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sabato 26 dicembre 2020

La Trilogia della vita 15) - Abiura dalla Trilogia della vita - di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Abiura dalla Trilogia della vita




Io penso che, prima, non si debba mai, in nessun caso, temere la strumentalizzazione da parte del potere e della sua cultura. Bisogna comportarsi come se questa eventualità pericolosa non esistesse. Ciò che conta è anzitutto la sincerità e la necessità di ciò che si deve dire. Non bisogna tradirla in nessun modo, e tanto meno tacendo diplomaticamente per partito preso.
Ma penso anche che, dopo, bisogna saper rendersi conto di quanto si è stati strumentalizzati, eventualmente, dal potere integrante. E allora se la propria sincerità o necessità sono state asservite o manipolate, io penso che si debba avere addirittura il coraggio di abiurarvi.
Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro momento culminante, il sesso.
Tale sincerità e necessità hanno diverse giustificazioni storiche e ideologiche.
Prima di tutto esse si inseriscono in quella lotta per la democratizzazione del "diritto ad esprimersi" e per la liberalizzazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni Cinquanta e Sessanta.
In secondo luogo, nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta – in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei "mass media" e quindi della comunicazione di massa – l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli "innocenti" corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali.
Infine, la rappresentazione dell’eros, visto in un ambito umano appena superato dalla storia, ma ancora fisicamente presente (a Napoli, nel Medio Oriente) era qualcosa che affascinava me personalmente, in quanto singolo autore e uomo.

Ora tutto si è rovesciato.

Primo:
la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata bruscamente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza.
Secondo:
anche la "realtà" dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.
Terzo:
le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia.
Però, a coloro che criticavano, dispiaciuti o sprezzanti, la Trilogia della vita, non venga in mente di pensare che la mia abiura conduca ai loro "doveri".
La mia abiura conduce a qualcos’altro. Ho il terrore di dirlo: e cerco prima di dirlo, com’è mio reale "dovere", degli elementi ritardanti. Che sono:

a) L’intransgredibile dato di fatto che, se anche volessi continuare a fare film come quelli della Trilogia della vita, non lo potrei: perché ormai odio i corpi e gli organi sessuali. Naturalmente parlo di questi corpi, di questi organi sessuali. Cioè dei corpi dei nuovi giovani e ragazzi italiani, degli organi sessuali dei nuovi giovani e ragazzi italiani. Mi si obietterà: "Tu per la verità non rappresentavi nella Trilogia corpi e organi sessuali contemporanei, bensì quelli del passato". E’ vero: ma per qualche anno mi è stato possibile illudermi. Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato che, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo. Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente svalutato. I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano – che sono poi quelli che io proietto nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo Mondo – se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.

b) I miei critici, addolorati o sprezzanti, mentre tutto questo succedeva, avevano dei cretini "doveri", come dicevo, da continuare a imporre: erano "doveri" vertenti la lotta per il progresso, il miglioramento, la liberalizzazione, la tolleranza, il collettivismo ecc. ecc. Non si sono accorti che la degenerazione è avvenuta proprio attraverso una falsificazione dei loro valori. Ed ora essi hanno l’aria di essere soddisfatti! Di trovare che la società italiana è indubbiamente migliorata, cioè è divenuta più democratica, più tollerante, più moderna ecc. Non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l’Italia: relegano questo fenomeno nella cronaca e ne rimuovono ogni valore. Non si accorgono che non c’è alcuna soluzione di continuità tra coloro che sono tecnicamente criminali e coloro che non lo sono: e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa dei giovani. Non si accorgono che in Italia c’è addirittura il coprifuoco, che la notte è deserta e sinistra come nei più neri secoli del passato: ma questo non lo sperimentano, se ne stanno in casa (magari a gratificare di modernità la propria coscienza con l’aiuto della televisione). Non si accorgono che la televisione, e forse ancora peggio la scuola dell’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie: ma considerano ciò una spiacevole congiuntura, che certamente si risolverà – quasi che un mutamento antropologico fosse irreversibile . Non si accorgono che la liberalizzazione sessuale anziché dare leggerezza e felicità ai giovani e ai ragazzi, li ha resi infelici, chiusi, e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi: ma di ciò addirittura non vogliono occuparsene, perché non gliene importa niente dei giovani e dei ragazzi.

c) Fuori dall’Italia, nei paesi "sviluppati" – specialmente in Francia – ormai i giochi sono fatti da un pezzo. E’ un pezzo che il popolo antropologicamente non esiste più. Per i borghesi francesi, il popolo è costituito dai marocchini o dai greci, dai portoghesi o dai tunisini. I quali, poveretti, non hanno altro da fare che assumere al più presto il comportamento dei borghesi francesi. E questo lo pensano sia gli intellettuali di destra che gli intellettuali di sinistra, allo steso identico modo.

Insomma, è ora di affrontare il problema: a cosa mi conduce l’abiura dalla Trilogia?

Mi conduce all’adattamento.

