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giovedì 31 dicembre 2020

Pasolini, Perchè il Processo - 28 settembre 1975.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Perché il Processo

Il 28 settembre 1975, Pasolini sempre dalle pagine del Corriere, risponde ad un articolo di fondo apparso sul quotidiano La Stampa il 14 settembre 1975 
 il Processo: e poi? 


* * *

   Cari colleghi della «Stampa», «il Processo» avete scritto in un fondo del 14 settembre «e poi?». Bene, se i prossimi dieci anni della nostra vita contano (sono, cioè storia) poi si sarà saputo qualcosa. Se invece quelli che contano sono i prossimi diecimila anni (cioè la vita del mondo), poi tutto è pleonastico e vano.
     Io, per me, tendo a dare infinitamente maggiore importanza ai prossimi diecimila anni che ai prossimi dieci: e, se mi interesso ai prossimi dieci, è per pura filosofia della virtù. 
     Che cosa è necessario sapere, o meglio, che cosa i cittadini italiani vogliono sapere, affinché i prossimi dieci anni della loro vita non siano loro sottratti (come è stato per gli ultimi dieci )? 
     Ripeterò ancora una volta la litania magari a costo di fare, a dispetto della virtù, del mero esercizio accademico. 
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di  cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la «massa», dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l’unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente).
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai «cultura» è stata più accentatrice che la «cultura» di questi dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso.
         Ho detto e ripetuto la parola «perché»: gli italiani non vogliono infatti consapevolmente sapere che questi fenomeni oggettivamente esistono, e quali siano gli eventuali rimedi: ma vogliono sapere, appunto, e prima di tutto, perché esistono. 
     Voi dite, cari colleghi della «Stampa», che a far sapere tutte queste cose agli italiani provvede il gioco democratico, ossia le critiche che i partiti si muovono a vicenda - anche violentemente - e, in specie, le critiche che tutti i partiti muovono alla Democrazia cristiana. No. Non è così. E proprio per la ragione che voi stessi (contraddicendovi) sostenete: e cioè per la ragione che, ognuno in diversa misura e in diverso modo, tutti gli uomini politici e tutti i partiti condividono con la Democrazia cristiana cecità e responsabilità. 
     Dunque, prima di tutto, gli altri partiti non possono muovere critiche oggettive e convincenti alla Democrazia cristiana, dal momento che anch’essi non hanno capito certi problemi o, peggio ancora, anch’essi hanno condiviso certe decisioni.
     Inoltre su tutta la vita democratica italiana incombe il sospetto di omertà da una parte e di ignoranza dall’altra, per cui nasce - quasi da se stesso - un naturale patto col potere: una tacita diplomazia del silenzio.
     Un elenco, anche sommario, ma, per quanto é possibile, completo e ragionato, dei fenomeni, cioè delle colpe, non è mai stato fatto. Forse la cosa è considerata insostenibile. 
     Perché, ai capi di imputazione che ho qui sopra elencato, c’è molto altro da aggiungere - sempre a proposito di ciò che gli italiani vogliono consapevolmente sapere. 
    Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della «strategia della tensione» (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente).
       Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda.
    Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna. 
     Ma gli italiani - e questo è il nodo della questione - vogliono sapere tutte queste cose insieme: e insieme agli altri potenziali reati col cui elenco ho esordito. Fin che non si sapranno tutte queste cose insieme - e la logica che le connette e le lega in un tutto unico non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti - la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova coscienza. Cioè l’Italia non potrà essere governata. 
     Il Processo Penale di cui parlo ha (nella mia fantasia di moralista) la figura, il senso e il valore di una Sintesi. La cacciata e il processo (istruito - dicevo - se non celebrato) di Nixon dovrebbe pur voler dire qualcosa per voi, che credete in questo gioco democratico. Se contro Nixon in America si fosse svolto un gioco democratico, quale sembra esser da voi concepito, Nixon sarebbe ancora lì, e l’America non saprebbe di sé ciò che sa: o almeno non avrebbe avuto la conferma, sia pur formale (ed è importante) della bontà di ciò che essa reputa buono: la propria democrazia. 
     Ma se (come mi pare evidente, con immedicabile mortificazione) l’opinione pubblica italiana - che anche voi rappresentate - non vuole sapere - o si accontenta di sospettare -, il gioco democratico non è formale: è falso.
    Inoltre se la consapevole volontà di sapere dei cittadini italiani non ha la forza di costringere il potere ad autocriticarsi e a smascherarsi - se non altro secondo il modello americano -, ciò significa che il nostro è un ben povero paese: anzi, diciamo pure, un paese miserabile. 

