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martedì 2 marzo 2021

Temi arcaici nel teatro di Pasolini - di Fabien S. Gerard

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Temi arcaici
nel teatro di Pasolini

di Fabien S. Gerard
Già in “Teatro contemporaneo”, Rivista quadrimestrale di studi sul teatro contemporaneo diretta da Mario Verdone, 
Anno III n. 7, giugno-settembre 1984
e
 già nel blog di Angela Molteni,  pasolinipuntonet.blogspot.com/



(Ringrazio Fabien S. Gerard per la cortese concessione alla pubblicazione in queste pagine)


PARTE PRIMA


Andrò a pregare sulla tomba del mio povero padre. 
Non l'ho dimenticato, egli è ora nei miei sogni, 
e nei miei sogni mi parla con parole di grazia.
Oreste (Pilade)

Davetti Vitaliano - Teatro stabile Torino
Anche se rapido, uno sguardo sul corpus teatrale di Pier Paolo Pasolini offre l'opportunità di una riflessione originale sul ruolo di questa irreprimibile «forza del Passato» che, da capo a capo, sottende l'opera proteiforme dello scrittore-ci­neasta. Forza del Passato in senso largo, s'intende, che fonden­do in modo magmatico i rinvii all'antichità classica con quelli al terzo mondo o alla millenaria civiltà contadina, partecipa di questo poetico concetto di «barbarie», così congeniale a Pasolini, sulla definizione del quale abbiamo già avuto occa­sione di soffermarci in altra sede [1]. Ma forza del Passato in senso arcaico, innanzitutto, nella misura in cui l'amore «solo nella tradizione», ossessivamente rivendicato dal poeta, defi­nisce con precisione l'attaccamento crescente di Pasolini al­l'insieme dei valori culturali delle comunità preindustriali - o semmai paleoindustriali -, che assume ben presto l'aspetto di un'autentica sfida ideologica nei confronti del potere «infer­nale» del Neocapitalismo e del consumismo trionfante che, di quei valori, intende oggi liberarsi [2].

La scelta stessa della via teatrale risulta, da un altro lato, particolarmente emblematica a questo riguardo, sviluppando­si, in effetti, in stretta simbiosi con la fase mitico-ermetica che, nel campo cinematografico, va da Edipo re [3] (1967) agli Appunti per un'Orestiade africana (1970). Tanto è vero che è all'insegna di una vera e propria reazione culturale contro la «tirannia» dei mass-media che bisogna ormai considerare l'intera produzione del Nostro durante la seconda metà degli anni Sessanta, esplicitamente destinata, attraverso il suo ca­rattere sempre meno «consumabile», a mettere in crisi l'uo­mo medio nel suo rapporto col linguaggio stereotipato impostogli da ogni parte [4].
Davetti Vitaliano - Teatro stabile Torino
I fatti, oggi, sono ben noti; limitiamoci a richiamarli mol­to brevemente. Costretto per due mesi all'immobilità in segui­to ad un'ulcera duodenale, Pasolini si scopre, nella primavera del 1966, grazie all'intensa rilettura di Platone, un rinnovato interesse per la tecnica dialogica in quanto tale.
Al termine della lunga convalescenza, confesserà agli amici l'abbozzo di ben dodici tragedie in versi, delle quali sei testi verranno, infine, portati a termine [5]: cioè Calderòn, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia e Bestia da stile, per la maggior parte pub­blicati postumi. (Uscito presso Garzanti nel '73, Calderòn può in effetti essere considerato l'unica versione veramente rifini­ta dall'autore; la pièce Porcile darà luogo alla versione cine­matografica che conosciamo; mentre Teorema, benché conce­pito inizialmente come soggetto teatrale, vedrà la luce, due anni più tardi, sia come film che come romanzo).
«Nuovi Argomenti», n. 9,gennaio-marzo 1968
La poetica di Pasolini in materia, ampiamente esposta in un manifesto programmatico apparso su «Nuovi Argomen­ti» [6], sarà dunque di aprire la strada ad un «nuovo teatro», il cosiddetto Teatro di parola, il quale si schiera subito e contro l'accademismo compiacente della «chiacchiera», caratteristica - secondo la definizione di Moravia - del teatro borghese tradizionale, e contro l'avanguardia provocatrice del «gesto» e dell'«urlo», uscita dalla contestazione borghese-antiborghe­se. In questa prospettiva, al di là dell'iniziale spintarella plato­nica - assunta in ispecie come garante «antimoderno» per eccellenza [7] -, il modello qui affrontato non è altro che il gran­de teatro classico dell'antica Atene, il più idoneo cioè alla mas­sima sacralizzazione della parola grazie all'assenza quasi tota­le di azione scenica propriamente detta. Per altro verso ideal­mente dedicata alle «commoventi» figure di Majakovskij e di Esenin [8], l'opera drammatica di Pasolini intende rivolgersi es­senzialmente ai «gruppi culturali avanzati della borghesia», i soli capaci, agli occhi del poeta, di rivolgersi, «senza partito preso né retorica», alla classe operaia...


Ma prima di giungere all'analisi più dettagliata di questa intensa stagione creativa, conviene riportarsi indietro di due decenni, al momento in cui Pasolini, già diviso tra poesia, pittura e saggistica, vuol anche sperimentare la «traversa» letteraria del teatro. Sappiamo che è precisamente attraverso l'uso - sia pur sempre manieristico - della forma dialettale, ultimo rifugio vivente dell'infinita babele barbarica del mon­do periferico delle «piccole patrie» [9], che l'autore è sempre riuscito a concretizzare nel modo più immediato il proprio dissenso nei confronti dell'omologazione culturale mirata da ogni potere totalitario - che si trattasse del fascismo storico del Ventennio Nero o, peggio secondo lui, del Nuovo Fasci­smo consumistico... E conosciamo anche il valore affettivo tutto particolare che assunse ben presto in seno alla «mitolo­gia» personale di Pasolini, la vergine e quasi preistorica par­lata del Friuli occidentale, da lui già significativamente paragonata, in quegli anni, al greco antico «per la sua bellezza, per la forma piena e risonante delle sue dittongazioni» [10].
È in un tale contesto, insieme etico ed estetico, che biso­gna dunque avvicinare I Tùrcs tal Friul (I Turchi in Friuli), vero esordio drammatico dello scrittore, per quanto si pre­scinda qui dai vari «dialoghi» incontrati lungo i versi con­temporanei della Meglio Gioventù, nei quali il critico Enrico Groppali ha giustamente reperito una sostanziale premessa in questa direzione [11].