Sto scrivendo queste pagine il 15 giugno 1975, giorno di elezioni. So che se anche – com’è molto probabile – si avrà una vittoria delle sinistre, altro sarà il valore nominale del voto, altro il suo valore reale. Il primo dimostrerà una unificazione dell’Italia modernizzata in senso positivo; il secondo dimostrerà che l’Italia – al di fuori naturalmente dei tradizionali comunisti – è nel suo insieme ormai un paese spoliticizzato, un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici. L’Italia cioè non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo nominalmente. Tout va bien: non ci sono nel paese masse di giovani criminaloidi, o nevrotici, o conformisti fino alla follia e alla più totale intolleranza, le notti sono sicure e serene, meravigliosamente mediterranee, i rapimenti, le rapine, le esecuzioni capitali, i milioni di scippi e di furti riguardano le pagine di cronaca dei giornali ecc. ecc. Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione.
Ma devo ammettere che anche l’essersi accorti o l’aver drammatizzato non preserva affatto dall’adattamento o dall’accettazione. Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?).

"Corriere della Sera", Milano, 9 Novembre 1975




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Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo


tesi di laurea


La "Trilogia della vita"

di Pier Paolo Pasolini


Laureando:
Fabio Frangini

Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000

Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

La Trilogia della vita 14) - Trilogia della vita o Tetralogia della morte? - di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 


Trilogia della vita o Tetralogia della morte?

Ora che si è arrivati a concludere, dopo l’analisi dettagliata dei tre film, il profilo della Trilogia della vita, risulta necessario considerare se quelle che erano le premesse e le intenzioni del loro autore (una celebrazione "scandalosa" della gioia del corpo e dell’ontologia del racconto) siano state soddisfatte, e con quali risultati.
I film della trilogia, pur se assimilabili a un disegno e a una prospettiva comune, appaiono, in realtà, molto diversi tra loro (se non addirittura opposti).
Il Decameron è forse il film più complesso, il più eterogeneo, quello in cui il registro stilistico è più libero di spaziare lungo tutte le gradazioni dell’espressione artistica; senza, per questo, pregiudicare l’unità dell’opera. La coesistenza tra la sessualità greve dell’episodio di Peronella o di donno Gianni, ad esempio, e il nitore tragico di quello di Lisabetta, è assicurata da quel sostrato comune che pervade tutto il film ed è costituito dall’inno, insieme sacrale e sensuale (nella misura in cui i due elementi in Pasolini appaiono compenetrati), rivolto alla vita e all’esistente nelle sue innumerevoli manifestazioni.
Il fatto che la morte sia un elemento perpetuamente presente in questo inno (quasi come un basso continuo che contrappunti la melodia principale) non deve essere visto come una limitazione al godimento esistenziale, oppure come un suo ribaltamento nella dialettica Eros-Thanatos, ma come una componente fondante ed essenziale di questo godimento e di questa esaltazione.
La morte, come si è visto, ha sempre accompagnato, durante tutto l’arco della produzione artistica pasoliniana, l’inestinguibile amore del poeta per la vita e l’empito ansioso del suo appagamento. Si potrebbe dire, inoltre, che lo stessa concezione sacrale delle cose, che è stata vista come uno dei fulcri interpretativi dell’opera di Pasolini, non può prescindere da un rapporto diretto con la morte velato di atavico misticismo.
Da un certo punto di vista, Il Decameron può essere considerato come il film più riuscito della Trilogia della vita, perché, in primo luogo, in esso trovano piena realizzazione il motivo del recupero della memoria, effettuato sui due registri complementari (e in esemplare equilibrio) della riscoperta del corpo nella pura gioia dell’esistente e del ricorso alla mediazione colta del testo boccacciano e della citazione pittorica. In secondo luogo, questi elementi presentano ancora la freschezza del piacere per la (ri)scoperta di un nuovo modo di fare cinema (seppur, come si è visto, con gli eterni ricorsi delle consuete tematiche pasoliniane) che non si è ancora appesantita e non è ancora sprofondata nelle pieghe del potere e della coscienza straniante del peccato dei Racconti di Canterbury, e nemmeno non ha disciolto i suoi confini nell’assolutezza del sogno che percorre tutto Il fiore delle Mille e una notte.
Come ho cercato di evidenziare nell’analisi dettagliata del film, il demone che sembra pervadere I racconti di Canterbury, che contamina la sessualità turbandone nevroticamente il godimento, che si insinua nei rapporti umani stravolgendoli nelle logiche irreali del potere, è il demone della coscienza infelice, del peccato, dell’affacciarsi del mondo popolare alla storia (visto come l’inizio dell’emancipazione borghese e della sua scissione dalle sorti del proletariato).
Questa diversa posizione dei Racconti di Canterbury nei confronti del Decameron, per non parlare del Fiore delle Mille e una notte, risulta particolarmente evidente se si considerano, oltre alle influenze (notevoli) del modello chauceriano, la diversa ambientazione e il diverso sfondo sociale che delimitavano l’orizzonte del film pasoliniano. Alla Napoli vista come enclave commoventemente opposta agli assalti del mondo nuovo, si sostituiva il "mondo ormai storicizzato, borghese" di un paese del capitalismo maturo:

"Devo dire che il mondo che ho trovato in Inghilterra, quando giravo Canterbury, era molto diverso: a Napoli e nell’Oriente non avevo confini, potevo scatenare intorno a me questo linguaggio della terra, delle cose, delle case, dei vulcani, delle palme, delle ortiche e soprattutto della gente. Invece in Inghilterra quel mondo è ritagliato dalla mania di un bambino, e le persone che sceglievo appartenevano a un mondo ormai storicizzato, borghese, e questa costrizione pesava sul mio stato d’animo."

