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giovedì 30 dicembre 2021

Stefano Rodotà Il processo - In memoria di Pier Paolo Pasolini -

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Stefano Rodotà
Il processo
 In memoria di Pier Paolo Pasolini

Tratto da:



È perfino banale scrivere che non ci sono tanti processi quanti sono i procedimenti giudiziari iniziati contro Pier Paolo Pasolini e che c’è, invece, un processo solo, ininterrotto per almeno vent’anni, che si gonfia e si assecchisce, si dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità: mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana. Ma questa impressione di continuità e compattezza non nasce da una imputazione monotona di reati sempre identici. Al contrario. Pasolini viene messo sotto accusa per tutto un campionario di trasgressioni; è osceno e seminatore di oscenità, pornografo, corruttore e diffamatore, rapinatore e favoreggiatore, istigatore a delinquere, uomo di vilipendi alla religione e alla nazione. Non c’è angolo della sua vita pubblica e privata che si riveli accettabile.
Vengono stilati meticolosi rapporti polizieschi sulle sue opere artistiche e sulle sue abitudini private, che rimbalzano di processo in processo “per illuminare la personalità dell’imputato”. Denunce e processi diventano l’occasione di linciaggi, sfoghi, esibizioni. Pubblici accusatori e avvocati perdono le staffe e il senso della misura, nascono perizie psichiatriche su un soggetto che non si è mai incontrato, l’attacco a Pasolini diventa l’occasione di notorietà per deputati trombati, picchiatori fascisti, avvocati e medici farneticanti, giornalisti. C’è quasi un senso di liberazione che si avverte nelle sortite rese possibili da ogni suo libro, film, passeggiata notturna: Pasolini è la somma di tutti i vizi, incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un corpo solo. 
Pasolini sarà sempre un bersaglio facile, mai però rassegnato. Il lungo processo è la cronaca di una lotta, di una aggressione continua e di una difesa ora disperata ora orgogliosa. Chi ha vinto?
 Il processo a Pier Paolo Pasolini comincia presto, percorre già gli anni cinquanta, ma è negli anni sessanta che si insedia come elemento stabile nel panorama italiano. Coincide con gli anni del “disgelo costituzionale”, dell’uscita della società italiana dal tunnel della guerra fredda e del centrismo di ferro, dell’apertura progressiva di nuovi “spazi di libertà” ancora impensabili quattro o cinque anni prima. Quel che accade a Pasolini sembra contraddire tutto questo, perché è proprio la libertà di espressione a venir negata, perché i procedimenti giudiziari vengono usati come macchina persecutoria proprio nel tempo in cui la Corte costituzionale, per la prima volta dal dopoguerra, cerca di accrescere le garanzie processuali degli imputati.
 L’intreccio non è sempre facile da decifrare, la partita che si gioca è complessa. Gli attacchi a Pasolini rappresentano certamente uno degli strumenti di cui si servono coloro che cercano e creano pretesti, occasioni, simboli, per contrastare quanto di nuovo sta faticosamente emergendo nella società italiana. E le aggressioni seguono due vie: quella della violenza fisica, firmata in modo addirittura ostentato dai gruppi fascisti; e quella della violenza giudiziaria, che non a caso vede come protagoniste le due istituzioni più rappresentative della faccia autoritaria dello Stato, la magistratura e la polizia. Pasolini si rivela, dunque, un bersaglio politico.
 Pasolini, però, non sta secondando un disegno, non segue disciplinatamente una sia pur giusta corrente. Se nella società italiana si è innestato un movimento rinnovatore, egli non ne accetta integralmente né i contenuti, né il ritmo. In ogni momento chiede qualcosa di più e di diverso. Sa che le conquiste di libertà sono fragili se non viene continuamente riproposta con intransigenza la denuncia delle molte illibertà che ancora rimangono. Vede montare altre forme di barbarie, a cui sente di dover contrapporre, con disperazione talvolta, valori diversi. E ciò, se non gli provoca aggressioni dirette degli assertori del nuovo corso, gli procura spesso la loro ostilità.
