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mercoledì 16 dicembre 2020

Pasolini, Ultimo discorso sugli intellettuali - Il Setaccio n°5, marzo 1943, pagina 3

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Ultimo discorso sugli intellettuali
Il Setaccio n°5, marzo 1943, pagina 3

Nel secondo numero di questa rivista, ho riportato il seguente passo, da un corsivo di «Primato»: 
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«Persuasi come siamo che la guerra nella diversità dei suoi aspetti, e nella complessità delle sue azioni, investe sempre più apertamente quella cultura che è patrimonio inalienabile della Patria e dalla quale discendono direttamente i presupposti di questa guerra, proseguiamo con ferma e consapevole fiducia il nostro lavoro». 
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E l'avevo così commentato: 
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«Naturalmente aderiamo a tali affermazioni con decisione estrema. Vorremmo però che nelle riviste e nei giornali letterari, si insistesse meno sulla posizione dei letterati. È mai venuto in mente a qualcuno di giustificare, o per lo meno precisare, la situazione degli operai o degli impiegati?».
 .
Per me, e per noi- la questione era finita lì. Non cosi per la stampa italiana, che per lunghi mesi, senza nessun cenno ad esaurirsene, va trascinando avanti la questione sugli intellettuali e la guerra con un seguito ininterrotto di polemiche. A me il rapporto «intellettuali e guerra» non soltanto si presenta come inammissibile, non esistendo tra i due termini alcun ragionevole nesso, ma senz'altro, per noi intellettuali (se vogliamo proprio chiamarci con questo ormai brutto nome} offensivo, e, vorrei qui aggiungere, nocivo per la nazione in guerra. Dovrò qui riportarmi all'antica questione della posizione civile degli intellettuali? Posizione che sembra rimanere sempre e fatalmente misconosciuta e falsata. Dovrò rivendicare invece - ancora una volta vanamente - la sua eccelsa utilità, che, a una civiltà, nata oscuramente da anteriori condizioni economiche e sociali, dà la ragione ultima più profonda e duratura? Noi vorremmo che finalmente questa nostra posizione di intellettuali venisse considerata alla stregua di un mestiere, e, come tale rispettata. E non parlo solo di rispettare negli intellettuali l'aspetto e l'opera più utile, cioè il loro lavoro di creazione, di poesia, ma anche la fatica più umile-e, si badi, niente affatto gratuita-di letteratura. (Qui non vogliamo polemizzare con un passo del discorso recente di Goebbels, in cui, tra le cose che lo stato di guerra non ammette, si elencavano le pagine e l'inchiostro consumati in letterarie questioni di lana caprina, poiché finché i problemi si riducono a stabilire se si debba accogliere o no una parola straniera, un neologismo ecc., siamo d'accordo.)

Ma mi si potrebbe obbiettare, (e l'abbiezione mi verrebbe, poi, dal partito polemizzante, da una parte, più ufficiale, e, da un'altra, più illetterato, retrivo e provinciale), mi si potrebbe obbiettare che ora si va appunto chiedendo agli intellettuali di adeguarsi allo stato di guerra esercitando proprio - come poco più sopra auspicavo - un definito e utile mestiere: quello della propaganda. 

Ma sta qui, appunto, l'equivoco: e si tratta di un equivoco tra vocazione e vocazione, tra mestiere e mestiere. Per fare della buona e utile propaganda occorrono un'indole e una preparazione non inferiori a quelle che occorrono per fare un buon letterato, o, mettiamo, per fare un buon notaio. Si tratta, dunque, di una professione: e come per qualsiasi altra, non ci si può improvvisare. Bisogna cercare gli elementi, educarli. Non pretendere che un uomo, di punto in bianco, perché sa tenere la penna in mano e ha fatto, magari, della buona critica, debba esser capace di mutare improvvisamente i suoi interessi, la sua forma mentis, le sue aspirazioni, e riempire le pagine della sua rivista di argomenti a cui non è educato, oppure a tacere. A tacere, cioè a por fine alla sua fatica, a cadere nell'inerzia, nel tedio. Come a togliere al contadino la vanga, al falegname gli attrezzi. A sentirsi un peso morto, per quel che a lui sta più a cuore, nella vita civile, e magari, rendersi ad essa utile per mezzo di qualche lavoro di genere inferiore, che lo aiuti ad esistere. 