Sullo stato d’animo del poeta, come si è visto, pesava anche, e soprattutto, la brusca fine a cui sembrava ormai giunto "quell’amore così casto" che Pasolini provava per Ninetto; il quale, in quel periodo, si era fidanzato con una ragazza con l’intenzione di sposarla. Ben oltre al semplice interesse biografico, la fine di questo amore potrebbe essere vista come l’esemplificazione tangibile della percezione pasoliniana del mutamento sociale in atto. L’allontanarsi progressivo nel passato e la percezione della perdita di quel mondo che Pasolini amava in Ninetto, nella sua gaiezza, nella sua spontaneità, trovava alcuni dei suoi sfoghi espressivi nei versi, accorati e rassegnati al tempo stesso, de L’hobby del sonetto e "nell’infelice" citazione chapliniana del Racconto del cuoco.
Nei Racconti di Canterbury, inoltre, l’eterogeneità (che si era ravvisata tra le qualità del Decameron) subisce un mutamento in senso quantitativo e qualitativo, tanto che si assiste ad una notevole frammentazione della materia del racconto. Questa impressione è accresciuta dall’alterno esito degli episodi; infatti, a racconti per certi versi riusciti (anche se perfettamente conchiusi all’interno dello spazio loro assegnato) come quello del Frate, dell’Indulgenziere e del Mercante se ne alternano altri che lo sono decisamente meno; ad esempio il Racconto del Fattore in cui si assiste all’appiattimento e all’inspessimento greve su i temi consueti; oppure (spiace ammetterlo) il Racconto del Cuoco tutto rinserrato "nell’aere cupo" della citazione pedissequa e dell’infelicità lucida e inconsolabile per la perdita recente, eccetera.
Nel Fiore delle Mille e una notte, i rigidi castoni che racchiudevano, e isolavano, gli episodi dei Racconti di Canterbury sembrano disciogliersi sotto il sole dell’oriente musulmano. La fluida materia dei racconti si compenetra mirabilmente nel gioco sinfonico dei continui rimandi e dell’agile trascorrere da un sogno all’altro.
"Sogno" deve essere qui inteso come qualcosa di diverso dalla mera componente onirica all’interno degli episodi (di cui, comunque, si è cercato di indagarne la rilevanza); bensì deve essere considerato come un principio applicato al Fiore delle Mille e una notte nella sua interezza.
I luoghi, i sorrisi, soprattutto i corpi appaiono come immersi nella luce dorata del sogno, quasi che possano essere recuperati, ormai, solo attraverso l’esperienza onirica, l’espressione del subconscio; poiché nella memoria è già cominciata quell’opera retroattiva di decadimento di cui si è parlato a proposito dell’Abiura.
Il fiore delle Mille e una notte, infatti, che sembrerebbe testimoniare un’avvenuta conciliazione del potere con la natura e con la sessualità (e quindi con l’uomo), in realtà esprime anche una fase ulteriore della maturazione che, passata attraverso I racconti di Canterbury, approderà, di lì a poco, a quella negazione della natura e della sessualità che è Salò. Pur essendo incontestabile il fatto che sia il secondo film della trilogia quello che presenta più analogie con l’opera postuma di Pasolini, è altrettanto vero che Il fiore delle Mille e una notte, nella sfolgorante e intensissima riaffermazione del mondo che è scomparso, ha tutto il carattere di un congedo definitivo, un definitivo abbandono di quei corpi e di quei luoghi in favore del nulla, il nuovo, l’incubo.
Dall’assolutezza onirica di questo film, da quell’aurea di conciliazione con l’esistente che lo permea, e soprattutto dalla mancanza di rigide divisioni tra episodi, deriva una degli aspetti salienti del Fiore delle Mille e una notte nei confronti degli altri due film; ovvero il suo carattere monocorde, l’esistenza di uno stesso registro che, lungi dall’essere un difetto, resta sotteso ad ogni racconto. Non esiste più, come invece accadeva per Il Decameron, quel brioso trascolorare del registro stilistico lungo tutta la durata del film; ma, d’altro canto, non si ha nemmeno quella disgregazione del film in diverse gemme, di diversa qualità e diverso taglio, che avveniva nei Racconti di Canterbury .
Sotto molti aspetti, si può dire che il fatto che Pasolini abbia rinnegato, nell’Abiura, i suoi tre film non deve sorprendere più di tanto. Infatti l’Abiura è presente in germe fin dal momento stesso in cui Pasolini progettò la Trilogia della vita. Nella rievocazione nostalgica di un passato scomparso attraverso il corpo e il sesso del popolo, già si leggevano, in controluce, le necessità del futuro rinnegamento di questa rievocazione; l’Abiura, insomma, può essere considerata paradossalmente come una "condizione necessaria" all’esistenza stessa della Trilogia della vita.
Ma una risposta alla domanda che pongo nel titolo di questo paragrafo, richiede un esame della trilogia lungo la prospettiva che parte da Salò e si proietta retrospettivamente.
Sulla scorta delle interpretazioni che si sono date, alla luce di quanto si è detto a proposito dei singoli episodi, delle intere opere e delle relazioni tra i film stessi, è legittimo ritrovare un ceppo comune che permetta di accomunare questi tre film con Salò o le centoventi giornate di Sodoma? Si può inoltre parlare, in luogo di Trilogia della vita, di Tetralogia della morte?
È indubitabile (si è cercato di dirlo più volte) che, da un certo punto di vista, i tre film possano essere considerati come le tappe consecutive che portano a Salò; inoltre, in alcuni casi, si è ravvisato come (soprattutto nei Racconti di Canterbury) fossero presenti riecheggiamenti sadiani più o meno vaghi. Ma questa similitudine fra alcuni elementi e, soprattutto, la "consecutività" del rapporto con l’ultimo film pasoliniano andrebbero, secondo me, limitate solamente al piano di una netta opposizione tra le due parti in causa. Se è vero, infatti, che la trilogia costituisca il preludio di Salò, è altrettanto vero come quest’ultimo si ponga, nei confronti dei film che lo hanno preceduto, come la loro negazione, come l’effetto della loro abiura.
Inoltre, il far rientrare Salò all’interno di un gruppo di film (pur se in una posizione peculiare rispetto agli altri) ne limita l’effetto dirompente e la programmatica inassimilabilità. È sintomatico di ciò, il fatto che Salò abbia creato attorno a sé uno spazio vuoto, che non abbia generato alcun filone o nuovo corso, ma che si erga, nella metà esatta di un decennio, come l’estrema tra le pietre d’inciampo; forse inascoltata, forse fraintesa, ma certamente non assimilabile da nessun potere, per quanto assoluto.

Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo


tesi di laurea




La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini

Laureando:
Fabio Frangini

Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000

Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

La Trilogia della vita 13) - Il Genocidio, l’Abiura e Salò - di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 





La Trilogia della vita

Il Genocidio, l’Abiura e Salò.

"Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono i lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. […] Sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio – dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare."


"Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno lo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968."


"Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo."

In questi tre interventi, di tono e di umore diverso, prende forma quello stadio ulteriore della maturazione del pensiero ideologico pasoliniano, che vede nel "genocidio culturale" il suo concetto principale e qualificante.
Nei capitoli precedenti si è visto come, alle soglie e durante la lavorazione della Trilogia della vita, Pasolini vedesse nel corpo e nel linguaggio del corpo una zona non ancora "colonizzata" dal nuovo potere. Alla constatazione del dilagare inarrestabile del neocapitalismo nel tessuto della società, si opponeva (anche se in un’opposizione disperata) ciò che rimaneva di pre-verbale e di pre-culturale (il corpo e il sesso, appunto) in quella vita popolare che, nei suoi modelli culturali e nei suoi ideali, era già stata sommersa dal nuovo capitale.
La fine del lavoro del regista attorno alla Trilogia della vita sembrerebbe coincidere con la caduta rovinosa di quest’ultima illusione; ora anche il corpo, l’ultimo baluardo "dell’idea dell’uomo" di fronte all’entropia consumistica, sembrava aver perduto la sua innocenza e il riflesso della sua primitiva autenticità. Pasolini prendeva ormai coscienza del fatto che in Italia (in ritardo rispetto agli altri paesi occidentali e in lieve anticipo rispetto a quelli del Terzo Mondo) era avvenuto un vero e proprio genocidio, che aveva annientato (sulla falsariga delle esecuzioni di massa "reali" della Seconda Guerra Mondiale) intere generazioni di esseri viventi che, nel giro di un decennio, erano state inghiottite dalla storia per essere sostituite dalle masse anonime e assimilate, senza alternative reali, all’ideologia borghese.
Se dunque, per un breve periodo, era stata possibile una "fuga nel corpo e nel passato" con la regressione "scandalosamente reazionaria" dei film della trilogia, ora questa regressione appariva del tutto inattuabile per il venir meno di ciò che era stato il suo centro e il suo fulcro ideale: il corpo del popolo.
È in questo contesto ideologico che va collocato quel documento, lucido e sofferto al tempo stesso, pubblicato postumo sul «Corriere della Sera» del 9 novembre 1975 (ma scritto il 15 giugno dello stesso anno), con il titolo di: Ho abiurato la «Trilogia della vita».
La constatazione della "degenerazione dei corpi e dei sessi" proiettava, retroattivamente, su tutto ciò che era stato l’esaltazione di quegli "«innocenti» corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali", la luce malata del disinganno, della disperazione. Se, infatti, ora è diventato "immondizia umana" ciò che Pasolini aveva "proiettato nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo Mondo", allora vuol dire che già allora, cioè nel momento di questa proiezione, questi corpi erano destinati a diventarlo, erano vocati a questo olocausto. I "puri" sottoproletari pasoliniani "erano quindi degli imbecilli costretti ad essere adorabili, degli squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti"; poiché il "il crollo del presente implica anche il crollo del passato" e la vita (tutta la vita) si trova ad essere "un mucchio di insignificanti e ironiche rovine".
Basta anche una sommaria conoscenza di quello che era stata l’opera e l’universo poetico pasoliniano prima di questo scritto, per intuire quali tenebre e quali angoscianti risoluzioni nascondessero queste parole ferme e strazianti.
Inoltre, a questo risoluto e impietoso sguardo che Pasolini getta su quella che era stata la "materia poetica" della Trilogia della vita (e di così gran parte della sua produzione artistica, e della sua esistenza) si accompagna la constatazione del fatto che proprio ciò che doveva costituire, nelle intenzioni dell’artista, la parte "scandalosamente ideologica" di questi film, era stata inglobata e stravolta a proprio favore dall’onnivoro pragma neocapitalista. Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte erano diventati dei film di cassetta, ma non solo; avevano infatti dato origine all’effimero successo del cosiddetto «filone boccaccesco», ovvero di quella serie di prodotti subculturali che proponevano, ambientandole in un medioevo pretestuale, avventure salaci e picarismi di maniera.
Dunque, nell’impossibilità pratica di un riecheggiamento del passato scomparso e nel profilarsi all’orizzonte dell’universo orrendo di un presente senza alternative, ecco manifestarsi la necessità di un’opera che affrontasse questo presente (seppur attraverso la mediazione della metafora e del riferimento letterario) e si ponesse in una posizione di assoluta e incontrovertibile "non assimilabilità"; ecco Salò.



Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo


tesi di laurea




La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini

Laureando:
Fabio Frangini

Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000

Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

La “Trilogia della vita” 12) Il fiore delle Mille e una notte, La dimensione onirica e fantastica - di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 






La dimensione onirica e fantastica.

"[parlando del Fiore delle Mille e una notte] Il film che ne è venuto fuori è l’unione di due elementi che ci sono anche nel libro, ma che io ho un po’ occidentalizzato: realismo e visionarietà. C’è tanta polvere, ci sono tante facce povere, ma c’è anche un ritmo ampio, l’illimitatezza dei sogni"

"La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni"

Nella citazione da Le mille e una notte posta, da Pasolini, nei titoli di testa del film, si delinea un altro aspetto fondamentale del film: l’importanza del sogno, e il continuo ricercare la verità da un sogno all’altro.
Se, su un piano più ampio, tutti gli episodi del film (anche quelli, per così dire, "realistici") possono essere considerati dei sogni, delle visioni di un mondo ormai perso irrecuperabilmente, ciò che interessa ora è analizzare il rilievo che hanno i sogni, nel senso proprio e ristretto del termine, nell’economia interna dell’opera.
La vicenda sognata di una colomba che muore da sola dopo aver liberato un compagno dalla rete, ad esempio, guida le azioni della bella Dúnya che rifiuta di prender marito per aver constatato, proprio attraverso la visione, quanto sia fallace la fedeltà degli uomini. Cambierà idea solamente quando il suo sogno verrà completato dalla nuova visione che prende vita nel mosaico, fattole costruire da Tagi, che le appare nel padiglione del suo giardino.
Le scene che seguono questa "rivelazione", le lunghe sequenze silenziose dell’amore tra Dúnya e Tagi, conservano, nella loro limpidezza sospesa, il sapore del sogno della ragazza che trova il suo centro onirico, ancora una volta, nell’immagine consueta del pene del ragazzo accanto al quale, significativamente, la ragazza si addormenta felice.
Un altro episodio in cui le immagini del rapporto sessuale appaiono distillate in un’atmosfera onirica, è quello di Azíz e Aziza, dove si hanno le scene, accumulate e ripetute, degli incontri amorosi tra Azíz e Budur la pazza. Queste immagini, che apparentemente sembrerebbero sondare estenuantemente le possibili varianti del rapporto erotico, in realtà debbono essere viste come una celebrazione del rapporto sessuale attraverso la citazione e la codificazione colta. Infatti, stando alla sceneggiatura originale, queste immagini (in particolare quella di Azíz che lancia una freccia a forma di fallo nella vulva della donna) dovevano appartenere all’orgia che il padre di Yunan preparava per il figlio nel tentativo di dissuaderlo dal viaggio in mare; quest’orgia, nello testo pasoliniano, è descritta come una rappresentazione a metà tra lo spettacolo e il rito iniziatico di matrice religiosa, mentre le scene di sesso sfrenato sono mutuate dalla produzione miniaturistica e scultorea indiana:

"Yunan coi suoi abiti preziosi, che lo rendono bello come un Dio, è seduto su uno sgabello, con accanto un giovane schiavo e una giovane schiava che lo servono, baciandolo e accarezzandolo. Intorno c’è la sua piccola corte. Davanti a lui si svolge l’orgia, che il visir ha preparato come uno spettacolo o una funzione sacra. I musici suonano infatti una musica che potrebbe essere orgiastica ma potrebbe anche essere sacra. Una trentina di coppie si congiungono davanti agli occhi del principe, nei modi più folli e impensati: così come esse sono rappresentate nelle miniature indiane o nelle sculture dei templi di Kajurao o di Madras. Sono coiti di uomo e donna, di uomo e uomo, di donna e donna. Ma ci sono anche coiti bestiali: un cavallo, un asino, un orso possiedono donne e ragazzi. Ma tutto avviene in una eleganza e in un raccoglimento di azione rituale. Una donna vestita di abiti d’oro è in ginocchio, con un arco e una freccia: sulla punta di questa freccia è fissato un fallo di legno dipinto. Un’altra donna vestita d’oro è accanto a lei, col ventre scoperto e le gambe alte: con le mani sotto le cosce, essa si apre il sesso, perché la donna con l’arco possa scoccare la freccia e infilarle il fallo nel ventre."

Pure se ci si trova di fronte ad una rassegna di tutti gli eros possibili, quanto appaiono distanti i perversi cataloghi sadiani dei quattro signori di Salò!
Il fatto di avere accennato sommariamente alla vicenda di Yunan, offre il destro per parlare del ruolo che ricopre il sogno e la visione all’interno di questo episodio.
Mentre nel caso di Dúnya il destino parlava alla protagonista attraverso le immagini, nel caso di Yunan le rivelazioni giungono, mentre questi tiene gli occhi chiusi, portate da una voce fuori scena che, dapprima, gli ordina di partire per mare, quindi gli descrive il modo per abbattere il soldato di bronzo. Gli occhi chiusi, infatti, sono il motivo dominante di questo episodio; tutte le azioni decisive e scritte nel destino del giovane sono compiute come in uno stato di sonnambulismo, di veglia apparente; si pensi ad esempio alla scena dell’accoltellamento del ragazzo appena incontrato, sulle immagini dell’uccisione è sovraimpressa (espediente tecnico usato da Pasolini assai di rado) l’inquadratura in dettaglio degli occhi di Yunan immersi nel sonno, come per esprimere il dominio assoluto che ha la visione onirica sulle azioni cui il giovane era predestinato.
Accanto alla dimensione onirica, anche il fantastico ha un ruolo all’interno del film. Questo risulta evidente nell’episodio raccontato da Shazaman.
L’apparizione di un ginn, il volo sul deserto, la metamorfosi in scimmia, l’incantesimo liberatorio pronunciato dalla principessa Ibriza, tutti i motivi del meraviglioso appaiono concentrati in quest’episodio, accanto ai temi consueti del sesso e della tragicità dell’amore. Ma questi motivi, in realtà, appaiono piuttosto estranei ed accessori nei confronti del nucleo centrale del racconto; sembrano più un omaggio stilizzato all’universo fantastico delle Mille e una notte.
Infatti gli elementi di principale interesse dell’episodio sono si stringono attorno all’intensità drammatica della scena della mutilazione della ragazza e alla figura del demone interpretata (ovviamente) da Franco Citti. Ancora una volta, infatti, il personaggio interpretato dall’attore romano appare come uno dei più nettamente delineati e dei più affascinanti del film. Un demone fosco e spietato, dall’aspetto terribile e vagamente zingaresco, doppiato con la stessa voce baritonale dalla vaga calata emiliana che aveva il Diavolo nel Racconto del Frate; si aggira per la città in cerca di Shazaman come un lucido assassino che insegua la sua vittima, tenendosi un velo tra i denti e brandendo davanti a sé le scarpe del "traditore", come se fossero la sentenza di una spietata condanna.
Ma, come il Diavolo del Racconto del frate poteva commuoversi ed essere giusto nelle proprie azioni o come Ciappelletto poteva sacrificarsi in punto di morte per il bene dei due usurai, così il demone del racconto di Shazaman, pur se metodicamente e barbaramente crudele nel punire la ragazza, conserva un certo senso della giustizia e conserva la vita al giovane (trasformandolo, però, in scimmia) non avendo la prova certa della sua colpevolezza.
Anche in questo caso si è ben lontani dalla cieca anarchia del potere (l’unica autentica anarchia) che vige nella villa chiusa di Salò, dove viene creato un codice di leggi con il proposito perverso di seguirne la lettera e, nel contempo, di sovvertirla continuamente.

Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo


tesi di laurea




La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini

Laureando:
Fabio Frangini

Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000

Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

La “Trilogia della vita” 11) Il fiore delle Mille e una notte, Leggerezza e Fedeltà - di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 





Leggerezza e Fedeltà.

"La fedeltà è un bene, ma è un bene anche la leggerezza."