 Misurati con i vecchi o con i nuovi criteri, i comportamenti di Pasolini denunciano sempre uno scarto dalla media. Proprio questo non si è disposti ad accettare. La vera e costante imputazione fatta a Pasolini, al di là delle molte varianti offerte dalla casistica penale, consiste nel suo continuo muoversi lungo linee che non coincidono con il sentire della maggioranza. Egli non rientra nel modello dell’uomo medio, infrange il comune sentimento del pudore. Rifiuta di essere misurato con questi metri. Perché? Perché sa bene quel che c’è dietro l’uomo medio, e lo scrive al tempo de La ricotta: “un mostro, un pericoloso delinquente, razzista, conformista, schiavista, colonialista, qualunquista”. La qualificazione “criminale”, è così ritorta contro i suoi persecutori: nel processo che le istituzioni gli fanno, Pasolini intreccia, con ben altra forza, il processo che egli avvia nei confronti delle istituzioni e degli strumenti concettuali di cui queste si servono.
 Una delle tante “aberrazioni pasoliniane”, per dirla con il linguaggio della stampa che ha eletto Pasolini a suo bersaglio preferito? Non credo che tra le letture di Pasolini ci fosse Il diritto civile e il proletariato, che il giurista austriaco Anton Menger era venuto pubblicando tra il 1889 e il 1890, come critica del progetto di un codice civile per l’Impero germanico, dove si sottoponeva a critica radicale la “meschina figura” del bravo padre di famiglia che “rispecchia evidentemente il borghese bene alloggiato e ben provvisto, il quale condivide unicamente le idee della parte egoista delle classi ricche”.1
 Ma è questo soltanto l’antagonista di Pasolini? Si dovrebbe rispondere di sì, se almeno si presta fede al linguaggio delle denunce. E non solo di queste: “io sono uomo di dimensioni comuni”, dice il pubblico ministero nel processo per La ricotta. Dietro l’uomo medio, dietro il pio avvocato (“vado spesso al cinema, specialmente quando si tratta di film scabrosi, per rendermi conto del loro contenuto”), c’è però una intera struttura di potere che ingaggia la sua battaglia con il solitario poeta.
 Un Potere astorico, mitico, come ha scritto qualche critico più attento, forse, al fatto che alcune parole (Processo, Potere appunto) fossero scritte con la lettera maiuscola che non alla realtà che volevano identificare? Vediamo. L’opera di Pasolini non è consegnata nelle mani dei giudici a opera di qualche cittadino medio, ma per iniziativa congiunta del ministro dell’Interno e del servizio informazioni della Presidenza del consiglio, che nel luglio 1955 segnalano alla magistratura Ragazzi di vita. La polizia lo considera eternamente sospetto, in occasione di aggressioni brutali usa la tecnica collaudata di difesa degli aggressori, denunciando per rissa Pasolini e i suoi difensori. La magistratura dà corpo anche alle denunce più farneticanti e, pure quando lo assolve, non rinuncia a definire oscena (anche se non punibile) la sua opera.
 Questo, tuttavia, non può spingere a identificare il processo a Pasolini con la storia di una persecuzione. C’è molto di più, ma anche molto di diverso. C’è soprattutto Pasolini che non dà mai la sensazione d’essere in fuga. Anche quando la pioggia delle denunce si fa più fitta, chi è all’attacco è sempre lui, Pasolini.
 Mai Pasolini si è lasciato intimidire da un’imputazione di oscenità, da una condanna, da una faticosa o contrastata assoluzione di un suo libro o di un suo film. L’opera successiva era puntualmente più “oscena” – intollerabile – della precedente, provocava nuove denunce, innescava nuovi procedimenti giudiziari. Mai si accontentava di quel che era già riuscito a strappare ai giudici, obbligati a spostare più avanti le frontiere del pudore, fissandole in modo un po’ meno rispettoso delle pretese dell’uomo medio e un po’ più rispettose delle pretese della libertà. Rimetteva in discussione il più “liberale” concetto di pudore che un giudice aveva messo a punto, non accettava le concessioni che gli venivano fatte. Proprio il veder continuamente lacerata la loro tela spinge sovente i magistrati a reazioni nevrotiche, ben visibili nelle motivazioni delle sentenze. Ma il risultato è lì, passo dopo passo Pasolini distrugge implacabilmente il “doppio” giuridico dell’uomo medio, la trama concettuale in cui questi aveva trovato il rifugio per il suo egoismo, e lo obbliga a fare i conti con la realtà. Quella che l’opera d’arte per sé rappresenta, quella a cui l’opera d’arte rinvia.
