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martedì 9 novembre 2021

Pier Paolo Pasolini, Gadda ha tolto il disturbo - Tempo, 3 giugno 1973

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Pier Paolo Pasolini
Gadda ha tolto il disturbo

Tempo, 3 giugno 1973
pag. 22
Biblioteca Nazionale Centrale Roma

 
 Gadda è morto, e io sono pregato di farne un epicedio. Ho gli occhi asciutti, poco dolore. Probabilmente abbiamo avuto da lui tutto quello che dovevamo avere. E la sua morte ci mette anche in questo — nei suoi riguardi — la coscienza in pace. D’altra parte, forse noi, a nostra volta, avremmo avuto qualcosa da dare a lui, e in tal caso sarebbe più grave che la nostra coscienza si sentisse assolta dal ritiro di Gadda da questa vita. Ma io credo che Gadda, in realtà, non volesse niente da nessuno. Spesso si lamentava di non ricevere, di avere bisogno di informazioni, di aiuti, di compagnia, di affetto, di amore. Ma in realtà non era vero. O era vero in un luogo più profondo
della sua anima, la dove un passeggero amico come me non poteva essere che impotente.
   Questa sua mancanza del bisogno di altri, questa sua autosufficienza nella solitudine, e il suo bisogno, sconfinato, di solitudine, fanno si che ora la sua morte non dia dolore, a nessuno: è questo un modo stupendo di morire. Non scomodare con faticosi pianti e sospiri parenti, amici e conoscenti. Togliere, letteralmente, il disturbo: che è stata l'aspirazione continua, affannosa e buffa di Gadda. Quando era vicino, presente, egli cercava di volatilizzarsi, farsi piccino, sparire. La cosa era, appunto, buffa, in un uomo grosso come lui. Spesso, per attuare questa sua aspirazione, abbassava gli occhi; e se ne stava cosi, con le grosse palpebre chiuse, la bocca smorta, le mascelle cascanti, nel loro colore rossiccio dei golosi; magari con le mani intrecciate sopra la pancia. Un penitente, disperatamente contrito, con la testa china o reclinata, gli
occhi rivolti a terra, in attesa che finalmente un boia, per ordine delle venerate autorità, prendesse tra le sue braccia quel corpaccione come fosse un corpicino e lo portasse al meritato patibolo.

   Il disprezzo fisico che Gadda aveva verso di sé era un fenomeno psicologico di rara potenza comica; se in un rapporto col suo interlocutore ciò che fatalmente nasceva in lui era il desiderio di lasciare tutto lo spazio all’altro, e lui ritirarsi ai margini, magari, appunto sparire, ciò che in compenso nasceva nell’interlocutore, altrettanto fatalmente, era un desiderio manigoldo e irresistibile di essere allegro, ferocemente pieno di vita e di vitalità. Quasi per una legge fisica: la quantità del mondo cui Gadda rinunciava veniva annessa dall’altro, il
quale di conseguenza era regolarmente preso da un ilare ottimismo, da un’illimitata fiducia in se stesso.

   Ora che Gadda si è ritirato definitivamente, voltando le sue spalle curve, e incamminandosi per una strada che lui ha sempre saputo bene, c’è in chi resta una vera e propria esplosione di vitalità. Si, la morte di Gadda dà una strana certezza di pace: non solo perché è oggettivamente la morte di un uomo molto vecchio che si è meravigliosamente adempiuto - e con una vitalità reale, confronto a cui quella dei suoi vari interlocutori fa ridere — ma, appunto, perché il modo che Gadda aveva di cedere il posto agli altri era buffo. La persona fisica di Gadda aveva la qualità dei grandi attori comici, consistente nell'alludere, o ammiccare, con una misteriosa luce negli occhi, al proprio «cliché», ossia alla propria miseria fisica, al proprio aspetto ridicolo, e, insieme, al proprio modo di arrangiarsi nella vita, sia furbescamente, sia rinunciatariamente. Un «eccomi qui» come versione buffa dell’«ecce
homo».

   Naturalmente il grande attore comico cui Gadda può metaforicamente assomigliare è un attore dove predomini una forma di espressività di miseria psicologica, che susciti l’ilarità degli altri, o perché la compatiscono o perché se ne ritengono al riparo. Non si potrebbe mai pensare a Chariot, ma se mai sacrilegamente a Sordi.

   Nato per non essere mai giovane, ma o bebé o vecchio, Gadda conosceva con spaventosa lucidità questo suo destino fisico e psicologico. La sua grande cultura gli ha impedito che questa fosse una tragedia, e ha trasformato la paura e la vigliaccheria in una specie di alto spavento cosmico, e questo è poi stato visto da lui comicamente. La saggezza adulta è stata da Gadda raggiunta attraverso la cultura:
altrimenti, forse, il terrore di non saper e di non poter raggiungerla, avrebbe fatto di lui un relitto: un rampollo degenere di una borghesia altrimenti degenerata. Ma l’ansia terribile di comportarsi e pensare con la forza adulta di un grande borghese professionista e magari benpensante, ha potuto in realtà attuarsi attraverso le vie scandalose della cultura.

   C’era in Gadda una sconfinata competenza delle cose del mondo, pratiche e teoretiche. Ma non avulse dalla realtà. Tutto crollava solo al momento dell’azione. Allora prevaleva il suo grande rifiuto. E cominciava la sua vendetta. Ma era la vendetta contro la società cattiva di un uomo buono. E, infatti, se di uno scrittore si può dare, per eccellenza, la definizione che si può dare di tutti gli scrittori, cioè «buffone di corte», questo è proprio Gadda. Ma curioso: alla fine chi ci
rimette è la corte. Il buffone - senza temere, se non a parole, il ridicolo — si è fatto un severo e quasi santo campione della sconfitta e della vergogna della corte.

   Non c’è stata critica più definitiva alle istituzioni che quella di questo uomo di destra. E non dall’interno delle istituzioni, come egli forse si illudeva di fare (o, da grande attore comico, fingeva di illudersi), bensì da un luogo esterno di castigo o di esilio. Così egli ha ripercorso non solo l’Italia fascista e borghese di oggi, nei suoi luoghi deputati; ma anche tutta la sua storia. Perché ogni suo intervento linguistico su un fatto di oggi presupponeva l’intera stratificazione della storia di una lingua, la cui caratteristica è sempre stata la fissazione, la conservazione per accumulo di forme concorrenti, e - per grande fortuna di Gadda — l’espressività.

   In ogni frase di Gadda si può vedere un fulmineo compendio della storia linguistica — e quindi della storia tout court - d’Italia. C’è il Trecento, il Rinascimento, il barocco, il classicismo, il romanticismo e il Novecento: magari in sei righe. Ma lo spirito comico che presiede il giudizio che Gadda dà su di sé, presiede anche il giudizio che egli dà su tale storia: perché tutto è citato in funzione comica: lo stile sublime è attinto in pochi momenti, ma sempre con segnalazioni indubitabili di scetticismo, come un dovere ottemperato con tocchi di maestro, che lo fa con souplesse, tagliando corto subito: uno straziante
intervento d’archi che subito si dilegua.

   Forse la più grande grandezza di Gadda è consistita nel rendere comica anche la tenerezza — di cui la sua anima ferita, anzi, piagata, doveva poi essere piena. Egli in tutta la sua vita non è stato sentimentale mai, neanche un momento.

  Tempo, 3 giugno 1973






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Curatore, Bruno Esposito

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