Questa frase non compare nel testo delle Mille e una notte, dove la parole pronunciate salvifiche dette da Azíz a Budur la pazza sono un banale: "La fedeltà è buona e l’inganno è cattivo"; ma, d’altro canto, la frase è assente anche nella sceneggiatura originale, dove si legge: "La fedeltà è bene, la leggerezza è male", dunque la sistemazione definitiva di questa frase, nella forma con cui compare nel film, deve essere avvenuta in un momento ulteriore del lavoro pasoliniano.
Questo vuol dire che, almeno in una fase preliminare, il rapporto tra leggerezza e fedeltà – che, in un certo senso, informa tutto l’episodio (e forse tutto il film) svelandone il significato e la morale interna – non era ancora un rapporto complementare (seppur di una complementarietà che sfiora l’ossimoro) ma era tutto giocato su una netta opposizione tra le due qualità. Di questa "tardiva modificazione" del testo delle Mille e una notte bisogna, dunque, tener conto qualora si voglia interpretare l’episodio ed analizzarne le dinamiche interne.
All’interno del racconto la fedeltà è chiaramente impersonata da Aziza - che nasconde il suo divorante amore per il cugino e la lenta morte a cui questo la conduce, per aiutarlo a conquistare Budur e ad essere felice - mentre la leggerezza si manifesta, altrettanto chiaramente, nel comportamento di Azíz, che si macera nell’amore per la bella sconosciuta e persegue ansiosamente il suo sogno, senza accorgersi minimamente delle condizioni della cugina.
L’indifferenza di Azíz, però, non è così candida come apparentemente potrebbe sembrare, ma risponde ad una precisa scelta morale: Azíz, in realtà, decide consciamente di fingere di ignorare l’amore di Aziza e di lasciarla a struggersi nella propria sofferenza. Illuminante, a tal proposito, è una scena che altrimenti apparirebbe piuttosto enigmatica. Azíz è appena ritornato da un ennesimo incontro con Budur e trova inaspettatamente sua madre:

Azíz: Dov’è Aziza?
Madre: È su in terrazza, tutta sola, che piange.
Azíz (meravigliato): Cos’ha?
Madre: Ma che cuore hai di lasciarla così, senza nemmeno chiederti di che male soffre!
Azíz resta per un attimo sovrappensiero, poi esce correndo in terrazza.
Come vede Aziza, Azíz fa finta di ignorarla. Si siede col viso rivolto verso i tetti della città.
Aziza (dolcemente): Azíz! Azíz! Allora Azíz, le hai recitato quei versi? [si riferisce a quei versi che Aziza chiede, ogni volta, ad Azíz di ripetere a Budur]
Azíz: Sì! E lei mi ha risposto con questi versi: «Chi ama deve nascondere il proprio segreto e rassegnarsi».
Aziza (chinando la testa come se proseguisse il discorso): «Egli ha cercato di rassegnarsi, ma non ha trovato in sé che un cuore disperato dalla passione». Domani mattina, quando la lasci, recitale i versi che ho detto ora. Hai capito?
Azíz: Sì… sì…

L’attimo in cui Azíz resta pensieroso, e il modo quasi risentito con cui sopravanza Aziza e va a sedersi sul limite della terrazza per gettare uno sguardo panoramico sulla città, tradiscono la "malafede" del giovane e la mancanza di innocenza da parte della sua leggerezza.
Ma questa leggerezza, comunque, è fonte di bellezza, è fonte di grazia e permette ad Azíz, quando Budur decide di ucciderlo, di salvarsi la vita per ben due volte (anche se la seconda gli costerà la perdita della virilità).
A questa leggerezza, come si è detto, ribatte la fedeltà disumana di Aziza, che immola se stessa nel tentativo di appagare il desiderio del cugino per la bella sconosciuta. Nel suo sentimento assoluto e silenzioso, e nella struggente mansuetudine delle sue azioni, Aziza ricorda il personaggio di Lisabetta del Decameron; come per la ragazza innamorata di Lorenzo, infatti, il pianto di Aziza rimane concentrato e nascosto nella limpidità dei suoi occhi azzurri, e nella lucida constatazione (liricamente intensissima) di quel "Io morirò" pronunciato, con voce sommessa ma chiara, mentre sta vegliando sul sonno di Azíz.
Questo discorso sulla fedeltà e sulla leggerezza si complica ulteriormente se ci si sofferma a pensare, anche per un attimo, che la parte di Azíz è interpretata da Ninetto Davoli; e se si ricordano i versi (già citati, a proposito dell’episodio del Racconto del Cuoco nel capitolo precedente) di due sonetti scritti solo pochi mesi prima delle riprese del Fiore delle Mille e una notte:

" (…)
Siete o non siete un altro, mio tremendo

Signore che non sa cosa gli capita?
Sempre ci si perde, anche senza proprio morire:
lo sapevamo – io pedante, voi leggero.

(…)"

" (…)
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n’è rimasto

un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto."

