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sabato 10 aprile 2021

Sussurri e grida. Pasolini e Bergman - «Playboy», III, l, gennaio 1974

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Sussurri e grida.


Considero Bergman un grande regista, e, benché così lontano da me, lo comprendo e lo amo senza fatica. I suoi personaggi femminili, dai glutei, dai seni, dai garretti monumentali, eppure così deboli - come elefanti feriti che cercano disorientati il loro cimitero - mi sono, teoricamente, del tutto estranei: in pratica, ne sono affascinato. Luci d'inverno è uno dei film più belli della storia del cinema. Sussurri e grida segna invece un'imprevedibile involuzione nella storia stilistica di Bergman. Anzi, una vera e propria degradazione dei suoi temi e dei suoi strumenti espressivi. La cultura di Bergman sarebbe strettamente cinematografica se non fosse anche teatrale: la cultura fiancheggiatrice è di carattere, suppongo, teosofico ed esoterico, secondo la tradizione scandinava (penso soprattutto a Strindberg). Ma la cultura, la cultura vera e propria, senza qualificazioni, appare in Bergman piuttosto limitata. Già in Persona e nel Rito Bergman aveva acriticamente assunto nel proprio mondo stilistico forme non sue, ma diffuse da una circolazione

culturale «specialistica» e ben presto ridotta a schemi, ad approssimazioni, a regole terroristiche. In Persona ci sono tracce del montaggio di Godard, e anche alcuni suoi manierismi «profilmici» da macchina da presa in campo, per esempio). Malgrado questo, Persona rimane un film splendido, quasi del tutto smaterializzato: un cerimoniale visivo o «mistero», estremamente leggero.
Nel Rito la moda del capitolo cinematografico godardiano è già meno rilevante: resta l'esasperazione del tempo delle inquadrature, la nudità dei fondi. Ma si tratta ormai di uno scambio normale di esperienze tra autori che operano nello stesso mondo. Il rito è effettivamente bergmaniano in modo inconfondibile. Anche Sussurri e grida lo è. Lo sperimentalismo godardiano così aspramente metalinguistico, è pressoché scomparso. Ha lasciato tracce di «sperimentazioni» come forme di libertà espressiva che si ricongiungono a una storia dello stile cinematografico ben anteriore a Godard (il formalismo russo, l'espressionismo tedesco ecc. ecc.). Lo ripeto, la cultura di Bergman è strettamente audiovisiva. In Sussurri e grida, la sequenzina iniziale di paesaggi e orologi, con le inquadrature in panoramica che dissolvono ripetutamente; il fondo rosso non realistico delle pareti; la bianca, pesante altalena nel giardino del <<lieto fine», ricordano un certo espressionismo moderato, passato anche nei film di qualità inferiore. Appartengono insomma alla tradizione del cinema -a parte una certa esasperazione «citata». Nei titoli di testa non è detto di chi sia il soggetto di Sussurri e grida. Non posso non pensare - trattandosi oltretutto di un film in costume - alla grande drammaturgia svedese del secolo scorso. Specialmente Strindberg, ma forse anche Ibsen. O forse si tratta di qualche imitatore minore sconosciuto fuori dalla Svezia. Se non è così, e il soggetto è un soggetto originale di Bergman, si tratta di un rifacimento che io non riesco a considerare critico. Anzi, esso fa venire il sospetto che tutto il cinema di Bergman si fondi su tale tradizione non assunta criticamente, ripresa come se si trattasse di una evoluzione naturale. Ciò non è di per sé (come ogni ritardo) un dato negativo: ma lo diventa nel caso - come quello di Sussurri e grida -che si tratti di un'involuzione, di un ritorno indietro. Una tradizione recuperata nella sua estenuazione estrema può essere stupenda, ma la sua sostanza reale è irrecuperabile se non attraverso una lucida coscienza critica. I personaggi di Sussurri e grida entrano ed escono dalla comune -ma non ironicamente -come nei vecchi drammi naturalistici. Anche l'arredamento è quello dei vecchi drammi naturalistici, che si svolgono ·dal primo al terzo atto nello stesso luogo (un interno borghese con ricca e sinistra mobilia e pareti scarlatte). Il nodo della vicenda ha le stesse caratteristiche: quattro donne che l'agonia di una di esse riunisce, scatenando una serie di rapporti anomali, che solo dopo la morte si normalizzeranno. Questo viluppo uterino, col suo background di rapporti normali (due mariti e un amante) e un passato che appare felice, è tipico del dramma ottocentesco o protonovecentesco (un viaggio di Agnese, la malata, in Italia, ne è la spia clamorosa). Il naturalismo -anzi, il verismo-si trova nella sostanza di un simile viluppo: non poteva quindi non manifestarsi anche come processo stilistico. Non polemizzo contro il naturalismo e il verismo. Essi sono strumenti estetici che hanno l'identica validità di altri strumenti, e non compromettono il risultato. Ma Bergman non vuole essere un autore naturalista o verista, e d'altronde egli non ha la violenza critica necessaria per esserlo attraverso la citazione. Quindi quando Agnese rantola, si lamenta, agonizza, fa del naturalismo, anzi, del verismo: allo stato puro, cioè arbitrario, e anche un po' stilisticamente volgare. E questo succede in quasi tutte le «scene madri». Ma il naturalismo o addirittura il verismo non è il solo dato della ricaduta bergmaniana: per una forma dissociativa del resto tipica, c'è in Sussurri e grida anche dello spiritualismo. Non edificante, certo, per fortuna. Naturalismo