Allora, mi sembra che nessuno, onestamente, potrebbe pretendere da parte degli intellettuali un adeguamento alla guerra attraverso un'opera di propaganda: (a meno che questa non divenga uno di quei «lavori marginali», a cui alludevo poco più sopra, cioè vero e proprio mestiere, competenza). Tuttavia mi si potrebbe fare ancora un'abbiezione, e cioè: gli intellettuali non dovrebbero adeguarsi allo stato di guerra attraverso una propaganda accettata (oppure rifiutata) come un obbligo, anzi il loro entusiasmo, la loro fede dovrebbero spontaneamente sentirne la necessità. 

E allora il discorso si fa più serio. E, purtroppo, non contesto che tale abbiezione sia non fondata per tutti i casi. Tuttavia potremo senz'altro superarla dialetticamente osservando che gli intellettuali - uomini come i notai e i muratori - possono dar corpo alla loro fede in mille altri modi che con la propaganda {o, peggio, il silenzio); e che da essi, come dai notai o dai muratori, è lecito pretendere che manifestino la loro fede in nessun altro modo se non intensificando il lavoro che è di loro competenza. E non è detto che ora, in Italia, questo non stia accadendo, o, almeno, maturando. 

(Io e mia madre sediamo dentro la stanza che ha pro t etto prima la sua infanzia, e poi la mia. Ed ecco dentro questa stanza, dal buio della notte si ode echeggiare una voce: è un ragazzo, soffermato davanti alla porta di casa nostra, che chiama un amico. E quel grido, come una volta, non mi suscita nostalgia del passato, di me fanciullo, o vaghi tremori, ma mi richiama con nuovo dolore ai momenti che viviamo. Mi mostra più vivi, per un attimo, davanti agli occhi i volti di mio padre e del mio più caro amico, che la guerra mi ha portato via. Il primo san due anni che non lo vedo. Del secondo non so più nulla, e passo le mie più tristi ore a immaginarlo, in Russia, ferito, disperso, prigioniero ... E qui davanti ho il doloroso sguardo di mia madre, e vorrei esprimere tutto questo ma non è possibile: è troppo vivo, violento, doloroso.) 
Pier Paolo Pasolini






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Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).

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Biblioteca dell'Archiginnasio
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Pier Paolo Pasolini, Filologia e morale - Architrave n. 1, anno III, 31 dicembre 1942, pag. 4

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Eretico e Corsaro




Filologia e morale
Architrave n. 1, anno III, 31 dicembre 1942, pag. 4




Le poète se con sacre et se consume donc à 
définir et à comtruire un langage dans le 
langage.
Paul Valéry