È davvero piccolo lo sforzo che si deve fare per immaginare questi versi pronunciati dalla piccola Aziza, così come compare all’interno del film; e altrettanto piccolo è lo sforzo che occorre per vedere in quel "tremendo Signore che non sa cosa gli capita" e che, "leggero", distrugge "gaiamente" quell’amore "così casto", il ritratto di Azíz che, gaio e nel contempo crudele (perché non innocente), è trascinato via prepotentemente dal desiderio per Budur.
Ma mentre nei Racconti di Canterbury Pasolini aveva interposto tra sé e Ninetto lo schermo codificato della citazione chapliniana, in questo caso il regista riesce ad affrontare senza filtri interposti la materia del racconto, e ad approdare al lucido e sublimato riconoscimento che, se la fedeltà è un bene, allora lo è anche la leggerezza; e, dunque, se è vero che Ninetto ha scelto di "obbedire" - come dice Pasolini rivolgendosi a lui in un sonetto qui non riportato - "a un destino che vi vuole povero", è altrettanto vero che non è "scomparso dalla vita" del poeta, ma gli rimane accanto con la sua "lieve gaiezza" così diversa, ma anche così necessaria, alla "fedeltà" pasoliniana verso "quel nostro amore così casto".
Sotto il segno duplice della leggerezza e della fedeltà (ma solo fino a un certo punto) può essere vista la vicenda di Zumurrud e Nur ed-Din; infatti, alla costante resistenza che la ragazza oppone a chi vuole dominarla e possederla, sembrerebbe contrapporsi la leggerezza di Nur ed-Din nel soddisfare le richieste delle donne che incontra nel suo peregrinare in cerca dell’amata schiava. Dico "sembrerebbe" perché le azioni dei due giovani sono, in realtà, guidate dal diverso e contrario presentarsi della fortuna e dal diverso atteggiamento richiesto da ciò che è tratto in sorte. Zumurrud, infatti, deve continuamente affrontare personaggi o situazioni ostili: il furioso Rashid, Giawan il ladro curdo, il pericolo di essere uccisa qualora venisse scoperta la sua reale identità quando si spaccia per Wardan, eccetera; mentre tutti gli incontri che fa Nur ed-Din (a parte il malvagio Barsum il cristiano all’inizio dell’episodio) sono di donne benefiche che lo aiutano nella sua ricerca di Zumurrud o che lo accolgono quando è prostrato dalla stanchezza e dalla sofferenza. Il rapporto sessuale con queste è visto come un gioioso ringraziamento e un temporaneo risollevamento dell’animo a cui segue, ben presto, l’angoscia per la mancanza dell’amata.
Significativo, in tal senso, è un brano della sceneggiatura originale, in cui si descrive il risveglio di Nur ed-Din dopo l’amore con Munis e le sue sorelle:

"Dopo l’amore si sono addormentati. Anche Nur ed-Din: ma solo per poco. Infatti quando è ancora buio e non si sentono più rumori, si sveglia d’improvviso come per un cattivo sogno. Si guarda intorno. Vede le tre donne addormentate. Vede il suo corpo nudo, i suoi vestiti sparsi per la stanza. L’ubriachezza gli è passata, il sogno è finito ed egli si mette a piangere. Si alza, afferra i suoi vestiti, se li infila in fretta e furia e scappa fuori singhiozzando e chiamando a voce alta Zumurrud."

La leggerezza di Nur ed-Din, dunque, è molto relativa e i suoi numerosi incontri sessuali (per altro assenti nel testo delle Mille e una notte) non sono altro che delle tappe verso la sua fedele ricerca della schiava amata solo per una notte.
La fedeltà di Zumurrud, d’altro canto, è resa live dalla prontezza d’animo con cui risponde ai mutamenti della sorte; basti pensare, ad esempio, al mutamento repentino che avviene sul suo viso quando, portata da Giawan al covo dei ladri, il suo rapitore si allontana lasciandola sola con l’anziano padre dei curdi: solo un attimo prima coperta dalle lacrime, solleva il volto sorridente (per ingraziarsi il vecchio) e dice: «Scommetto che hai la testa piena di pidocchi… eh? Se vuoi, ti spidocchio un po’ Vuoi? Eh? Vuoi?»; oppure si pensi al dialogo che intrattiene (spacciatasi per un uomo) con il Visir della città in mezzo al deserto, quando questi gli chiede di sposare la figlia:

Zumurrud sta per passare la soglia del palazzo, quando viene fermata dal Visir. Visir: Prima di essere incoronato, dovrai prendere moglie. Eccola lì, mia figlia. (la indica) Zumurrud (imbarazzatissima): E chi ti ha detto che ho voglia di prendere moglie? Visir: L’usanza vuole così. Se disobbedisci sarai gettato dall’alto della torre. Zumurrud (convinta): Allora sia fatta la volontà di Dio!

Si può dire, dunque, che nell’episodio di Zumurrud e Nur ed-Din il rapporto dialettico e complementare tra leggerezza e fedeltà si complichi ulteriormente intrecciandosi profondamente alle figure dei due protagonisti, secondo le modalità tipiche della sineciosi pasoliniana:

"La libertà sessuale è necessaria alla creazione? Sì. No. O forse sì. No, no, certamente no. Però… sì. No è meglio no. O sì? Ah, incontinenza meravigliosa! (Ah, meravigliosa castità.)"

Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo



tesi di laurea




La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini

Laureando:
Fabio Frangini

Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000

Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

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