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martedì 11 maggio 2021

Interrogativi di Pier Paolo Pasolini - Bianco e Nero, fascicolo 9/12, 1974

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Interrogativi di Pier Paolo Pasolini 

Bianco e Nero
mensile di studio su cinema e spettacolo
fascicolo 9/12, 1974
pag. 157 - 160
Convegno su: « cinema, industria e cultura »


Ogni opera, è ambigua. Ma io dico non in difesa della sua unità; bensì in polemica con la sua unità. Ogni unità è infatti idealistica. (Noi ci poniamo evidentemente, anzitutto, su un terreno culturale materialista). L'ambiguità dell'arte non è dunque, malgrado le apparenze, un dato negativo in quanto irrazionalistico, e quindi decadentistico e borghese. L'ambiguità dell'arte è un dato positivo, in quanto presuppone nell'opera due momenti diversi, che la lacerano, e ne
distruggono l'unità, essa sì irrazionalistica, e quindi, se vogliamo, decadentistica e borghese. Il formalismo russo, specie attraverso Sklovkij ha rilanciato d'unità dell'arte, in quanto unità di funzionamento, unità del « priem ». Lo strutturalismo che, in questo senso, è lo sviluppo storico del formalismo, continua a ribadire l'unità dell'arte, come « tutto solidale », « coesitività » ecc. E vero che sia i formalisti che gli strutturalisti non si dimenticano mai di parlare anche di ambiguità, o per dirla tecnicamente meglio, di « senso sospeso »: ma tale ambiguità o canone della sospensione non è che un elemento formale o strutturale: uno dei tanti elementi che compongono l'unità idealistica dell'arte. L'ambiguità non viene opposta all'unità, come un modo totalmente altro di concepire l'arte. 
La mia ignoranza mi impedisce di definire cosa sia l'ambiguità dell'arte: La mia ignoranza mi impedisce di definire cosa sia l'ambiguità dell'arte: cioè di dire quali sono i due elementi contrari costanti che si scontrano dentro un'opera, inconciliabilmente, fondandone l'ambiguità. I soliti moralisti tendono a vedere nell'ambiguità uno scontro tra passato (borghese e piccolo borghese, irrazionalistico e metastorico) e il presente (virilmente concepito come storia e lotta operaia). Cosa che riduce immediatamente un artista (che, nell'incertezza della sua scelta, è sempre colpevole) a capro espiatorio, oltre che a buffone. Infatti lo scontro tra passato e presente è, se mai, uno scontro o tutto storico o tutto metastorico; profondamente drammatico perché i due elementi che si scontrano sono pari e ugualmente da concepire come reali: due forme di valore » o di « bene insomma »
Mentre nei nostri moralisti marxisti il passato si connota di disvalore e di male e il presente (o 'il futuro) si connotano di valore e di bene. Cosa che pone l'arte a un livello moralistico, e ne implica (a scorno dei nostri moralisti) una positiva unitarietà idealistica. Mentre il problema mai affrontato è appunto quello di dissacrare l'innocenza idealistica dell'arte, istituendovi un dualismo lacerante, come quello sociale della lotta di classe, con cui Marx ha sfatato l'innocenza del borghese (falsa 'idea di sé fondata su una presunta unità dell'uomo), o come quello psicologico dello scontro fra conscio e inconscio, con cui Freud ha sfiatato l'innocenza dell'uomo individuale '(falsa idea di sé fondata su una presunta unità della psicologia). L'estetica marxista non ha inventato nulla di analogo ai dualismi, dialettici o no, istituiti dal marxismo o dalla psicanalisi. Ha dato il « realismo socialista », cioè un'ennesima versione edificante dell'arte, vista ancora una volta idealisticamente. Io non conosco del resto nessuno in questi ultimi decenni che non si sia adoperato ad altro, in campo estetico, che a ribadire e dimostrare ossessivamente l'unità e quindi l'innocenza dell'arte. 
