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venerdì 5 marzo 2021

Pasolini, La maschera e la risata di Roberto Chiesi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



La maschera e la risata

di Roberto Chiesi

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Una maschera africana composta da due teste bianche e tondeggianti, una montata sopra l’altra, i cui margini inferiori sono legati ad alcune strisce di corde bianche e a lunghi filamenti di paglia secca che ricadono in basso e dissimulano completamente i lineamenti di chi la indossa, mentre la superficie alta è sormontata da una corona di cespugli radi e anch’essi secchi: questa maschera bicefala diviene, nell'Edipo Re (1967) di Pasolini, il non volto della sacerdotessa dell’Oracolo di Delfi (nel film Delfo), dalla cui bocca parla il dio Apollo, nella sequenza in cui annuncia al ‘figlio della fortuna’ un destino atroce: «Guardati! Nel tuo destino c’è scritto che assassinerai tuo padre e farai l’amore con tua madre!»

Nella tragedia di Sofocle l’episodio della visita di Edipo al santuario di Apollo è racchiuso nei pochi versi in cui Edipo, a distanza di molto tempo, rievoca il proprio passato alla madre Giocasta:

Di nascosto dal padre e dalla madre mi recai allora a Pito, e Apollo mi rimandò senza degnarmi della risposta per cui ero andato, ma mi predisse, sventurato, una sorte terribile e sciagurata: mi sarei congiunto con mia madre, e avrei mostrato all’umanità una stirpe mostruosa, e sarei divenuto assassino del padre che mi aveva generato. E io, udito ciò, orientandomi sulle stelle lasciai per sempre la terra di Corinto; e fuggii dove giammai potessi vedere compiuta l'onta dei miei infausti vaticini.
Pasolini trasmuta l’episodio dal passato al presente e lo racconta seguendo in modo lineare gli antefatti della storia di Edipo (dopo il prologo autobiografico ambientato nel Friuli degli anni Trenta), con non poche e significative innovazioni narrative. Per esempio, inventa lo struggente congedo del giovane da quelli che crede essere i suoi genitori, Polibo e Merope (consapevoli del suo viaggio a Delfo e non ignari, come invece accade in Sofocle). Soprattutto, al momento delle riprese, trasforma in modo radicale la scena dell’Oracolo rispetto a come aveva previsto di girarla nella sceneggiatura. Nel testo infatti leggiamo che il santuario dovrebbe ricordare una chiesa affollata di pellegrini, come una corte dei miracoli, ispirata ai dipinti di Francesco Paolo Michetti. Nella fantasia di Pasolini, com’è noto, le immagini si richiamano spesso alla pittura e forse aveva in mente Il voto (1881-1883) di Michetti, con i credenti fanaticamente allungati a terra, persi nell’ebbrezza della preghiera. Qualche traccia di questa idea rimane nella folla popolare ammassata in attesa del responso nello spiazzo sabbioso e deserto che circonda il santuario, ma Pasolini, al momento di realizzare la scena, ha preferito una folla composta, sotto il presidio delle guardie, dove ognuno attende ordinatamente il suo turno in una calma arcaica e remota.

Nella sceneggiatura il santuario aveva l’aspetto prevedibile di un tempio ma nel film diviene uno spazio aperto, senza mura: la sommità di una collina sabbiosa, distante alcuni metri dalla folla e protetta dall’ombra di un grande albero che svetta isolato in uno spiazzo deserto (le riprese sono state effettuate a Zagorà, in Marocco).

È uno spazio che ha una qualità onirica, sembra una variante di quel paesaggio di desolazione e aridità che è un motivo iconografico ricorrente nel cinema pasoliniano (da Il Vangelo secondo Matteo, 1964, fino a Il fiore delle Mille e una notte, 1974). Pasolini, quindi, spoglia la scena di ogni elemento scenografico che rimandi alla Grecia classica (il tempio, gli addobbi dei sacerdoti, i paramenti e gli oggetti di culto), ottenendo una concentrazione assoluta di ogni gesto della scena. Nell’originale visione pasoliniana, all’ombra dell’albero e sul ciglio superiore della collina, si stagliano in un’immobilità ieratica e solenne sei uomini (ripartiti in modo irregolare: quattro da una parte e due dall’altra) con i corpi magri e i volti coperti da maschere, i primi con le orbite nere, come teschi, e gli ultimi due con lineamenti simili l’uno all’altro e resi inespressivi dalla distanza. Sotto questi ultimi, in piedi a destra, attendono altri cinque individui dai volti scoperti, avvolti in mantelli scuri, che aiutano il sacerdote nell’adempimento del rituale, porgendogli le scodelle con le sostanze da assumere per entrare in contatto con il dio. Il sacerdote è fermo in piedi, esattamente in corrispondenza dell’albero, che ha una funzione di totem e batte le mani per farsi portare le scodelle.