 Pasolini diventa così partecipe, in modo non compiacente, del processo di liberazione che, malgrado tutto, si avvia in quegli anni nel corpo della società italiana, che era pure liberazione dalla tirannia di concetti formali e astratti che costituivano la trama giuridica in cui quella società era stata avviluppata. In nome di che cosa fa tutto questo? Lo dirà con parole fin troppo piane nella sua deposizione al tribunale di Venezia, nel processo per Teorema, respingendo la tesi secondo cui l’autore di un film avrebbe obblighi di riserbo a cui sfugge, grazie al pubblico meno vasto e più selezionato, l’autore di un libro: “Non posso tener conto della minor preparazione o capacità a comprendere quello che una proiezione vuol dire, da parte dell’uomo medio, perché in tal caso compirei un’immoralità nei confronti della libertà espressiva, non solo nei miei confronti ma anche nei confronti dello spettatore.”
 Pasolini spiega pazientemente queste cose al giudice “perito dei periti”, volta a volta critico letterario e critico cinematografico, psicologo e armaiolo. E il giudice non rinuncia a servirsi del coltello che tiene dalla parte del manico (come sempre farà la polizia nei suoi rapporti): durante il dibattimento non si cerca tanto di accertare una verità, quanto piuttosto di far sentire Pasolini in una situazione di imbarazzo, di dimostrargli che ci sono interlocutori che possono tenergli testa proprio in quella materia artistica a cui l’imputato si richiama e in cui ha osato cimentarsi. Nelle sentenze si oscilla tra l’esibizionismo culturale e il tentativo di far vergognare l’uomo che si assolve, dimostrandogli di quanto fango sia fatta quella che, ahimè!, in termini di legge bisogna pur definire creazione “artistica”. Questo atteggiamento non esprime soltanto una deformazione della magistratura, visibile anche al di là della lunga vicenda giudiziaria di Pasolini: a suo modo rispecchia una costante della società italiana, anche della più tollerante, che mai appare disposta ad accettare fino in fondo Pasolini, anche se è costretta a subirlo.
 Proprio nell’aula di un tribunale questo conflitto latente si trasformerà nella richiesta di una sorta di giudizio di Dio. Nella sua requisitoria nel processo per La ricotta, il pubblico ministero non chiede ai giudici di stabilire se Pasolini abbia vilipeso o no la religione, ma di scegliere tra lui e l’imputato. Anzi “[...] in questo processo gl’imputati sono due: Pier Paolo Pasolini e io[...]. Se voi condannerete Pasolini approverete me, ma se voi lo assolverete allora ineluttabilmente condannerete il mio operato”.
 Accenti ricattatori, appello allo spirito di corpo? Qualcosa di più. Siamo nel 1963, e già quel pubblico ministero ci offre una teorizzazione convincente dei diritti della maggioranza silenziosa (“molti, la stragrande maggioranza degli italiani sono con me, ma non hanno trovato voce per esprimere le loro idee”): diritti tanto più forti, perché questa volta l’argomento quantitativo appare giustificato dal fatto che il reato imputato a Pasolini è quello di vilipendio della religione cattolica, la cui particolare protezione penale è giustificata dal pubblico ministero con la constatazione, appunto quantitativa, di una “realtà sociale riscontrata su un censimento che su oltre 41 milioni di cittadini ne rilevava soltanto circa trecentomila non cattolici”. L’argomento viene da una consolidata tradizione, ma le parole sono, quasi alla lettera, quelle pronunciate da De Gasperi alla Costituente, in uno dei passaggi più duri (e per alcuni versi sgradevoli) della sua dichiarazione di voto sull’art. 7 della Costituzione.
 Come si potrebbe scegliere Pasolini, allora, minoritario da qualsiasi punto di vista lo si consideri? Infrange le convinzioni di milioni di cittadini cattolici, né può invocare l’adesione alle sue tesi della “stragrande maggioranza degli italiani”. Solo che, al di là dei risultati processuali, è proprio quest’uomo di minoranza a far pagare al suo avversario il prezzo più elevato. Infatti, pur di ottenere la condanna dell’imputato, il pubblico ministero non esita a chiedere al tribunale di rinunciare al suo ruolo istituzionale, quello di parlare in nome della “giustizia” e di divenire arbitro in una contesa personale o di presentarsi come il semplice portavoce di una parte, sia pure quantitativamente maggioritaria.