Pare che se questa unità e l'annessa innocenza dovesse andare perduta, tutto andrebbe perduto. Invece, naturalmente, è chiaro che anche l'arte è divisa, anche l'arte contiene due arti, anche in essa non vi è quella purezza che la falsa idea dei teorici anche marxisti vi postula. E 'Io strano è che ogni giorno, anzi ad ogni istante, leggendo e guardando opere d'arte non facciamo altro che sperimentare in esse delle contraddizioni, degli elementi inconciliabili. Ma ci passiamo sopra, conservando solo, a proposito dell'arte, un « sentimento di ambiguità » che ci appare come colpevole. In effetti la grande difficoltà è staccare il mondo estetico da tutto il resto e esercitare su di esso un'analisi che sia solo per esso valevole, giungendo a scoperte che abbiano valore di rivelazione solo al suo interno. Insomma si dovrebbe fare per l'arte ciò che Marx ha fatto per la società e Freud per l'interiorità. 
Occorrerebbe un Terzo Ebreo che inventasse per l'arte ciò che è per la società la « lotta di classe» e per l'interiorità il dramma tra conscio e inconscio: allo scopo, lo ripeto ancora una volta, di non lasciare nulla di idealisticamente innocente. Ma l'universo dell'arte ha là grandezza e la totalità dell'universo sociale o 'universo interiore? Può essere staccato e reso autonomo? Propenderei a crederlo, vista l'assoluta originalità delle sue leggi formali scoperte dalle ultime teorie sull'arte, dal formalismo, appunto, alla stilcritica e allo strutturalismo. Ma non oserei affermarlo definitivamente. È certo però che le incertezze — che fatalmente si trasformano in repressioni, ricatti morali, immolazioni, illazioni, e insomma in tutto ciò che c'è di peggio nei rapporti tra gli individui - derivano nei teorici e nei critici dal voler « applicare » all'arte le grandi filosofie sociali o psicologiche. Non c'è niente di più distruttivo per l'arte che applicarvi il marxismo, o annetterla al marxismo. Come non c'è niente di più distruttivo che esercitarvi delle analisi psicanalitiche. Ciò che vien fuori è sempre una spregevole figura dell'autore: o egli è uno sporco borghese o un cattivo comunista (sul piano dell'applicazione marxista), oppure è un povero bambino immondo, vittima o assassino, ecc. (sul piano dell'applicazione psicanalitica). 
Ciò di cui viene dissacrata 'l'innocenza non è l'arte ma l'autore: il quale, peraltro, non è dissacrato in quanto autore, ma in quanto cittadino o in quanto uomo interiore. Insomma identificando le eventuali forze opposte che si scontrano in un'opera d'arte (causandone l'ambiguità) con le forze opposte della lotta di classe oppure con le forze opposte dell'io e dell'Es, si riduce semplicemente l'arte a uno dei tanti modi di essere della vita sociale o della vita interiore: se ne esclude la possibile « totalità ». Bisognerebbe invece almeno ipotizzarla: e analizzarla in quanto tale. Bisognerebbe cercare quali sono le reali forze che si scontrano nel suo interno — vanificando la presupposta innocente unità — e definirle autonomamente. Solo così sarebbe possibile alla fine vedere se lo scontro di tali forze avviene secondo 'le leggi della logica dialettica, oppure, mettiamo, pre-dialettica, puramente oppositoria: se, dunque, l'ambiguità dell'arte, è una forma particolare, misteriosa, di sintesi, oppure non è altro che il prodotto cristallizzato ma profondamente fluttuante di un'inconciliabile opposizione. A proposito dell'arte cinematografica, tutto ciò è macroscopio. Prima di tutto non si sa bene che cosa essa sia: qualche raro autore cerca di definirla, come può, scientificamente: ma la gran massa dei professori tende a vederla idealisticamente come « linguaggio d'arte ». Quasi che fosse concepibile un linguaggio d'arte senza linguaggio. Ma una volta lasciato sospeso, interlocutoriamente, il problema di che cosa Sia il cinema, ecco la muta dei moralisti marxisti .gettarsi su di esso e « applicarvi » le regole della lotta di classe (dicono loro) o annetterlo all'universo della lotta di classe come uno dei tanti suoi elementi complementari, strumentali, servili. Ed ecco la muta, assai più mite e sparuta degli psicanalisti che agnosticamente prendono il cinema come un enorme test. Per non parlare poi della massa sterminata dei qualunquisti con. ila loro fede, indistruttibile, sulla purezza di ogni opera di poesia e, a fortiori, a quanto pare, di poesia cinematografica.