    Ci sono inoltre delle cose (e a questo punto continuo, più che mai, nel puro spirito della Stoà) che i cittadini italiani vogliono sapere, pur senza aver formulato con la sufficiente chiarezza, io credo, la loro volontà di sapere: fatto che si verifica là dove il gioco democratico, appunto, è falso; dove tutti giocano con il potere; e dove la cecità dei politici è ormai ben assodata. 
    Gli italiani vogliono dunque sapere ancora cos’è con precisione la «condizione» umana - politica e sociale - in cui sono stati e sono costretti a vivere quasi come da un cataclisma naturale: prima, dalle illusioni nefaste e degradanti del benessere e poi dalle illusioni frustranti, no, non del ritorno della povertà, ma del rientro del benessere.
    Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, che limiti ha, che futuro prevede, la «nuova cultura» - in senso antropologico - in cui essi vivono come in sogno: una cultura livellatrice, degradante, volgare (specie nell’ultima generazione).
     Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, e come si definisce veramente, il «nuovo tipo di potere» da cui tale cultura si è prodotta: visto che il potere clerico-fascista è tramontato, e ormai esso ad altro non costringe che a «lotte ritardate» (la condanna a morte degli antifranchisti, i rapporti tra la vecchia e la nuova generazione mafiosa nel Mezzogiorno ecc.).
     Gli italiani vogliono ancora sapere, soprattutto, che cos’è e come si definisce il «nuovo modo di produzione» (da cui sono nati quel «nuovo potere» e, quindi, quella «nuova cultura»): se per caso tale «nuovo modo di produzione» - introducendo una nuova qualità di merce e perciò una nuova qualità di umanità - non produca, per la prima volta nella storia, «rapporti sociali immodificabili»: ossia sottratti e negati, una volta per sempre, a ogni possibile forma di “alterità”.
    Senza sapere che cosa siano questo «nuovo modo di produzione», questo “nuovo potere” e questa «nuova cultura», non si può governare: non si possono prendere decisioni politiche (se non quelle che servono a tirare avanti fino al giorno dopo, come fa Moro).
     I potenti democristiani che ci hanno governato in questi ultimi dieci anni, non hanno saputo neanche porsi il problema di tale «nuovo modo di produzione», di tale «nuovo potere» e di tale «nuova cultura», se non nei meandri del loro Palazzo di pazzi: e continuando a credere di servire il potere istituito clerico-fascista. Ciò li ha portati ai tragici scompensi che hanno ridotto il nostro paese in quello stato, che più volte ho paragonato alle macerie del 1945. 
     È questo il vero reato politico di cui i potenti democristiani si sono resi colpevoli: e per cui meriterebbero di essere trascinati in un’aula di tribunale e processati. 
     Non dico, con questo, che anche altri uomini politici non si siano posti i problemi che non si son posti i sacrestani al potere, o che, come loro, non abbiano saputo risolverli. Anche i comunisti hanno per esempio confuso il tenore di vita dell’operaio con la sua vita, e lo sviluppo col progresso. Ma i comunisti hanno compiuto - se hanno compiuto - degli errori teorici. Essi non erano al governo, non detenevano il potere. Essi non derubavano gli italiani. Sono coloro che si sono assunti delle responsabilità che devono pagare, cari colleghi della «Stampa», che, sono certo, siete perfettamente d’accordo con me... 
     Un’ultima osservazione che mi sembra, del resto, capitale. 
     L’inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone...), l’inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti... Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui parlo io. Dunque, al centro e al fondo di tutto, c’é il problema della Magistratura e delle sue scelte politiche. 
     Ma, mentre contro gli uomini politici, tutti noi, cari colleghi della «Stampa», abbiamo coraggio di parlare, perché in fondo gli uomini politici sono cinici, disponibili, pazienti, furbi, grandi incassatori, e conoscono un sia pur provinciale e grossolano fair play, a proposito dei Magistrati tutti stiamo zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché? Ecco l’ultima atrocità da dire: perché abbiamo paura. 
Pier Paolo Pasolini, «Corriere della Sera», 28 settembre 1975 