Tuttolibri 22 maggio 1976

Forse suggerita dalla recente lettura di un passaggio dei Canti del popolo greco del Tommaseo [12], l'opera si compone di un atto unico scritto nella venerata lingua materna intorno alla primavera del 1944, e narra in chiave autobiografica un episodio tragico della storia del Friuli, collocato alla fine estrema del quattrocento. L'azione si svolge una sera d'autun­no del 1499, in un piccolo villaggio della destra del Tagliamento. Incombe la minaccia dell'invasore ottomano mentre, radu­nata sotto il portico di casa Colùs, l'intera popolazione dibat­te il da farsi. Subito scoppia il contrasto tra le posizioni dife­se dai due eredi della maggiore famiglia del luogo. Arrendendosi al destino, il primogenito, Paulì, esorta tutti quanti a pregare ed a mettere la propria fiducia nella sola protezione divina; Meni, invece, il beniamino, sceglie arditamente di scontrarsi col nemico nel greto del fiume, e presto raggiunge la campagna insieme ad un branco di contadini dalle guance imberbi. Corre però la notizia che i Turchi, sempre più vicini, continuano a seminare fuoco e distruzione dappertutto al lo­ro passaggio. Dall'alto del granaio, la madre scorge il funebre ritorno dei giovani; in testa alla colonna, viene portato su una barella di fronde una sagoma che finisce col risultare il cor­po, ormai senza vita, del temerario Meni. La disperata orazio­ne pronunciata da Paulì davanti alla salma del fratello sem­bra preludere alla fine di tutto quando, improvvisamente, un vento forte solleva un'immensa nube di polvere che acceca, respinge e disperde «la gente straniera», salvando per que­sto miracolo la comunità dal pericolo pagano.

Teatro stabile Veneto

Guido Pasolini
Stupenda epica contadina, tutta intrisa da un'istintiva religiosità cristiana, I Tùrcs tal Friul intende ovviamente esal­tare le radici dell'autore, tanto a livello famigliare quanto collettivo. Il villaggio è d'altronde subito identificato come Casarsa, e dietro la maschera dei tre protagonisti della fami­glia Colùs, non è difficile riconoscere Pier Paolo, il fratello minore Guido, come pure la madre Susanna Colussi. L'episo­dio stesso, benché faccia eco all'angosciante realtà del mo­mento - la minaccia nazi-fascista - si basa in ogni modo sul ricordo di un fatto storico preciso, attestato da una lapide ancor oggi murata nella chiesetta locale di Santa Croce, in commemorazione della vittoria del 1499. Dettaglio più inquie­tante, si noterà come l'aneddoto sviluppato qui da Pasolini, anticipi, in un certo senso, la tragica scomparsa di Guido che, meno di un anno dopo, morirà partigiano, ad appena vent'anni, sul confine yugoslavo.

Arcaica, per non dire addirittura «barbarica» - almeno nell'esplicita accezione pasoliniana [13appare subito, a livel­lo formale, l'assoluta frontalità visiva della scena che, svolgen­dosi per intero ai piedi del «palazzo» casarsese, già in que­sto primissimo tentativo drammaturgico, si riallaccia palese­mente, oltre allo scontato richiamo al teatro misterico medie­vale, all'archetipo della scenografia ateniese. Così come ci rammenta la tragedia antica, il modo inconfondibile in cui l'azione vera e propria si svolge, anche qui, in linea di massi­
ma, fuori scena, solo riferita cioè da chi ne è stato testimone.
Non di meno suggestiva, nella prospettiva che ci riguar­da, la scelta dell'ambiente rustico che, nella fattispecie, fin dall'incipit dà luogo ad un'evocazione di struggente semplicità, non a caso proferita proprio dall'alter ego del poeta, da Paulì:

(...) Ucà, a si stava, Crist, cu ‘l nustri colt, cu la mastra Glisiuta... Èsia pussibul che dut chistu al vedi di finì? Se miracul èisa, chistu, Signòur, che tu ti vedis di vivi enciamò, quant che dut cà intor che adès a è vif, coma che s'al ves di sta vif par sempri, al sarà distrùt, sparii, dismintiàt? E tu Verzin Beada? Sint se bon odòur ch'ai sofia dal nustri paìs... Odòur di fen e di èrbis bagnadis, odòur di fogolàrs, odòur ch'i sintivi di fantassìn tornant dal ciamp. Tu, almancul Tu, ch'i ti vedis pietàt di nu, ch'i ti fermis il Turc [14].


Un quadro, questo, che come vedremo più avanti, spesso si ritroverà disperso qua e là, nei lavori futuri, anche in conte­sti a prima vista meno scontati, quasi che fosse diventato un tòpos ormai d'obbligo, nel Pasolini degli anni Sessanta, più che mai attento ad alludere alla muta, segreta, sovversiva presenza delle ultime culture subalterne.

