persone che hanno denaro e le persone che non ne hanno: insomma padre Arpa doveva disprezzare un po’ meno tutto ciò che verte il denaro. E non perché non si debba disprezzare tutto ciò che verte il denaro, ma perché padre Arpa lo faceva con un po’ di presunzione, e con un po’ troppa fiducia nella propria buona stella (ossia nella protezione di Dio).

Ammettiamo, però (ed è una casistica che sottopongo ai Gesuiti) che padre Arpa — come tanti altri padri, pratici, organizzatori, fondatori di imprese, di ordini — si fosse messo in un mare di guai con debiti, cambiali ecc. ecc., e che poi, in un modo o nell’altro, come i suoi illustri predecessori, se ne fosse salvato e avesse portato a buon punto la sua organizzazione ecc. ecc. Eccolo, allora, rientrare trionfalmente nella tradizione — la tradizione dei preti moderni, che rischiano molto, ma finiscono poi sempre col trovare il finanziatore: e attraverso questo finanziatore (generalmente catalogato nella larga definizione della Provvidenza), giungono al sognato odore di santità. In tal caso, di padre Arpa, nessuno avrebbe avuto niente da dire: la rispettabilità borghese sarebbe stato il primo fondamento della sua possibile beatificazione.

Invece padre Arpa è stato inabile, leggero; ha sbagliato i suoi rapporti col capitale; non è riuscito a trovare dei finanziatori fedeli e solidi. Cioè, ha creduto veramente nella Provvidenza. Non ha compiuto la sua identificazione col giro del denaro reale e con le banche. Dunque padre Arpa è stato sospeso a divinis perché ha creduto troppo — e troppo ingenuamente — nella Provvidenza? Perché (e magari non senza un’infantile presunzione) ha creduto che bastasse compiere i primi atti dei «santi moderni», o «santi del capitale» — ossia firmare delle cambiali — per essere come loro?

Adesso padre Arpa è in una cella di Regina Coeli (una cella dopotutto non è un luogo così innaturale per un religioso) e son convinto che il suo spiritello serafico è lì, tutto luminoso, appollaiato sulla sua piccola spalla. Poiché padre Arpa assomiglia un po' a una formica, egli mi fa venire in mente Braibanti (anche lui in una cella di Regina Coeli) che è addirittura una vera e propria formica (a parte il fatto che è, come dire, un formicologo). Due persone profondamente gentili, delicate e indifese — che magari fanno anche un po’ rabbia per la loro testardaggine, visto che poi sono così deboli, e quindi c'è una certa sproporzione tra loro, e il cieco rigore dei loro atti —, tutte due imputati di cose ridicole e infamanti (truffa e plagio!). Ne usciranno assolti e vincitori. Ma intanto l’opinione pubblica italiana avrà subito l’ennesima umiliazione, rinunciando a formulare un proprio giudizio, aspettando pigramente il giudizio della magistratura (che poi verrà dimenticato, questo è il bello — lo so per esperienza — mentre nella memoria della gente resterà il ricordo dell’imputazione, non quello dell’assoluzione).



Curatore, Bruno Esposito

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