Fonte:
http://evelinasantangelo.it/interne/rif.php?la=1&st=&id=266&SID


Curatore, Bruno Esposito

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La Stampa risponde a Pasolini - Il processo: e poi? - domenica 14 settembre 1975

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



La Stampa risponde a Pasolini
Il processo: e poi? 
Pasolini la Dc, il Pci e gli altri
La Stampa domenica 14 settembre 1975 
Anno 109 - Numero 212

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

In un articolo di fondo il quotidiano La Stampa risponde al "Processo ai gerarchi DC", immaginato da Pier Paolo Pasolini e provocatoriamente invocato attraverso due articoli pubblicati rispettivamente su Corriere e Il Mondo, il 24 agosto e il 28 agosto 1975.
A quest'articolo Pasolini, sempre dalle pagine del Corriere, risponde il 28 settembre 1975 affermando che “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” in un articolo titolato Perchè il processo.

*


Di seguito l'articolo di del quotidiano La Stampa pubblicato domenica 14 settembre 1975: 

Pier Paolo Pasolini, riflettendo deluso, da un suo ritiro, sull'Italia d'oggi che è diversa da quella della sua giovinezza, ma che non solo per questo non gli piace più, ha proposto come panacea per i nostri mali, o come provocatorio schema interpretativo della nostra condizione, un « processo alla DC ». Egli lo vorrebbe celebrato subito e con gran pompa, per innumerevoli colpe. 
Quest'idea non è così originale come è sembrata a molti. Pasolini ha soltanto trasposto sul piano dell'immaginazione drammatica qualcosa che, nella realtà, è già in atto. Che altro sono le cronache politiche italiane correnti se non un incessante processo alla DC? Di che cosa si è discusso e scritto se non di questo, da un paio d'anni a questa parte, nei comizi, nei quotidiani, sulle copertine dei settimanali, nelle vignette degli umoristi o nei saggi degli economisti, nei libri dei politologi e in quelli degli ecologi? Tutti (compresi molti, DC) celebrano instancabilmente il processo al potere in Italia, e quindi alla democrazia cristiana che lo detiene da trent'anni. 
Non stupisce tanto la proposta pasoliniana, quanto lo stupore per il fatto che un uomo d'immaginazione abbia tradotto in canovaccio teatrale qualcosa a cui assistiamo ogni giorno. Anzi, il « processo » che è in corso nella vita pubblica, e che rappresenta una fase capitale nell'evoluzione della Repubblica, identificandosi con lo stesso meccanismo democratico, è assai più educativo e profondo di quello che si potrebbe mai combattere, a colpi di procedura, nelle aule di un tribunale italiano: chissà quanti rinvìi. 
* *
Anche nella realtà, beninteso, i rinvìi non furono pochi: con danno anche dell'accusata. Tenendoci a questa immagine, si potrebbe dire che, avviato il procedimento, la dc ha subito alcune delibere preliminari avverse dei giudici-elettori; non ne ha tenuto conto per arroganza del potere; è stata condannata in modo netto, in un tribunale di prima istanza, il 15 giugno di quest'anno; soltanto allora si è allarmata e in preda a gran confusione ha finito per decidere che doveva cambiare collegio di avvocati e linea di difesa; si è infine immersa in una sofferta opera di autocritica e (forse) di autocorrezione, per presentarsi a future sentenze in condizioni più favorevoli. 
Fin qui l'immagine del processo calza; ma quello straordinario congegno che è il sistema democratico di governo è assai più complesso di qualsiasi procedura giudiziaria. In una democrazia ciascuna delle parti è simultaneamente giudice e imputato; il processo è un prisma a molte facce; il suo fine non è di produrre giudizi ma di provocare comportamenti diversi; le battaglie di parole e l'aritmetica dei voti incidono sulle cose. Inoltre, il procedimento non ha mai fine; in una democrazia, nessuna condanna è senza appello, nessuna vittoria o sconfitta è definitiva. 