Più che i membri di un ordine sacro, sembrano i giudici che sovrintendono ad un processo dove si annuncia, dopo un tempo indeterminato, una sentenza inappellabile di condanna. La condanna di una maledizione.

Nella sceneggiatura, Pasolini aveva attribuito al sacerdote un’identità femminile, a conferma della contraddittoria misoginia pasoliniana: una donna astratta, assente, fanatica e obesa: il suo viso è di un pallore cadaverico, e i suoi occhi cerchiati, sono pieni di odio e di isteria.
Appena Edipo le è timidamente, selvaticamente di fronte, quell’espressione di odio isterico si accentua.
Essa adempie, impassibile e meccanica, gli atti del rito, poi, senza partecipazione di alcun genere, quasi burocraticamente, con una specie di rabbia sorda, pronuncia il verdetto terribile del dio a quel giovane, che è certamente colpevole, odioso al dio e quindi a lei.
Sacerdotessa Guardati! Nel tuo futuro c’è scritto che assassinerai tuo padre, e farai l’amore con tua madre. Questo dice il dio, e questo inevitabilmente si compirà.
Nel film la maschera bicefala rende incerto il sesso del sacerdote: i lineamenti sono impenetrabili, coperti dalla maschera e dalla paglia, e le labbra e il mento che s’intravedono mentre ingurgita il riso dalla scodella potrebbero appartenere ad un uomo come ad una donna. La voce è femminile, l’obesità è stata sostituita dalla magrezza. Nel film il vaticinio si ripete due volte, seguito dall’ordine perentorio di abbandonare quei luoghi perché la stessa presenza di Edipo, frastornato e incredulo (all’inizio addirittura sorride, perché non ha capito la portata crudele delle parole che lo riguardano ed è per questo che l’oracolo ripete la sentenza), potrebbe contaminare ogni persona. Alla rabbia, che inizialmente Pasolini aveva attribuito alla sacerdotessa nella sceneggiatura, subentra una divertita e spietata ferocia e scompare l’impassibilità burocratica: la risata prolungata (dura ben quattordici secondi) con cui accompagna la sua profezia, è di una malvagità infernale, satanica.

Quella risata dirompente, la maschera bicefala, il gesto delle mani che scostano la paglia e il cordame secco – segno di morte – per liberare la bocca e mostrare i denti, sono i connotati di un’immagine che nega ogni pietà, compostezza (per non parlare della bontà) che dovrebbero invece caratterizzare un intermediario della voce del dio. Invece la figura oracolare immaginata da Pasolini è l’incarnazione della crudeltà del dio, della sua assoluta assenza di pietà.

Questa crudeltà è poi accentuata dalla gravità silenziosa delle altre figure che attorniano l’oracolo, anch’essi privi di qualsiasi connotato umano.

Pasolini, forse in sede di doppiaggio, immaginò che il sacerdote ripetesse la sua maledizione, come per umiliare due volte Edipo, per costringerlo a udire fino in fondo il verdetto che gli era stato inflitto. Così concepita, questa sequenza ricorda i versi del poemetto Una disperata vitalità, dove il poeta evoca una visione che precede la nascita in cui viene sancita la maledizione della sua diversità, con un bellissimo e terribile ossimoro finale: «Sarai puro e perciò ti maledico».

Nell’ultima inquadratura in cui mostra il primo piano del sacerdote (che non muove più la bocca e la voce sembra uscire dall’interno del corpo), lo inquadra in controluce, come se in quel momento – violando ogni logica spaziale con un effetto potentemente lirico – il sole fosse apparso dietro il sacerdote. Il sole diviene una emanazione del dio Apollo ed è come se il dio stesso ratificasse la sua sentenza di condanna avvolgendo l’immagine del sacerdote, inquadrato da un’angolazione che schiaccia Edipo dall’alto in basso. In quell’ultimo primo piano dell’oracolo, divenuto totem solare, si suggella la terribile irreversibilità della condanna.

 

Bibliografia

Sofocle, Edipo Re, traduzione di R. Cantarella, in Id., Le tragedie, Milano, Mondadori, 2007.

P.P. Pasolini, Edipo Re, Milano, Garzanti, 1967.



Curatore, Bruno Esposito

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