Questo scritto si riferisce ai fatti non ancora accaduti nella più giovane cultura italiana. Non sappiamo se la più anziana ne sia informata, ma sospettiamo che un pericolo, per lei non meno grave di quello che essa stessa ha scatenato contro la generazione che l'ha preceduta, si sta ora preparando contro di lei, appunto dalla più giovane generazione. Non  vogliamo affatto drammatizzare - consci quasi ironicamente della caducità di certi «richiami» - ma semplicemente, invitare alla calma certe voci, che, ripeto, non si sono ancora fatte pubblicamente sentire, ma che mormorano nell'ombra. li movente non certamente molto recondito di queste   sono le presenti condizioni della vita storica, che vuole essere vissuta intensamente, ma tuttavia con la coscienza della sua contingenza.
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Volevo dire, insomma, che ora mi sembra essere di moda un certo intransigente moralismo, che va tramutando molti giovani estetizzanti di ieri in tanti piccoli Savonarola. Ora, son convinto che questi giovani, presi uno ad uno rappresentano tanti casi di serio e sincero svolgimento di pensiero; tuttavia certi collettivi giri di valzer, certe prese di posizione generali, ci convincono poco. A coloro che di continuo mettono avanti il <<noi giovani» o «la nostra nuova generazione», noi suggeriamo di guardarsi un po' indietro, e rabbrividire al silenzio mortale che ha lasciato dietro di sé ogni polemica, ogni recrudescenza culturale, sia in favore del contenuto che in favore della forma, o di qualsiasi altra questioncella retorica. Necessità di una morale, necessità di un contenuto, siamo d'accordo; necessità di una civiltà, e siamo ancora più d'accordo; che nei più recenti lavori letterari e pittorici scarseggi la forza fantastica, e abbondi la presunzione teorica da una parte (Vittorini, Guttuso ecc.) e dall'altra un 'unità troppo abbandonata, cosciente (Cassola, Leoni ecc.); e che in quelli meno recenti abbia sempre un certo valore l'accusa di frammentismo o lingaiolismo, siamo ancora d'accordo. Tuttavia lasciamo tali amare considerazioni a chi ha mai pensato poterne formulare di diverse, e che ha aspettato le difficili contingenze storiche e pratiche, per guardare più in dentro dei risultati meramente letterari. Ebbene questo «guardare più in dentro>> in reazione a un presunto precedente esame filologico, rischia criticamente di trasformarsi in contenutismo. Che sia proprio questa la trasformazione spirituale che fin dallo scoppio della guerra veniva presagita in molti fogli letterari? Se ciò fosse, non sarebbe che cadere nello sbaglio opposto di quello da cui ci si voleva liberare. Per questo, all'inizio di questo scritto parlavamo di un invito alla calma. (Il «vogliamo fare uno sbaglio, giovanotti» di Bignardi in «Libro e moschetto», non ci sembra venire a contrapporsi al nostro invito, dato che si riferisce puramente a testi letterari, a questioni di stile, cioè di vita già risolta letterariamente e ormai sul punto di esprimersi.)
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Ci sembra che solo chiudendoci in noi stessi, nella no­stra solitudine più dolorosamente umana, potremo dare di noi infine una compiuta immagine, e così aiutare il formarsi di una nostra «civiltà». E parliamo di una civiltà, ma non letteraria, come vita, la sola che consenta la presenza di una grande cultura ed anche di una grande poesia; («una letteratura classica è il prodotto di una nazione e d'una generazione che ha consciamente compiuto un definitivo progresso morale, politico, intellettuale, ed è convinta che la sua concezione della vita è più naturale, più umana, più universale e più saggia di quella della generazione precedente. Tale generazione ha effettuato una sintesi che le permette di considerare la vita avendo riguardo alla sua totalità, alla sua varietà nell'unità; e l'opera dell'artista consiste nel dare espressione a quella coscienza, onde la solidità di quest'opera e anche la sua limitatezza, e, in mano di grandi artisti, la bellezza ... L'opera dell'artista è di dare espressione individuale e bellezza formale a un complesso di sentimenti e pensieri comuni che egli condivide col suo pubblico, pensieri e opinioni che per la sua generazione hanno validità di verità universali» - Grierson). E qui siamo al vivo della questione: esiste ora in Italia una coscienza morale politica e letteraria a cui il poeta possa dare espressione, giovandosene per essere più compiutamente se stesso? Noi rispondiamo fiduciosamente che tale coscienza o civiltà si va maturando nei presenti travagli comuni, e cominciando proprio a maturare nelle sue fonti più lontane e profonde, cioè nella vita umana che ogni individuo possiede. Quando gli individui che avranno approfondito questa vita umana che hanno in dono, saranno molti e agguerriti, la civiltà che cerchiamo comincerà ad avere un'esistenza e una forma, se non altro come somma di sofferte e perciò profonde esperienze individuali: (<<La vita è un dono dei pochi ai molti: di coloro che sanno e che hanno a coloro che non sanno e che non hanno>>: questa frase di Modigliani dovrebbe toccarci nel più profondo della nostra coscienza di intellettuali).