Non sarà la prima né l’ultima volta in cui Pasolini obbliga i magistrati a negare il ruolo a essi formalmente attribuito. I processi a Pasolini, in realtà, diventano molto di più di occasioni in cui i magistrati rivelano preferenze e limiti culturali, vecchiaia di letture, esibizionismo, ideologie travestite da neutralità. Se fosse questo soltanto, allora quei processi altro non sarebbero che varianti dei tanti processi per oscenità o vilipendio celebrati in Italia in questi anni. La differenza sta nel fatto che, quando compare Pasolini, subito i magistrati sentono il bisogno di dichiarare con tutti i mezzi, leciti e meno leciti, la loro appartenenza a un mondo diverso, parteggiano ferocemente, invocano prima ancora delle norme scritte i valori della “normalità”, nel senso almeno di media statistica da cui sarebbe illecito discostarsi.
 Se fosse soltanto un “crimine” ciò con cui essi devono confrontarsi, non ci sarebbe da parte loro tanto accanimento. E, infatti, di fronte al reato comune, anche il più grave, è ordinariamente possibile avvertire, se non una forma di distacco dei giudici, certamente un coinvolgimento psicologico assai minore di quello che si coglie scorrendo gli atti processuali e le sentenze che riguardano Pasolini. Di solito il giudice è rassicurato dal fatto che i comportamenti devianti sono già sufficientemente descritti e stigmatizzati dalle norme che egli è chiamato ad applicare, rispetto alle quali egli può davvero porsi, se vuole, nell’atteggiamento del mero esecutore. C’è solo un tipo di processo in cui questo atteggiamento non è possibile e il giudice è in qualche misura obbligato a fare pubblica dichiarazione della sua funzione di difensore di un ordine: il processo politico. E non è certo sorprendente ritrovare questo connotato e queste analogie nel lungo processo intentato a Pier Paolo Pasolini.
 Pure, la storia giudiziaria di Pasolini sembra nascere sotto un ben diverso segno ed essere scandita dal ritmo delle assoluzioni, non delle condanne. C’è dunque una contraddizione da spiegare?
 La storia giudiziaria pubblica si apre con il processo per Ragazzi di vita. Un esordio intriso di ufficialità, visto che la “segnalazione” alla procura della repubblica di Milano viene dal servizio spettacolo, informazioni e proprietà intellettuale della Presidenza del consiglio, a sua volta sollecitato dal ministero dell’Interno. Questa volta l’uomo medio non compare, l’ufficialità della segnalazione si sostituisce alla spontaneità telepatica delle denunce tutte eguali che, provenienti dai luoghi più diversi, si abbatteranno sulle opere successive. Ma la “segnalazione” era davvero rivolta soltanto alla magistratura, o doveva adempiere alla funzione di additare alla stampa e all’uomo medio il bersaglio che, da quel giorno in poi, avrebbe dovuto colpire?
 Il tribunale di Milano assolve Pasolini. La motivazione della sentenza si apre con le parole seguenti: “il dibattimento si è svolto in un clima di serena elevatezza, sia per la natura delle questioni sottoposte al vaglio del Collegio, sia per la nobiltà degli interventi del pubblico ministero e della difesa, sia infine per l’impegno dello stesso imputato Pasolini di giustificare la sua opera sul piano morale, di porne in luce il significato artistico, letterario, di palesarne, per così dire, la chiave e il motivo conduttore”. Chi non abbia pratica di processi e di sentenze dovrebbe concludere, letto questo brano, che lo stile abituale delle aule giudiziarie sia la scompostezza, la rissa tra imputato e pubblico ministero, l’arroganza dei difensori. Altrimenti, perché sottolineare con compiacimento il fatto che un dibattimento si sia svolto proprio così come si pensa che dovrebbe svolgersi?
 La verità è che i giudici milanesi avvertivano il clima di linciaggio che cominciava a montare, di cui la stampa già forniva testimonianze abbondanti, e prefiguravano la difficoltà di mantenere in futuro pure quella compostezza formale che dovrebbe accompagnare l’amministrazione della giustizia.
 Il loro compito, a ogni modo, era stato certamente facilitato dal fatto che Pasolini non era ancora quel personaggio diabolico che l’opinione pubblica avrebbe via via visto crescere sotto i suoi occhi, reo di parlar male del papa e delle donne di Cutro, di continuare a scrivere romanzi e di girare film, di entrare nei bar al Circeo e di andar di notte per Panico. Questa non è una elencazione di comodo: grattando sotto le denunce, si constata che proprio queste sono le azioni “criminali” di Pasolini, a cui di volta in volta si sovrappongono versioni fantasiose e pretestuose quel tanto che basta per far scattare il meccanismo della denuncia, senza che la magistratura si mostri disposta a coglierne appunto la pretestuosità, e ad archiviarle. E, allora, che altro si imputa a Pasolini, se non di esistere?
