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venerdì 7 gennaio 2022

Pier Paolo Pasolini, VIAGGIO IN MAROCCO - Vie nuove n. 16, 22 aprile 1965

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini 
VIAGGIO IN MAROCCO

Vie nuove n. 16, 22 aprile 1965

Naturalmente, quando si va a visitare un paese nuovo, si hanno già dei progetti d’interpretazione. E ogni scoperta è una lotta contro questi progetti, che piano piano cadono, e vengono sostituiti da altri, quelli reali. Perciò scoprire è sempre molto faticoso, in qualche modo disgustoso. Per quel che riguarda il Marocco io ho dovuto lentamente rinunciare a tutta una serie di idee che mi ero fatte sulla sua presenza nel «Terzo Mondo». Sapevo, certo, che il Marocco non era il paese tipico dello «scandaloso rapporto dialettico che il Terzo Mondo instaura col mondo industrializzato, neocapitalista o marxista»: tuttavia, alcuni dei dati che credevo costanti di questo rapporto, ero convinto di ritrovarli e verificarli nella gita marocchina. Sono rimasto non deluso, no, ma confuso. Nessuno di quei dati è nella coscienza dei marocchini. Essi ci sono certo, ma sono sprofondati nella realtà bruta: pragmatici, inconsapevoli. Naturalmente io parlo di quello che appare all’occhio di un visitatore che fa un viaggio di piacere e di vacanza. Io non ho
esercitato nessun sondaggio, non ho fatto nessuna inchiesta, non ho impostato nessuna ricerca, non ho tentato nessun interrogatorio. Mi sono lasciato trascinare dai fatti e dalle cose: soprattutto quelle che cadevano sotto gli occhi. Ebbene, in questo complesso (e bellissimo) quadro di realtà visuale, non ho riconosciuto, ripeto, nulla, di quello che io ero andato per riconoscere. Il Marocco è una grande distesa di paesaggi mediterraneo-africani, abitato, lungo una striscia abitabile, da dodici milioni di persone, di cui una parte (la grande maggioranza) è formata da contadini: che lavorano stupendamente la loro campagna (specialmente nella regione di Fez, i campi sono coltivati con grazia e pazienza di orefici; su un altro registro, ma praticamente in modo molto simile a quello di certe civiltà contadine che ci sono famigliari, quella toscana, quella veneta); tale è la perfezione del lavoro contadino, che si ha l’impressione di un mondo concluso che non ha bisogno né di andare avanti né di tornare indietro: ma di star fermo com’è. Anzi, quasi lo si desidera, tanta è la sua bellezza visuale. Naturalmente c’è stato un tentativo di industrializzazione del lavoro della campagna: ma i mezzi agricoli (trattori ecc.) sono stati addebitati ai contadini. L’anno del tentativo, il raccolto è stato pessimo: e i contadini sono rimasti solo coi debiti. Ciò li ha messi di malumore contro il Re (le iniziative hanno tutte il suo marchio) ma specialmente li ha fatti regredire ai vecchi metodi. D’altra parte la possibilità di cooperative è facile, perché esistono da sempre in Marocco delle alleanze di contadini, che sono una specie di embrione arcaico delle cooperative. C’è, nella campagna, la percentuale di analfabetismo che abbiamo registrato in Italia un mezzo secolo fa. Ma il problema della scuola è molto sentito; ora non c’è ragazzo che non vada a scuola, e l’analfabetismo è destinato a sparire molto rapidamente anche dalle campagne. E questo segnerà probabilmente la data reale dell’inizio di una vera e propria industrializzazione del lavoro contadino. Su questa strada, dunque, tutto è normale e senza sorprese. È un problema che più che riguardare il Terzo Mondo riguarda il problema delle campagne di tutto il mondo: e il Marocco si allinea quasi pragmaticamente, quasi automaticamente, sulla strada di tutti gli altri paesi.
Non ho ben chiara (davanti agli occhi) la situazione di coloro che sono fuori dal mondo contadino arabo arcaico: ho, davanti agli occhi, un grande brulichio, che non mi soffermo a descrivere per non fare del colore. La burocrazia, certo: specialmente nella bellissima Rabat, residenza del Governo e del Re. L’esercito e la polizia. E la grande smania mediterraneo-barbarica del piccolo commercio.
C’è poi una minoranza di ricchi, vecchi (agrari) e nuovi (suppongo), che mettono decisamente il Marocco sulla strada del neocapitalismo, ricalcandone le forme anche esterne. Casablanca è una bolgia neocapitalistica impiantata sul vecchio stile colonialistico francese (rispettabile, e di gusto sempre buono, talvolta un po’ ironico, in tutto il resto del paese) e sulla vecchia casbah araba, decaduta e sbriciolata: un neocapitalismo western, probabilmente in mano a dei predoni (l’orgia è quella dei fosfati) alleati a finanziatori stranieri, specie credo americani: il che dà alle città marocchine, su quel fondo contadino barbarico del retroterra, un’aria decisamente internazionale e violentemente moderna (molto più di qualsiasi città italiana). Sicché nei borghesi marocchini si contaminano due modi di vita molto diversi (almeno al mio esame solo visivo): uno provinciale-tradizionalistico, con al centro il Corano, e uno internazionale-modernistico, con al centro i fosfati e affini. È una dialettica interna, che riguarda il Marocco, e può interessare solo marginalmente uno straniero; è un problema particolaristico di sviluppo.