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Se ora esiste tra i più giovani letterati italiani una più accentuata e scavata ricerca etica, questa ci sembra dunque del tutto giustificata, anzi, necessaria; ma - e con questo anticipiamo gli avvenimenti - è inutile ricercarla in chi non ne ha sentito così profondamente e collettivamente la necessità (parlo della generazione che ci ha preceduti) e che perciò è stata - come fenomeno generale - caratterizzata dalla ricerca linguistica. Questo io anticipo nel tentativo di evitare polemiche nuove e vane, che non farebbero altro che ritardare la maturazione di necessaria e augurabile civiltà. Se mai, i giovani dell'ultima generazione, più che in vani rimproveri contro una condizione letteraria che più non li riguarda, usino le loro energie ad un'opera educativa che sola potrà dare «coscienza» alle «opinioni comuni», e maturare una futura grande cultura italiana: educare; sarà questo forse il più alto - ed umile - compito affidato alla nostra generazione.
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Se del resto qualcuno ci chiedesse da quali basi mora­li, politiche e culturali noi volessimo riedificare questa civiltà; rispondiamo subito che quelle culturali - intese come attività divulgativa, editoriale, e soprattutto critica - si sono già andate formando da venti anni a questa parte in Italia e sono appunto quelle che ci hanno formato; e non ne dimenticheremo affatto gli insegnamenti, anche se i testi offriranno nuove possibilità critiche (insomma, passi indietro non vogliamo farne: se un Contini, ad esempio, ci ha insegnato a esaminare filologicamente il testo, questo esame ci sembra inizialmente il più valido ed imprescindibile; tutt'al più un moto di reazione potrebbe avvenire nei riguardi di certa critica ermetica - quasi sempre nobilmente sentita - che non si cura di celare dietro la sua liricità, una scettica rinuncia). Per quelle che ho chiamato basi morali e politiche, il discorso sarebbe assai più lungo, e non tutto approfondibile; crediamo del resto che le presenti condizioni della patria non siano che l'avvio a un approfondimento di quelle, un pretesto per un importantissimo esame di coscienza. Del resto la genesi di una civiltà nasce da profonde ragioni umane, e poi pratico, economiche; e il contributo che noi letterati potremo arrecare - ripeto - ci riguarda soprattutto come uomini «che hanno e che sanno», e se ora da molte parti - e ancora privatamente - si avverte una mancanza di una matura e alta civiltà che ci raccolga, noi, questa civiltà, la potremo ritrovare risalendo alle sue origini lontane e immutabili, per cui energie sempre nuove la rinnovano e la proteggono, come avviene nella natura. La potremo ritrovare chiudendoci a lungo in noi stessi, e muovendoci nello stretto cerchio che una vita familiare - fatta densissima - ci riserba, all'ombra del nostro focolare, sotto le foglie dei nostri orti, tra i gesti, che da secoli non mutano, degli uomini ingenui. Questa antica civiltà non ci potrà deludere, se da essa potremo far scaturire nuove sorgenti; è un lavoro privato, che ci riguarda uno per uno (ed è questa la nostra responsabilità, e può essere la nostra colpa, come forse per alcuni giovani pittori e letterati lo è già).
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Tutti i dubbi su quello che ho vagamente alluso - e non potevo fare altro - qui sopra, sono pienamente giustificabili; concluderò perciò ritornando in un terreno più concreto che non sia quello di una non ulteriormente precisata «civiltà», voglio dire sul terreno della letteratura, e ripeterò l'invito alla calma, l'invito a molti giovani di non farsi soverchiare dalla ricerca morale - che è sempre anteriore alla poesia - e a non reagire di conseguenza crudelmente e ciecamente alla ricerca linguistica e formale che ha caratterizzato la stagione letteraria che ci ha preceduti; certe scoperte verbali e sintattiche a cui si è pervenuti (dovrò qui fare i nomi di Ungaretti e Montale e Cardarelli e Cecchi, e anche Quasimodo e Vittorini?) fanno ormai parte di un fenomeno linguistico italiano, e non si potrà in futuro prescindere da esse, anche se le eventuali opere future rivelino una più intensa e, direi, collettiva preparazione etica, dovuta del resto a cause ed esperienze esterne o civili, che verranno ad operare in noi anche senza l'apporto della nostra volontà; in un certo senso la nostra sarà una buona sorte. Ma in conclusione i risultati poetici e la letteratura che ne sorgerà intorno non potranno - è ovvio - che essere riconosciuti da un esame filologico, che, prima di ogni altra cosa - prima di guardare al contenuto etico non puramente egoistico, ma derivato anche da esperienze civili, dalla esistenza del padre e dei compagni e magari vi si oggettivi in narrazione e mito - ne riconosca la validità de! linguaggio.
Pier Paolo Pasolini