* *
Il Processo pasoliniano, per essere riflesso sincero della realtà, dovrebbe celebrarsi simultaneamente su più palcoscenici. Su uno di essi, oggi il principale, gli imputati sono i capi DC; ma sugli altri gli imputati sono diversi, giacché questo autoprocesso, il più severo che la nostra democrazia abbia mai conosciuto (forse è un segno di maturità, forse di decadenza), non risparmia nessuno. Esso investe la psicologia e i comportamenti delle masse, con le loro impazienze; dell'individuo italiano, con la sua povera socialità; delle categorie, con i loro egoismi «corporativi», come oggi si dice; delle forze economiche organizzate, con le loro miopie; degl'intellettuali, con i loro settarismi e la loro volubile superficialità; e naturalmente dei partiti. 
Il riflettore, dunque, non è sempre puntato sulla DC. 
Talvolta illumina vividamente gli sbandamenti opportunistici di alcuni fra i piccoli « partiti-clienti »; talaltra, l'insicurezza e le brusche deviazioni di rotta dei socialisti; più spesso, la sempre riaffiorante ambiguità, o incertezza, o togliattiana doppiezza della dirigenza comunista. Questa non ha ancora avuto la forza di riconoscere fino in fondo la fatale responsabilità storica di avere falsato e compromesso così a lungo ogni potenziale alternativa democratica di sinistra, per aver deviato tanta parte della sinistra italiana sulla cattiva pista del leninismo-stalinismo, scambiato per socialismo. Ancora oggi, se il «Processo» italiano continua a presentare oscuri sbocchi, è in buona parte perché la dirigenza comunista non ha chiarito agli altri, e forse neppure a se stessa, che sia l'Urss; che cosa sia il socialismo; che cosa sia l'ideologia attuale del comunismo italiano.
 Non basta, ai comunisti, replicare in tono irritato: noi siamo quello che siamo. Ma che cosa sono i nostri comunisti, che a Livorno dichiarano la loro appartenenza irrevocabile all'Occidente pluralista ed annunciano che non può esserci socialismo che non sia democratico; mentre a Firenze invitano quale << ospite d'onore >> al Superfestival dell'<<Unità>>  nientemeno che la Repubblica Democratica Tedesca tutta intera, uno Stato che si conserva i cittadini circondando il proprio territorio ( nell'<<era della distensione») con barriere elettroniche, fili spinati e pattuglie di guardie che sparano? Che ha, questa Rdt, di socialista e di democratico, per essere offerta agl'Italiani come società modello? Perché il PCI sbandiera così i suoi Franco, invece di condannarli? E perché, ogni volta che gli si tocca l'Urss, ricade, per tutta reazione, in infantili esaltazioni del « paradiso sovietico », come fossimo nel 1948? 
* * 
La pluralità dei « processi » in corso, e quindi, fuor di metafora, la mancanza di alternative politiche limpide e rassicuranti, riconduce tutta l'attenzione sul processo in corso dentro la DC. 
Il male del partito è stato diagnosticato: presunzione, abuso di potere, occupazione e sfruttamento dello Stato (e che cosa non è Stato nell'Italia d'oggi?), inefficienza e così di seguito. Ma la cura come va? Siamo ancora alle prime scene; le parole sono molte (anche buone: come nell'intervista di Rumor al nostro giornale; o nel discorso di Moro a Bari); ma i fatti sono pochi. E' così difficile produrne? Indichiamo un solo mocratico, neppure tanto difficile: perchè non si è ancora ridato all'Italia una Rai-Tv autonoma, come vorrebbe la legge, non più parcellizzata tra i partiti, e largamente dominata dalla DC? Perché i processi in Italia vanno così per le lunghe? 






Curatore, Bruno Esposito

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