Indubbiamente i critici migliori sono in genere i critici marxisti, nel momento in cui lasciano sospeso il problema teorico: non possono dimenticane, non in infatti. il dramma, e ciò li arricchisce. Ma è proprio comunista — e la cosa riguarda dunque piuttosto gli estremisti, che senso partitico fra noi sono molti — l'equivoco della più rilevante e macroscopica « applicazione » dell'ideologia marxista dell'opera cinematografica. 
Tale « applicazione » produce un punto di vista che (in un primo momento appare soddisfacente: infatti essa mette in nel cinema, Più comodamente che in tutte le altre tecniche, la contemporanea natura di arte e di merce. Ecco dunque definita e fissata quell'opposizione di forze che è ritenuta necessaria a vanificare l'idealistica idea dell'innocenza dell'opera. Infatti il cinema in quanto arte è impuro essendo anche merce; e in quanto merce è impuro essendo anche arte. L'ambiguità dunque è totale: all'interno dell'opera si svolge una lotta all'ultimo sangue, una contraddizione insanabile; o, in tal caso, l'ambiguità dell'opera sarebbe l'unico possibile superamento, l'unica possibile sintesi. In tutto questo però, a pensarci bene, c'è qualcosa di sbagliato. Arte e merce non possono essere due forze contradditorie, all'interno di una stessa opera. La loro coesistenza infatti — — non è un rapporto dialettico, ma semplicemente una mostruosità: una sirena, metà donna e metà pesce, o un ermafrodita, metà uomo e metà donna: insomma un fenomeno da baraccone. Non si può opporre arte a merce, perché i due concetti appartengono a due universi incommensurabili e diversi: e perciò non possono integrarsi, ma semplicemente se mai Coesistere in un solo corpo, che è dunque un « monstrum» . Cosa bisognerà fare, allora? Prima di tutto convincersi che, se due forze contrarie vanno individuate in un'opera d'arte, tali forzo contrarie devono essere pertinenti all'arte: la cui « mozione » in quanto scrittura è dunque la « mozione » di' un universo. Fatto questo, si. può anche prendere in considerazione il concetto di' merce P, che è estraneo all'universo istituito dalla mozione linguistica: lo si può prendere in considerazione a patto però che esso venga trasformato in senso estetico. Come? È semplice: osservando ciò che la necessità di essere un produttore di merce diventa, linguisticamente, in un autore che si considera prima di tutto un produttore di arte. 
Tale necessità crea delle nuove regole prosodiche e metriche, assimilate « primum » non consumabile della sua dall'autore alle altre che sono il e che tale assimilazione, a sua volta, modifica. Tuttavia alla fine opera — le leggi linguistiche che nascono dalla necessità della mercificazione, non possono che diventare in tutto e per tutto, appunto, delle leggi linguistiche. 
Esse non possono opporsi più dialetticamente, e neanche con la forza dell'opposizione pura, alle leggi linguistiche che nascono dalla pura necessità espressiva. Non può essere questo dunque il dualismo materialistico o dissacrante che cercavamo. A questo punto, bruscamente, interrompo il discorso. Non saprei concluderlo. Ho posto un problema, ed era semplicemente quello che mi proponevo. 

Pier Paolo Pasolini

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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