Luna, infinit il lun da la to sfera
al brila seren dai vècius muàrs.
Ma nu i sin vifs cun cuàrps di zovinùs
cujèrs di ora antìc e imbarlumìt.
I zìn pai ciàmps dai muàrs ciantànt beàs
cu na rabia platada drenti al sen:
corài e trìmui a ni la platin drenti
tal volt sensa pensèirs di Turcs lontans.
Luna, sclarìs la ciera dai Furlàns
co a clamin da li stalis: Jesus, Jesus! [15]

Così suona invece il coro dei Turchi che, poco prima della frettolosa conclusione, rintrona nel cielo. Magari con l'ingenuo pretesto di sublimare la propria ansia di fronte alle truppe nazi-fasciste ora allo stremo, già spiccano in tale visio­ne dell'armata pagana, sia pur privi di qualsiasi coscienza altra che estetica, i primi segni di quello stupendo gusto «barbareggiante» di stampo carduccio-rimbaldiano che, anni do­po, Pasolini prediligerà insieme ad Elsa Morante [16], maturato quindi in senso sempre più messianico - specie dalla famosa Profezia alla maniera di Franz Fanon di Alì dagli occhi azzur­ri in poi [17]. (E a riprova di tale evoluzione, possiamo oggi osservare con divertito interesse, grazie ad una poesia inedita «confessata» in un'intervista del 1970 [18], come il Nostro giun­gerà, in ben diverso contesto storico, a rovesciare del tutto - «per gioco» però, come precisa appositamente - le due parti contrapposte; e quindi a condannare senza appello, in uno sfogo dagli accenti quasi gheddafiani, il cristianissimo Carlo Martello, irreparabilmente responsabile di aver stroncato a Poitiers l'espansione musulmana del secolo VI, unica promes­sa di «salvezza», agli occhi del poeta, del futuro Occidente tecno-industriale!).
Poi silenzio, o quasi. Le poesie, i primi romanzi, i saggi, per «Officina», nonché, sempre più incalzante, l'attività di sceneggiatore cinematografico, sembrano allontanare definiti­vamente Pasolini dalla tentazione teatrale. Finché spunta, ca­sualmente, Vittorio Gassman; saranno infatti due traduzioni dall'antico, su commissione del Teatro Popolare Italiano, a segnare la distensione ufficiale dello scrittore con la creazio­ne dialogica, nei primi anni Sessanta. Si era diffusa la voce che l'autore dei Ragazzi di vita avesse intrapreso una nuova versione in lingua italiana - mai compiuta - dell'Eneide; appe­na informatone, Gassman ebbe l'idea di affidargli il testo ita­liano dell'Orestiade in preparazione per il prossimo festival di Siracusa. Virgilio non è certo Eschilo, non più di quanto il latino somigli al greco... A dispetto delle scadenze, brevissi­
me, e dell'impedimento per altri impegni precedenti, Pasolini accetta la proposta e il contratto è presto firmato. 


Locandina 1960
La fermez­
za di una tale decisione è sufficiente di per sé a confermare l'attrazione lancinante esercitata su di lui, dopo lungo tempo, da un mezzo espressivo fino ad allora «indomato». Ma an­che del tutto decisiva si deve riconoscere la natura specifica del soggetto in questione, il quale, come vedremo, nutrirà d'ora in avanti in modo proprio privilegiato la sua riflessione intellettuale dei successivi quindici anni.

In una società primitiva dominano dei sentimenti che sono primordiali, istintivi, oscuri (le Erinni), sempre pronte a travolgere le rozze istituzioni (la monarchia di Agamennone), operanti sotto il segno uterino della madre, intesa, appunto come forma informe e indifferente della natura. Ma contro tali sentimenti arcaici, si regge la ragione (ancora arcaica­mente intesa come prerogativa virile: Atena è nata senza madre, direttamente dal padre), e li vince, creando per la società altre istituzioni moderne: l'assemblea, il suffragio. 
Tuttavia certi elementi del mondo antico, appena supera­ti, non andranno del tutto repressi, ignorati: andranno, piut­tosto, acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre parole: l'irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non de­ve essere rimosso (che poi sarebbe impossibile), ma semplice­mente arginato e dominato dalla ragione, passione producen­te e fertile. Le Maledizioni si trasformano in Benedizioni. L'incertezza esistenziale della società primitiva permane co­me categoria dell'angoscia  esistenziale  o  della  fantasia nella società evoluta [19].

Scena Orestiade 1960
Questa, «e non altra» risulta la trama della mitica trilo­gia eschilea, secondo le stesse parole del traduttore nella sua nota introduttiva. Nessuno si stupirà, in verità, dell'interesse congeniale di Pasolini per l'ambiente chiaramente preistorico dell'opera, strapiena, come ben sappiamo (almeno nei due primi terzi, cioè Agamennone e Le coefore) di «selvaggi dolo­ri», di «urli stridenti», di «tiepido sangue, scuro».
Così co­me si individua senza fatica nella descrizione dei riti funebri compiuti da Oreste ed Elettra, come sopra un altare, sul tu­mulo della tomba paterna, la stessa sensibilità con cui lo scrittore, qualche mese dopo, ci farà partecipi degli ancestrali sacrifici propiziatori da lui attentamente osservati per le stra­de di Dehli, Bombay o Calcutta durante il primo «pellegrinag­gio» indiano del natale 1960, in compagnia di Moravia e del­la Morante [20].
Pur non essendo qui autore vero e proprio né del sogget­to né del testo originale, va sottolineata l'immediata attrazio­ne dello scrittore per la dialettica storica che, mediante il processo legale instaurato dalla saggia Atena, Eschilo svilup­pa in modo tanto originale nella terza parte del dramma, nelle Eumenidi. Poiché sotto la contesa fra Apollo e le Erinni si cela in realtà una ben più profonda discordia opponendo alla matura autorità di Zeus l'antichissima potenza delle Moirai, a sua volta materializzazione del conflitto sorto dalla revi­sione della legge sull'omicidio, effettuata dal regime aristocra­tico a spese della tradizione precedentemente in atto nell'Atti­ca tribale [21].