Quello che c’è di decisamente arcaico è un senso di insicurezza sociale e civica che si prova in tutto il paese, e che accomuna il Marocco - devo dirlo - alla grande maggioranza dei paesi, sottosviluppati o in via di sviluppo, afro-asiatici. Moravia e io ricorderemo sempre un furto di valigie nel Ghana (che è forse il più avanzato di questi paesi) che si è concluso, al recupero della refurtiva (nel miglior albergo di Akkra), con le mani violentemente, caparbiamente e infantilmente tese dei poliziotti per avere una mancia. Durante il mio viaggio in Marocco sono successi quei gravissimi fatti di sangue che immagino i giornali abbiano riferito anche in Italia. Ero quei giorni nella città di Mogador, tranquilla sull’Oceano: non mi sono accorto di nulla. A Casablanca, sede delle più inconcepibili atrocità poliziesche di quei giorni, sono arrivato a cose finite, ma ancora col coprifuoco. Sono andato in giro anche nelle ore del coprifuoco, per vedere. E lì ho avuto la sensazione che nulla garantisce l’incolumità e la più elementare sicurezza del cittadino (tuttavia devo aggiungere che non c’è bisogno di questa garanzia, perché, come tutti i popoli arcaici, il popolo marocchino eccettuate le zone della malavita è mitissimo: e le improvvise esplosioni di ferocia e di violenza sono fatti che vanno al di là di una garanzia di tranquillità civica). La piaga del Marocco mi sembra, in questo senso, dovuta alla presenza di due forze armate, forse rivali tra loro: l’esercito (volontario) e la polizia. È proprio sulle armi che i soldati fondano la loro sicurezza, spesso spavalda, nei riguardi della polizia. Durante il coprifuoco potevano andarsene in giro ubriachi, e, quando incontravano la polizia, nasceva una specie di fair play, a base di manate sulle spalle e di luminosi sorrisi infantili: che confermavano la sostanziale anarchia in quelle forze che dovrebbero garantire l’ordine pubblico.
La media dell’intelligenza tra i marocchini è bassa, devo dirlo: e anche questo li accomuna a molti altri popoli in via di sviluppo. Non certo per ineluttabili ragioni razziali: ma per una secolare mancanza di esercizio di ogni funzione critica. C’è una profonda semplicità (che si ottenebra solo nelle ben circoscritte zone della malavita) che rende i marocchini deliziosi ma un po’ privi d’interesse. È in questa mancanza di intelligenza o razionalità che vanno ricercate da una parte la mancanza di ogni stabile carica rivoluzionaria, dall’altra le improvvise, patetiche e atroci violenze di piazza. La domanda che assilla un visitatore anche disinteressato, in Marocco, è la seguente: «Qual è la speranza dei marocchini?». Si direbbe che altra immediata speranza non alberghi in quei cuori semplici che un ideale piccolo-borghese accomunato possibilmente con la vecchia fedeltà al Corano. Rispetto alla Francia o in genere all’Europa, essi sono un po’ come un lucano rispetto a Milano: non criticano, non giudicano: vorrebbero semplicemente trasferirvisi, come in luoghi che garantiscono aprioristicamente un tipo di vita borghesemente superiore, decantato nel contesto di una specie di snobismo plebeo A questa mitezza, a questa ragionevolezza e buon senso (contadini), a questo idealismo piccolo-borghese, molto ingenuo, e senza ancora l’odioso senso di «dignità personale» che l’idealismo piccolo-borghese dà ai suoi utenti, a questa sopravvivente lealtà arcaica e medievale verso le istituzioni, si è rivolto il Re del Marocco, in un discorso (alla televisione) nei giorni seguenti alle violenze di Casablanca e Rabat. Egli, è chiaro, conosce bene «i suoi polli»: tutto il discorso è una specie di sensata e in fondo laica e pragmatica omelia, dominata dall’anafora: «Caro popolo... caro popolo... caro popolo...». Un rimprovero rattristato per le violenze, un richiamo ai propri meriti regali, qualche punzecchiatura, patetica come un canto popolare arabo, contro le istituzioni parlamentari; e in genere, un’aria non antipatica, di uomo a suo modo mite e saggio. Il fondo, naturalmente, era di un orribile reazionarismo, basato, come ogni machiavellismo degenere, su una forma di ipocrisia. Il Re cioè, si rivolgeva a dei marocchini reali, con una certa sapienza psicologica: non li mistificava (come fanno i dittatori, mettiamo Mussolini, che parlava a degli italiani completamente inesistenti): non li mistificava, ma li vedeva in un solo momento e in una sola dimensione. Forse, essendo marocchino lui stesso, di un’antica famiglia che da due secoli governa i marocchini, non può oggettivamente avere quel distacco necessario per vedere la psicologia del suo «caro popolo» in un contesto non particolaristico. In realtà c’è l’«altro momento» del marocchino, che è poi una specie di trance: quello in cui il marocchino riesce a bruciare vivi dei poliziotti, per es., quello in cui si droga di hascish, quello, costante nella sua giornata, del dominio della sensualità: praticamente è il momento dell’evaporazione della personalità in una specie di raptus prodotto da un secolare ristagno intellettivo - la degenerazione dell’islamismo, la marcescenza della civiltà contadina, l’isolamento, lo sfruttamento bestiale ecc. ecc. Come sempre in questi casi l’uomo si difende non volendo più essere uomo, vanificandosi in mitezza o in violenza infantili e un po’ animali. A questo stadio della sua psicologia, il «caro popolo» ascolta le parole del Re per quello che sono, un canto soporifero, una composizione iterativa senza senso, soltanto psicacogica e molto soddisfacentemente priva di logica.
Vie nuove n. 16, 22 aprile 1965


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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