 Ci vorrà tutto questo, a ogni modo, perché le segnalazioni ufficiali fruttifichino e si crei il clima propizio alla gran bagarre processuale degli anni successivi, alla teatralità dei pubblici ministeri e alla ignobiltà degli avvocati di parte civile.
 Ma le assoluzioni? Non è forse vero che Pasolini non ha passato che poche ore in galera, la notte di capodanno del 1951, per di più illegalmente? È corretto soltanto dire che Pasolini non subisce mai condanne definitive: ma le condanne ci sono, anche se poi sono seguite da assoluzioni in Appello o in Cassazione oppure il reato viene dichiarato estinto per sopravvenuta amnistia. Non è una differenza di poco conto, trascurando la quale si rischia di rappresentare il rapporto di Pasolini con la magistratura quasi come un idillio, le aule di giustizia come il luogo dove trionfano sempre la verità e il bene, Pasolini come una salamandra che attraversa indenne i fuochi processuali.
 Ci sono almeno tre elementi che impongono di capovolgere questa rappresentazione di maniera. Il tempo: Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975. Le occasioni: se sono gli uomini medi a creare la gran parte dei pretesti, la magistratura li coglie al volo, li gonfia, li tiene in caldo; non esercitando il potere di archiviare denunce palesemente assurde, la magistratura se ne fa complice. Il modo: pure le sentenze di assoluzione e i rari decreti con cui non si promuove l’azione penale spesso non rinunciano a dare di Pasolini e della sua opera una rappresentazione che in ogni parola esprime un biasimo palese.
 Ma non ci si può certo fermare alle vicende processuali, quasi che il mondo giudiziario fosse in sé concluso, non comunicante con l’esterno. L’atteggiamento compiacente della magistratura innesca un gigantesco processo di controllo sociale, di cui le reazioni e gli atteggiamenti della stampa sono la documentazione più evidente. Se manca la sanzione formale di una condanna penale definitiva, ci sono sanzioni non formali più pesanti di mesi o anni di galera. Pasolini dovrà scontare pene durissime: ci sarà l’aggressione fascista, morale e fisica, contro la quale mai polizia e magistratura muoveranno un dito; ci sarà quella specialissima interdizione dai pubblici uffici che, per un artista, è il vedersi preclusa la possibilità di apparire in televisione; c’è, alla fine, la pena di morte, eseguita una notte, dalle parti di Fiumicino.
 Pasolini impara a conoscere bene questi meccanismi. Non è certo per caso che, quando deciderà di attaccare frontalmente gli uomini del regime democristiano, chiederà per essi un processo, non una condanna.
 Una condanna verrà, nell’ultimo processo in cui Pasolini comparirà come protagonista, ma che, alla fine, non obbedirà a regole diverse da quelle puntigliosamente seguite in tutti i processi precedenti. Formalmente l’accusato è Pino Pelosi, l’assassino. Tutto, però, viene alla fine ricondotto a quell’ossessivo confronto con la normalità che ha segnato le vicende di Pasolini. E la normalità, questa volta, conosce un altro risvolto, fatto di omosessuali che, normalmente, devono finire uccisi e di ragazzi di borgata che, altrettanto normalmente, devono ucciderli. Il copione è tutto scritto in anticipo: perché piangere, o meravigliarsi, o chiedere una indagine che faccia luce sui risvolti inquietanti di quella morte? Tutto dev’essere cancellato, e al più presto. L’ultimo brivido sia quello di qualche lettore del “Corriere della Sera”, infastidito da una fine tanto volgare di un collaboratore della prima pagina del suo giornale preferito.
 Qualcuno tuttavia prova a dubitare, il Tribunale dei minori di Roma. È l’unica volta che un organo ufficiale cerca di guardare al di là della facciata che tanti altri organi ufficiali hanno pazientemente costruito nel corso degli anni. È un passo verso quell’ignoto da cui, secondo l’ufficialità, Pasolini veniva e nel quale doveva essere ogni volta ricacciato. Ed è proprio un “concorso con ignoti” l’estrema frontiera che i giudici Moro e Salmé riescano a raggiungere forzando il fronte delle disattenzioni, delle versioni canoniche, delle omertà mal dissimulate.