Scena Orestiade 1960

Pasolini ha quindi capito benissimo, nel caso specifico, che è proprio l'urto tra queste due antitetiche Weltanschauungen - la remota fedeltà all'immagine della madre contro la nuova fedeltà all'immagine del padre - ad incidere sul destino del matricida Oreste, nella cui figura si scorge appunto, osserva lo studioso inglese George Thomson, «il futuro di tutta l'umanità» [22]. Grazie alle note virtù conciliatrici della giovane dea della ragione avverrà la riconciliazione «tra po­tenze celesti ed infere», così che la vicenda, «iniziata in un passato lontano e barbarico», si concluderà «con accenti di modernità» [23]. E nessuno dubita, nel merito, che l'autore delle Ceneri di Gramsci, da tempo straziato tra natura e coscienza, tra luce e buie viscere, tra passione, infine, e ideologia, abbia intuito in tale fusione dei contrari la possibilità di qualche soluzione concreta alla sua intima «contraddizione» esisten­ziale [24] - sempre più acutamente vissuta in quegli anni di trapasso, di instabile equilibrio «sull'orlo estremo di qualche età sepolta»...
Benché fosse certo tentato di dare personalmente più credito, come poi si vedrà, alle «lecite obiezioni» presentate davanti all'Areopago dalle mugolanti «figlie senza figli della Notte» - che, mutatis mutandis, potremmo utilmente ravvici­nare a certi argomenti dei futuri Scritti corsari [25] al poeta non sfugge però la necessità vitale di venire a patto, almeno in un primo tempo, con la nuova realtà storica, magari attra­verso una riconversione simile alla simbolica mutazione delle Erinni in Eumenidi, la cui «sublimazione» creativa narrata nel progetto africano del Padre selvaggio, per poco fu sul punto di diventare, nel 1964, l'illustrazione più chiara in seno alla filmografia pasoliniana [26].

Osanna anche a voi! E ora vi cammino davanti, verso la vostra nuova dimora, al chiarore dei lumi di un'ebbra processione. Incamminatevi, discendete sotto la terra, mentre sacrifichiamo le vittime: tenete il male lontano da noi, mandate il bene, per la grandezza di questa città. E voi, guidatele, cittadini anziani, sulla strada della loro nuova casa; soltanto chi ama può ricevere amore [27].

Il lirismo della lingua, in queste parole pronunciate da Atena, scaturisce da una essenzialità precostruita, arricchita qua e là di preziosi lemmi liturgici. Dirà giustamente Enzo Siciliano che con l'opportunità di questa traduzione, Pasolini «sperimentò il linguaggio del proprio teatro a venire» [28]. Un marchio quantomeno personalizzato, lo ritroviamo in alcune correzioni lessicali - a tutti certo non gradite [29] -, come nella sostituzione sistematica del vocabolo Dio all'originario nome di Zeus, nell'uso di chiesa invece di tempio, o altrove di reli­giosa al posto di pizia: altrettanti interventi che, per una reci­proca contaminazione delle sfere pagana e cristiana, allargan­do comunque la profonda religiosità dell'opera, hanno per risultato di aggiornarne con efficacia la modernissima porta­ta civile.
Sempre sulla strada di questo stesso sincretismo stilisti­co intessuto dalla versione pasoliniana, rileviamo infine, sul piano della messa in scena, diversi prestiti, per lo meno para­dossali, dal patrimonio esotico delle società cosiddette tradi­zionali - come nell'uso scenografico di totem negri o nell'intrusione selvaggia di danze vudù -, tentativo «analogico» assolutamente giustificato nella circostanza, stando almeno alle analisi condotte in materia da Ludovico Zorzi [30] e da Roland Barthes [31], e comunque preferibile all'artificioso ricor­so al retaggio iconologico del meriggio dell'arte ellenica. (Og­gi sappiamo peraltro su quali felici sviluppi estetici doveva sfociare poco dopo, nel cinema, l'approfondimento dell'attitu­dine eclettica dello scrittore-cineasta: Edipo re, Medea, Appun­ti per un'Orestiade africana, ecc.).
Malgrado le polemiche - o, chissà, al contrario, forse grazie ad esse -, Gassman reputerà così positiva la collabora­zione con Pasolini che, fin dall'anno seguente, deciderà di ripetere l'operazione con un altro classico dell'antichità, lati­no questa volta, benché ispirato ad un modello greco oggi perduto, di cui conserva sia l'ambientazione ad Efeso sia la nostalgia di lontane campagne in Cappadocia e in India: il Miles gloriosus di Plauto. Del tutto rilevante risulta nuova­mente la mediazione del «traslatore» (Iddio vale per tutti gli dei dell'Olimpo, come croce per patibolo) che, riallacciandosi al filone dei suoi primi romanzi suburbani, consegnerà al committente una gustosa versione romanesca interamente ri­scritta all'insegna di certo «neopaganesimo trasteverino» [32]. Prima rimandato alla successiva stagione per mancanza di attori idonei, il progetto passerà poi in altre mani dopo la prematura chiusura del T.P.I., nel 1962. // vantone - così è ribattezzata l'opera plautina rivisitata dal nostro poeta «mez­zo-barbaro»[33] - rimane tuttavia, finora, uno dei lavori dram­matici di Pasolini più regolarmente ripreso sulle scene; ulti­ma in data, ricordiamo la regia di Marco Gagliardo al Teatro Tendastrisce di Roma, nel giugno '83, con l'interpretazione di Ninetto Davoli e Franco Cittì.
Non si era esaurito intanto il discorso complessivo dell'Orestiade. Anzi, sarebbe conoscere ben male Pasolini nel vederlo accettare così pacatamente l'inganno conclusivo de Le Eumenidi; lì comincia in realtà quella che, senza ambigui­tà, l'autore non esiterà a definire, in altra sede, «la quarta parte della Trilogia» [34]: il risveglio cioè delle Furie, il ritorno delle Erinni...
Questo infatti è il tema del dramma Pilade, concepito durante la fertile convalescenza del 1966, poi pubblicato l'an­no seguente, in una prima versione provvisoria, su «Nuovi Argomenti». Eccoci ai piedi del palazzo reale di Argo. Redu­ce dall'Areopago, Oreste, ormai ebbro dal culto di Atena, af­fermandosi in veste di «atleta della Ragione», s'impegna a portare tra la sua gente «ancora contadina e ossessionata da povertà e religione», la luce di questa nuova divinità, vera mutante «venuta da una nazione più avanzata» e partorita già adulta dal cranio del padre. Tanta è la sua volontà di spezzare ad ogni costo la catena che unisce la città alle visce­re del passato, che presto si scontra con la propria sorella. Schiava invece del suo amore esclusivo e senza speranza per l'ordine antico, Elettra continua a tenere acceso il sacro fuoco della tradizione, irriducibilmente decisa, pare, a «negarsi al futuro». Per reazione di fronte all'avvenuto tradimento di Oreste, sarà proprio lei a richiamare indietro le dee decadute.