e spiritualismo finiscono così col suddividersi equamente la gestione del film: il naturalismo presiede al comportamento e alla presenza fisica dei personaggi, lo spiritualismo presiede alla loro psicologia e alla loro qualità morale. Essi dunque - pur agendo come se fossero «veri» - vengono traslocati in un universo spiritualistico in cui la loro negatività di personaggi borghesi infelici è vista come emblematica. E inutile dire che anche su questo punto non ho niente da criticare: non è detto che la morale debba essere necessariamente storico-sociale; e la condanna contro la borghesia può venir pronunciata anche da un prete o da un ateo idealista, oltre che da un intellettuale di sinistra. Naturalmente lo spiritualismo - pessimista e apocalittico - non si limita a sovrapporsi al naturalismo come principio astratto a principio astratto: sia il naturalismo che lo spiritualismo hanno infatti le loro regole espressive, le loro tecniche. Ma anche sotto il profilo tecnico-espressivo, naturalismo e spiritualismo si sono equamente suddivisi compiti e aree. Il naturalismo si è annesso i campi lunghi e i totali; lo spiritualismo i primi piani. La «verità» amministra i personaggi nei brevi piani-sequenza in cui si vedono tutti insieme, come in un palcoscenico, e «entrano ed esco· no dalla comune», agendo secondo il mimetismo perfetto di chi rifà la vita; lo «spirito», invece, amministra i personaggi, quando da soli, o a due, si accampano nello spazio astratto creato dall'obiettivo grosso o dallo zoom, con forti luci e ombre, passaggi del «fuoco» da un primo piano all'altro, panoramiche irregolari e dissolvenze espressivamente rosseggianti. Probabilmente è successo che Bergman, come creatore di moda, ha poi dovuto subire il peso della moda stessa, rifacendo cose che usano fare gli imitatori, che non hanno niente da perdere e non possiedono altra arma per imporsi che gli effetti e la violenza del cattivo gusto recuperato, ricattando così i critici e riagganciando gli spettatori. In questa acquiescenza al terrorismo della moda (perché aver paura del romanzo d'appendice, del melodramma o del Grand Guignol?), Sussurri e grida è un po' simile a Ultimo tango a Parigi. Naturalmente, Sussurri e grida è un film così carico di tutto che Bergman trova modo di fare delle cose bellissime, e alcune geniali: le donne che corrono per i corridoi a una ricaduta di Agnese, la lettura del Circolo Pickwick ad Agnese in una sosta del male, le gambe della morta ricomposte dalle donne sotto le coperte, l'abbraccio finale della serva materna alla padroncina rifatta lattante dalla morte, eccetera. Ma la cosa più bella in questo pasticcio naturalistico-spiritualista è un demento che Bergman non ha saputo o non ha avuto il coraggio di rendere compiutamente esplicito, mentre, in realtà, avrebbe dovuto essere il tema e il filo conduttore di un film che non ce n 'ha. Malgrado l'apparenza confusionaria e magmatica (dovuta allo spiritualismo impaziente di geometrie e sostanzialmente estetizzante) Sussurri e grida è un film solidamente costruito: un prologo, che delinea la situazione (dopo un piccolo prefazio atmosferico); tre flash-back consecutivi (che sono tali solo tecnicamente, in quanto che, più che di ricordi, si tratta di evocazioni o pensieri): il primo flash-back della sorella giovane (tentativo truculento di suicidio del marito), il secondo flash-back della sorella maggiore (episodio sadomasochista altrettanto truculento di fronte al marito), il terzo flash-back (che è appunto, piuttosto, una proiezione) della serva Anna (l'identificazione della morta implume e impotente con la propria bambina); infine, un epilogo sul ritorno - alquanto sinistro -alla normalità. I tre flash-back sono architettonicamente collocati tra due primi piani, identici, del volto statuario -meduseo, con dissolvenza in rosso della donna che ricorda o pensa. Entro questa rigida struttura si inseriscono - come triglifi tra le metope - i brani frammentari dell'agonia di Agnese. Gli uomini sono dunque relegati, come corpi estranei, in flash-back rigidamente «chiusi». Il dramma, il fosco dramma pseudo-strindberghiano, si svolge tutto tra donne. Ed è appunto nel formarsi di due coppie, in questo piccolo Lager, che si ha l'elemento narrativo più vero e poetico in questa storia sostanzialmente banale. Il rapporto che lega la serva Anna ad Agnese e Agnese alla serva Anna, in una complementarità perfetta, è un rapporto omosessuale: la serva, trasferendo l'amore per la propria figlia perduta in Agnese, lo erotizza, e forse più ancora Agnese, trasferendo il proprio amore per la madre dalla placida femminilità (come risulta dal suo diario), nel bianchissimo, immenso seno di Anna. L'amore che lega invece incestuosamente le due sorelle è di carattere narcisistico: le due «egocentriche» si specchiano l'una nell'altra, oggettivando l'amore per se stesse, per la propria sensualità folle e mai sfogata, per la propria aridità, per la propria aggressività, per la propria impotenza. Si abbracciano, si toccano, si lisciano come due grosse serpi. Anche questo Bergman ha buttato nel calderone di Sussurri e grida, mescolandolo con il resto, e ottenendo così una intrigante enigmaticità attraverso l'esagitazione del magma.

«Playboy», III, l, gennaio 1974



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Curatore, Bruno Esposito

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