 Questo risultato costa fatica, la sentenza e l’intero processo manifestano in molti punti la rottura di consolidate convenzioni giudiziarie: ancora una volta la presenza di Pasolini si rivela scomoda, costringe i giudici a mettere in discussione il loro stesso ruolo. Molti fatti concorrono a mettere in risalto la novità assoluta, e forse l’unicità, di quel processo: per la prima volta si riconosce a un giornalista il diritto di invocare il segreto professionale; per la prima volta il potere di avocazione del procuratore generale viene esercitato in un procedimento di competenza del Tribunale dei minori (e sarà l’unica avocazione del procuratore Del Giudice); viene data un’interpretazione pesantemente restrittiva dei termini entro i quali dev’essere chiusa l’istruttoria sommaria; e soprattutto, i giudici non esitano ad abbandonare la linea fino ad allora seguita a proposito della maturità dei minori imputati, sostenendo che il criterio di favore per il minore (povertà culturale= immaturità giuridica) può valere per i reati minori, ma non certo per l’omicidio.
 Non è una conclusione da poco, che non solo contrasta con precedenti sentenze dello stesso Tribunale dei minori di Roma in casi d’omicidio, ma contraddice pure quella funzione di sostanziale sostegno dell’imputato a cui la Corte minorile dovrebbe adempiere. Pur pagando un prezzo così elevato, per aver cercato essi soli di non essere pregiudizialmente contro Pasolini, i giudici romani non riescono tuttavia a sciogliere un’altra contraddizione, che lascia almeno un velo di ambiguità sulla loro sentenza. Se una massa consistente di indizi li ha convinti che l’omicidio di Pasolini non può esser stato l’opera di uno solo, perché poi condannare con durezza Pelosi, come se appunto fosse l’unico responsabile di quell’assassinio? Vien quasi da pensare che la sentenza abbia voluto rispondere a troppe e contrastanti attese, quelle di chi chiedeva un riconoscimento di una meccanica dell’omicidio irriducibile alla classica aggressione all’omosessuale; e quelle di chi riteneva che l’esistenza di un reo confesso imponesse comunque una condanna esemplare, in realtà volta, più che a punire un responsabile, a chiudere il caso davanti all’opinione pubblica.
 Nella sentenza del Tribunale dei minori, a ogni modo, non ci sono tracce di quella logica liquidatoria che ispirerà le mosse degli autori della perizia psichiatrica riguardante Pelosi, della polizia e, più tardi, dei giudici d’Appello.
 I periti esordiscono lamentando “la brevità del tempo concesso per l’espletamento del mandato”: ma questo non li induce ad alcuna cautela, e le loro conclusioni sono del tutto perentorie, identiche a quelle che ci si sarebbe aspettati dopo lunghe osservazioni.
 Il comportamento di polizia e carabinieri è illuminato dalla stessa sentenza del Tribunale dei minori, dove la paziente ricostruzione del tessuto di indizi non coerenti con la tesi dell’assassinio da parte del solo Pelosi è una implicita, ma chiarissima, accusa di negligenza a chi avrebbe dovuto svolgere le indagini. Ma quella sentenza non è solo la denuncia di omissioni passate, è pure la segnalazione di una notitia criminis, cioè del fatto che l’omicidio doveva essere attribuito al concorso di più persone. Questo fatto nuovo, tuttavia, non basta a rimettere in moto le indagini. E l’atteggiamento passivo della polizia continuerà anche dopo la denuncia contro ignoti presentata alla procura generale dall’avvocato della madre di Pasolini, dopo che una denuncia anonima aveva indicato le prime due cifre della targa di una macchina catanese che avrebbe seguito quella di Pasolini nella notte dell’omicidio. Più tardi l’avvocato di parte civile chiederà notizie sullo svolgimento delle nuove indagini. La risposta sarà perentoria: nulla. Nulla di fatto. Neppure l’acquisizione agli atti di una targa.
 Ancora una volta la normalità, spezzata per un momento dalla sentenza del Tribunale dei minori, viene ricomposta: e la Corte d’appello cancellerà con la sua sentenza ogni traccia di sospetto verso “ignoti”. Perla tranquillità di tutti gli uomini medi, Pasolini tornerà così nella casella che l’ufficialità gli aveva assegnato già dai giorni lontani della “segnalazione” del ministero dell’Interno.
 Oscenamente vissuto e oscenamente morto, senza un residuo di dubbio a inquietare le coscienze.

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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