VECCHIO
... Le Eumenidi, lassù nei miei monti,
erano, agli occhi dei vaccari, come le vacche.
Voi sapete, Atena, rendendole belle,
le aveva mandate là in alto
a filare i sogni degli uomini. Non i pensieri,
i sogni.
Ed esse stavano là, sulle radure sante,
tra i profumi montani,
misteriosi come l'azzurro del mare.
Stavano là, ai loro colloqui, ai loro silenzi,
apparendo e sparendo,
sui prati, guidate dalle loro incantate necessità.
Come le mandrie delle sognanti vacche, appunto.
E anche tra loro scoppiò la Morìa.
Alcune di esse, pian piano,
cominciarono a degenerare: i capelli gli si facevano
irti, stavano accucciate come bestie,
con gli occhi persi nel nulla. E poi urlavano...

CORO
Che cosa urlavano?

VECCHIO
Oh! Non lo ricordo - e poi chi le capiva?
Ma pressappoco, urlavano che c'era qualcuno
che le chiamava... indietro... sì, indietro...
ed esse stavano ad ascoltare quella voce,
e le rispondevano anche: «Sì, sì, quello
era il nostro stato, sì, sì,
niente si può dimenticare...».
Poi i capelli gli si cominciavano a torcere,
in testa, come serpenti, serpenti
con piccoli occhi furiosi; e la bava
cominciava a uscirgli dalla bocca;
e cominciava a scuoterle la tarantola;
finché, urlando, scappavano via [35].

Tornate furie, sfuggite quindi al dominio di Atena, metà delle Eumenidi scendono in pianura, si diramano dentro la città, «più orribili e selvagge di prima», con l'intento di ripri­stinare l'illud tempus appena tramontato. E ben presto, in effetti sotto la loro guida, Argo «si muove verso il suo passa­to»...
Tra questi due poli, interviene Pilade - il timido, discre­to, silenzioso compagno/non compagno di Oreste, rimastogli sempre al fianco in quegli ultimi «anni di morte». Inafferrabi­le figura, questa, nella cui «Diversità fatta carne» non è ar­duo individuare il portavoce prediletto dell'autore:


E invece tutto torna indietro.
La più grande attrazione di ognuno di noi
è verso il Passato, perché è l'unica cosa
che noi conosciamo ed amiamo veramente.
Tanto che confondiamo con esso la vita.
E il ventre di nostra madre la nostra mèta.
La ragione di Atena che non conosce il ventre
materno, né le perversioni che nascono dalla nostalgia,
né la fatica mortale dell'affrontare ogni azione,
è scesa, è vero, nel tuo spirito
e l'ha fatto strumento di sé:
ma il tuo spirito toma indietro.
È riguadagnato eternamente da ciò che ha perduto.
Tu le Furie non le vedi
perché ti sono troppo vicine [36].

Sia pur non del tutto insensibile, a vicenda, sia alle sedu­zioni della serena volontà di sapere di Atena, che alle ansie di 
vendetta che animano gli spettri del passato, Pilade sente comunque confusamente di doversi rifiutare di cedere tanto all'arido rimpianto che ora irrigidisce Elettra, quanto al beato ottimismo democratico dimostrato da Oreste, del resto presto minacciato da tentazioni demagogiche. Considerato colpevo­le, secondo la sentenza del nuovo tribunale popolare, di parla­re contro tutto e contro tutti, il giovane viene bandito dalla città, ora assorta nella sfrenata costruzione del proprio futu­ro. Anche rimproverato per quel qualcosa di oscuro che sem­pre l'ha portato, si sa, «verso chi gli è inferiore», se ne va quindi in direzione dei monti dove, stabilite alleanze con mi­seri braccianti e proletari disoccupati tornati in campagna, in pochi giorni riesce a radunare un misterioso esercito.
Teatro stabile Torino
Mentre, 
«puri come Barbari», i dannati della terra si accingono a conquistare Argo, ecco Atena richiamare dentro le mura le superstiti Eumenidi, col cui aiuto, nel giro di una notte, s'im­pegna a cambiare la faccia della città «più di quanto era successo in tutti i secoli della sua vita».
Provoca, questo miracolo, l'improvviso sfacelo dell'eserci­to messianico, subito guadagnato all'irresistibile sviluppo del benessere. Franate le sue ultime speranze di palingenesi so­ciale, il patetico eroe non può fare a meno di proferire, davan­ti ad Atena, ora definitivamente vittoriosa, un inno di rabbia che solo sa di puerile e innocua maledizione:

Sorge il sole su questo corpo degradato.
Ah, va! Va nella vecchia città
la cui nuova storia non voglio conoscere.
Perché temere la vergogna e l'incertezza?
Che tu sia maledetta, Ragione,
e maledetto ogni tuo dio e ogni Dio [37].

Teatro stabile Torino
Indubbiamente massima testimonianza, tra i poemi drammatici, della sofferta riflessione di Pasolini riguardo alla 
tematica arcaica, Pilade si presenta come una validissima ap­pendice - insieme rinnovo ed ulteriore approfondimento - della nota trilogia eschilea, anticipando pure, in vari punti, la dialettica arricchita, poco più tardi, sullo schermo, attraverso le figure antagonistiche dell'apollineo Giasone e della dioni­siaca Medea.
Oltre i lievi aggiornamenti lessicali già riscontrati nella precedente traduzione dell'Orestiade (Dio, chiesa, ecc.), si no­tino qui alcuni precisi riferimenti storici (il ricordo della dop­pia morte di Egisto e Clitennestra, echeggiante per esempio l'esecuzione del Duce insieme all'amante; lo sfondo delle «bianche fabbriche»; la presenza degli operai senza lavoro) che contribuiscono a suscitare l'idea di un ritratto tutto meta­forico dell'Italia del secondo dopoguerra [38]. La sistemazione delle Eumenidi, accanto ad Atena, nella fiammeggiante capi­tale dell'avvenire, nonché la consecutiva diserzione del cam­po di Pilade, coincidono per altro precisamente con la tesi pasoliniana dell'ineluttabile «desistenza rivoluzionaria» di fronte alle sirene edonistiche del Neocapitalismo [39], argomen­to al centro ormai del discorso del futuro polemista degli anni Settanta.
È quindi una vera e propria Gotterdämmerung [40], quella cui ci fa assistere Pasolini in questa cronaca della «spezzatu­ra della storia dei riti». E il corpo degradato sul quale piange l'anacronistico poeta, altro non risulta che l'ombra della pro­pria patria, emblema a sua volta di qualche ben più vasta finis mundi.
In un saggio pubblicato a metà degli anni Sessanta, Pasoli­ni scriveva di un momento ideale di vuoto della storia: «è fini­to un tipo di società e ne è cominciato un altro» [41]. Con l'avven­to della seconda rivoluzione industriale, sembra che sia pro­prio morta, per dirlo con Groppali, «l'infanzia del mondo» [42].
Teatro stabile Torino
«Per la seconda volta», ribadisce un personaggio di Pila­
de, «il mondo umano è mutato» [43]. Ecco: la mutazione antro­pologica, appunto. Si lodavano, nell'antica Atene, i grandi tra­gici attici per l'eccezionale coscienza morale, sempre in presa diretta sugli affari della città. Non sarebbe il caso di affermare, allo stesso modo, che Pasolini, anticipando in chiave drammatica il discorso corsaro luterano degli ultimi anni, si rive­la qui, a sua volta, creatore di uno stupendo «teatro civile»? Tutt'altro che marginale in proposito - anche se si tratta del testo forse meno conosciuto della serie -, Bestia da stile, che riguarda la parabola biografica di un immaginario poeta formato nella barbarica Slovacchia, «paese retrogrado / non industrializzato / e più lontano dalla scuola linguistica di Praga / che dal Partenone», permette di individuare, sullo sfondo del ritratto allo specchio, appena truccato, di Pasolini stesso, un quadro dei più suggestivi della campestre cristiani­tà boema prebellica, non immemore dei paesaggi dell'adole­scenza friulana dello scrittore.

Oltre i Carpazi, i Balcani sognano
l'eternità dei loro villaggi di legno
sulle larghe strade con due palmi di polvere
dove passa qualche antico cavallo... [44].

Teatro stabile Torino
All'ascolto dello spirito della madre, l'eroe, di nome Jan, «archeologo di popoli antichi», avido della propria «storia prenatale», si abbandona senza ritegno a questo amore popu­lista insieme fascista e comunista «delle mani rosse che fanno piangere», delle umili feste primaverili bagnate dal vino rituale all'ora del vespro, e degli «atti degli usi sopravvissuti / coi loro lembi di antiche lingue barbare perdute nelle età magiche».

Sì l'Ungheria e la Slovacchia ancora
erano come paesi africani, ma pian piano
avrebbero avuto le loro prime fabbriche [45].

Burocrazia come industrializzazione, conformismo di si­nistra come di destra sembrano, ahimè, minacciare senza spe­ranza di ritorno «la profonda pace contadina». Sarà nuova­mente lo spirito della madre a voltare l'attenzione di Jan verso altri ipotetici orizzonti, ancora estranei magari alla Sto­ria «dove come bestie vagano gli uomini santi / che cacano dove si trovano come le adorabili bestie».

Aaaaaaaaaaah!
Aaaaaah! Aaaah!
Che buon odore di concime!
Sì, sì, figlio mio,
per fortuna ci sono parti nel mondo
dove il concime è concime, la merda è merda,
i poveri muoiono di fame coperti di scabbia
e i cadaveri galleggiano sui fiumi sacri [46].

Teatro stabile Torino
Appena lo spazio di un mattino sopravvive però, come in Pilade, l'illusione del possibile risveglio delle Erinni (proprio qui ritroviamo in realtà quella stupenda definizione della «quarta parte della Trilogia» [47]). Nulla potrà più fermare il travolgente processo del capitale che, mentre sentimental­mente la Rivoluzione si sogna di andare avanti, procede lui a grandi passi... Così avviene, grazie alla falsa democrazia del consumo, quella radicale trasformazione del mondo « che uni­fica Oriente ad Occidente ». E il nostro poeta che, come tutti i poeti, appartiene sempre un po' a qualche civiltà straniera, evoca infine il ricordo del Giappone feudale di un Tanizaki o l'antichissima Cina confuciana, prima di lanciarsi, sempre «per gioco», rivolgendosi scandalosamente, nella fattispecie, ad un giovane fascista della «Destra sublime», in un inno ispirato ai Cantos di Pound, estrema reazione dell'umanista stremato, contro l'intollerabile Sviluppo odierno, sentito anzi come autentica regressione verso una Nuova Preistoria...

Sappi.
Amare il ceppo. Amare il festone di vite.
Amare la nuca dei tuoi coetanei: tosata.
Amare la linea tra campi e paese
(con qualche sacro recinto, per pascoli domestici)
Amare il muretto. Amare il casolare a forma di chiesa,
col fienile, e il brolo col suo odore acido di letame.
Ubi amor, ibi oculis. Amare molto ciò che muore (...)
Sappi.
Amare la povertà. Amare l'estraneità del povero
alla classe dominante. Amare la sua alterità
come cultura popolare.
Amare la sua dura camicia lavata e stirata. Stinta.
Amare i suoi calzoni neri di rigatino. Amare
le toppe di quei calzoni. Amare la mora.
Il vino (il C.; il M. del pergolato di casa).
Tutti i vecchi la sera sulla soglia;
più tardi sul seggiolone: da Padri a Santi (...)
Il volgar'eloquio: amalo.
Porgi orecchio, benevolo e fonologico,
alla lalìa («Che ur a in!»)
che sorge dal profondo dei meriggi
tra siepi asciutte
nei Mercati - nei Fori Boari -
nelle Stazioni - tra Fienili e Chiese
Poi si spegne - e col sospiro
d'un universo erboso - si riaccenderà
verso la fine dei crepuscoli [48].

FABIEN S. GERARD
Segue seconda parte

NOTE

1 Vedi il nostro Pasolini ou le mythe de la barbarie, Editions de l'Université de Bruxelles, 1981.

2 «È inutile ormai, l'amore per il passato è una sfida al potere, che vuole disfarsene» (PPP a R. Bermianissi, Pasolini girerà a Balzano, in «Alto Adige», 4 settembre 1970, p. 4).

3 Quale segno concreto di tale rawicinamento, va sottolineata la partecipa­zione straordinaria di Carmelo Bene e Julian Beck al film Edipo Re, nelle vesti di Creonte e di Tiresia. Sull'incontro con PPP, si legga la testimonianza del fondatore del Living Theatre pubblicata nei «Cahiers du Cinema», n. 194, Pari­gi, ottobre 1967, p. 44.

4 PPP a Jean Duflot, // sogno del centauro, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 57-60.

5 Ivi, p. 78.

6 Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi Argomenti», n. 9, n.s., gennaio-marzo 1968, pp. 6-22. Utili complementi teorici in materia si troveranno nelle preziosissime «precisazioni informative» di Aurelio Roncaglia pubblicate in calce al volume Porcile, Orgia, Bestia da stile, Milano, Garzanti, 1979, pp. 309-315; nonché nelle seguenti dichiarazioni: Proposta da Pasolini, la 'terza via' del teatro, in «Avanti!», Roma, 18 gennaio 1968 e Con 'Orgia' Pasolini debut­ta nel teatro, ivi, 14 novembre 1968. Ricordiamo infine l'intero VI Episodio di Affabulazione, in cui l'ombra di Sofocle tenta una poetica definizione teorica del teatro in quanto «lingua scritta - e pronunciata - della realtà», da confron­tare poi con i saggi cinematografici di Empirismo eretico.

7 Vedi le cosiddette «note di un antico incontro con Pasolini» di G. carioti, Fui antimodemo, sognai Plotone, in «Machina», n. 1, Roma, aprile 1977, pp. 14-17.

8 Manifesto per un nuovo teatro, cit., comma 16.

9 «Si è chiusa l'epoca di quel mondo antico e barbarico che amavo, ed è scomparso il suo mezzo di espressione che era il dialetto » (PPP a E. Colino, Terra già sommersa, in «II Giorno», Milano, 29 dicembre 1973; ora in Letteratu­ra e classi sociali, Bari, Laterza, 1976). Sul valore sostanzialmente sovversivo della «sopravvivenza» dialettale secondo PPP, vedi anche Volgar'eloquio, Na­poli, Edizioni Athena, 1976.

10 Riferito da G. zigaina, // friulano come lingua da protagonista, in Pasoli­ni in Friuli (1943-1949), Udine, Arti grafiche friulane, 1976, pp. 43-45.

11 enrico groppali, L'ossessione e il fantasma. Il teatro di Pasolini e Moravia, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 11-18. Va anche segnalato, il dramma inedito Nel '46, scritto poco dopo e rappresentato nel giugno 1965 al Teatro dei Satiri, con la regia di Sergio Graziani. Ricordiamo inoltre, per la fonte almeno in parte autobiografica, l'episodio delle prove della favola drammatica / fanciulli e gli elfi che, nel racconto Atti impuri, ci presenta un alter ego dello scrittore nella molteplice veste di autore-attore-regista-produttore-tecnico ed operaio dello stesso spettacolo! (in Amado mio, Milano, Garzanti, 1982, pp. 30-31).

12 enzo siciliano, Vita di Pasolini, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 78-79.

13 «(...) con la frontalità tipica dei ragazzi, dei 'fauves', dei barbari» (PPP, prefazione a Biagio Marin, Solitàe, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1961, p. 11.

14 «(...) Qui si stava, Cristo, con il nostro carro, la nostra zolla, con il nostro concime, con la nostra chiesetta. È mai possibile che tutto questo debba finire? Che miracolo è questo? Signore, che Tu debba vivere ancora quando tutto qui intorno che ora è vivo, come se dovesse vivere per sempre, sarà distrutto, scom­parso, dimenticato? (si inginocchia) E Tu, Vergine Beata? Senti che buon odore soffia dal nostro paese. Odore di fieno e di erbe bagnate, odore di focolari, odore che sentivo da fanciullo tornando dal campo. Tu, almeno, Tu, che abbia pietà di noi, che Tu fermi il Turco.» [PPP, / Tùrcs tal Friul (I Turchi in Friuli), a cura di Andreina e Luigi Ciceri, Udine, Forum Julii, 1976, pp. 7-8].

15 «Luna, infinito il lume della tua sfera brilla nel sereno dei vecchi morti. Ma noi siamo vivi con corpi di giovanetti coperti d'oro antico e abbagliato. An­diamo per i campi dei morti, cantando beati con una rabbia nascosta dentro il seno: perline e spille ce la nascondono dentro il volto senza pensieri di Turchi lontani. Luna, rischiara la Terra dei Friulani quando chiamano dalle stalle: Ge­sù, Gesù! » (ivi, pp. 35-36).

16// sogno del centauro, cit., pp. 87-88.

17 PPP, Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1965, pp. 488-493, 515-516.

18 PPP a D. Bellezza, Io e Boccaccio, in «L'Espresso/colore», Roma, 22 no­vembre 1970, pp. 22-23.

19 eschilo, Orestiade (Quaderni del Teatro Popolare Italiano, 2), Torino, Einaudi, 1960, p. 3.

20 Vedi in particolare i «frammenti degli antichi riti greci a Ciòpati», in PPP, L'odore dell'India, Milano, Longanesi, 1962, pp. 31-38. Da tenere anche pre­senti i richiami sempre più frequenti di PPP all'Africa - futura sua «unica alter­nativa» - dal 1960 in poi; il primo soggiorno africano, in Kenia, risale appunto al ritorno dall'India, nel gennaio 1961.

21 george thomson, Eschilo e l'Orestiade, in Orestiade, cit., pp. 125-173.

22 Ivi, p. 153.

23 Ivi, p. 173.

24 Vedi, a riguardo, l'interessante osservazione di D. Fernandez sullo sdop­piamento pasoliniano tra i suoi due nomi: Pietro e Paolo (Nella mano dell'ange­lo, Milano, Bompiani, 1983, pp. 14-20).

25 «Chi darà nuove / leggi, se trionfa / oggi, qui, la causa / del matricidio? / Esempio a ogni uomo / a non avere limiti? / Una furia figliale / di sangue, potrà / da oggi dilagare» (Orestiade, cit., p. 108). Non sembrano annunciare, tali parole, il polemico scetticismo di PPP nei confronti della liberalizzazione dell'aborto?

26 PPP, // padre selvaggio, Torino, Einaudi, 1975.

27 Orestiade, cit., p. 122.

28 E. siciliano, op. cit., p. 237.

29 Vedi, tra l'altro giorgio prosperi, Una 'Orestiade' con balletto negro applaudita nell'anfiteatro greco di Siracusa, in «II Tempo», 21 maggio 1960.

30 L. zorzi, Teatro e scenografia dell'epoca di Eschilo, in Orestiade, cit., pp. 186-199.

31 R. barthes, Comment représenter l'antique, in Essais critiques, Paris, Seuil, 1971, pp. 71-79 (scritto in occasione di una precedente Orestea «negra» messa in scena da Jean-Louis Barrault nel 1955, questo testo è stato escluso dall'edizione einaudiana dei Saggi critici).

32 E. groppali, op. cit., p. 27.

33 «Dice che 'st'espressione, usa farla un poeta / che scrive mezzo barbaro: e siccome ha per mèta / la rivoluzione, sta sempre sotto gli occhi / dei vecchi, benedetti poliziotti» (// Vantone di Plauto, Milano, Garzanti, 1963, p.
 26); libera versione dei versi 210 e seguenti, che si riferiscono al poeta latino Nevius, questo brano è stato per PPP, come si capisce, l'occasione di praticare un'assai ironica «mise en abyme»!

34 PPP, Bestia da stile, loc. cit.. pp. 268-269.

35 PPP, Affabulazione, Pilade, Milano, Garzati, 1977, pp. 139-140.

36 Ivi, p. 152.

37 Ivi, p. 239.

38 PPP a Jean-Michel Gardair, Un discorso di Pasolini su teatro e poesia, in «Giornale del Ticino», 13 novembre 1971. Utile per alcuni chiarimenti sul senso profondo di Pilade, vedi inoltre la lettera di PPP pubblicata sul «Paese Sera» del 4 settembre 1969, p. 11, in risposta ad una recensione di Elio Pagliarani; come pure i versi programmatici riscontrati nel poemetto Poeta delle ceneri, in «Nuovi Argomenti», n. 67-68, n. s., luglio-dicembre 1980, pp. 22-23.

39 PPP, Le belle bandiere, dialoghi 1960-1965, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 164.

40 E. groppali, op. cit., p. 76.

41 PPP, Nuove questioni linguìstiche, in Empirismo eretico, Milano, Garzan­ti. 1972, p. 26.

42 E. groppali, op. cit., p. 77.

43 Pilade, loc. cit., p. 221.

44 Bestia da stile, loc. cit., p. 204.

45 Ivi, p. 258.

46 Ivi, p. 260.

47 Ivi, pp. 268-269.

48 Ivi, pp. 296-307 (passim). Collegati al risveglio pedagogico di PPP, che por­terà tra l'altro al «Gennariello» delle Lettere luterane, gran parte di questi versi anticipano, anche letteralmente, il «saluto e augurio» conclusivo de La nuova gioventù, Torino, Einaudi, 1975, pp. 255-259. PPP spiegherà poi, nel 1975, nella premessa all'incontro di Volgar'eloquio (cit., pp. 31-35), il senso profondo di tale paradossale sfogo, che intende in realtà contendere ai soli fascisti l'appannaggio di certi valori «che in fondo valgono per tutti».



Curatore, Bruno Esposito

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