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Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini, Collezioni letterarie - Il Setaccio, anno III, numero 2, dicembre 1942

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Collezioni letterarie
Il Setaccio
Anno III
Numero 2
 Dicembre 1942
Pag. 9



   Seguire tutte le pubblicazioni che escono in questa fertile stagione libraria italiana, e parlarne compiutamente, non è cosa delle più agevoli. Oltre che per la varietà delle competenze richieste e necessarie, volevo alludere alla quantità veramente notevole di libri che - si può dire settimanalmente - ci viene offerta dalle case editrici e di cui rari sono gli esemplari non meritevoli di essere recensiti o almeno ricordati. Vallecchi, Einaudi, Bompiani, Mondadori, Tuminelli, Garzanti, Le Monnier, Sansoni, Frassinelli, Guanda etc. etc., fanno a gara a chi mette fuori i libri più tipograficamente eleganti e le collezioni più rare e scelte.

   Per questo, dato che chi voglia iniziare un esame di tale quantità di libri, non può non rimanere sconcertato, inizieremo con questa rubrica una serie di recensioni, non di libri particolari, ché il tempo e lo spazio assolutamente non basterebbero, ma appunto di intere collezioni, che sotto il nome di «Lettere d'oggi» o «Rivoluzione» o «Ventiquattresimo», gremiscono le nostre fornitissime vetrine.

   S'intende .che queste recensioni non vorranno persuadere criticamente, ma avranno puramente un affettuoso valore di promemoria. La citazione non muterà i suoi termini nel commento.

   Inizieremo con la raccolta poetica di «Letteratura», per i tipi di Parenti. In tale raccolta è subito reperibile un attributo che la distingue, voglio dire l'assenza di un'atmosfera poetica formale o almeno di contenuto umano e letterario, che allacci fra loro i libri, costituendo una specie di cenacolo o corrente (come avviene invece per «Rivoluzione» o «Lettere d'oggi»).

   Le edizioni Parenti raccolgono insomma i libri di poesia che si distinguono per una loro netta ed interiore importanza poetica, od anche culturale, cosicché si passa da Penna a Dal Fabbro, da Ghiselli a Giotti, senza per questo venir meno a una fondamentale unità. In base a questa unità, che è buon gusto e intelligenza rigorosa, si può dire che finora nessuno sbaglio - ripeto, almeno culturale - macchia questa collezione. (Bella anche nella sua purissima veste tipografica.)

  Approfondire il primo sentimento che la prima lettura di Penna ci consente, non 
è cosa agevole. Per lo più è facile cadere in una definizione («candido prodigio», «grazia poetica») che non è affatto, se non apparentemente un approfondimento critico. E così pure certe rapide analogie che trasferiscono la critica di Penna ad una sorta di ringraziamento o sensuale adesione: il suo «alessandrinismo», la «sua parentela con la prosa primesautière di Comisso, con l'ultima poesia di Saba e la pittura di De Pisis» (Sergio Solmi), che mi sembrano una schematizzazione un po' meccanica, seppure, a una prima lettura, di certo giovamento.

   Non cercherò io certamente, qui, di andare al di là del ringraziamento o sensuale adesione, e brucerò ogni tappa critica per giungere ad una conclusione già del tutto impegnativa, e cioè che in questo libretto si giunge talvolta ad accenti di vera e buona poesia. Il grado di tale poesia toccherà all'avvinto lettore di stabilire, sia che si tratti di un rassegnato risolvere il proprio dolore corporale con un moto purissimamente melodico (Mi nasconda la notte e il dolce sento), oppure cerchi di definirsi e ricompensarsi m una composizione più nettamente vigilata (Torre, Fantasia per un inizio di primavera). Poesia tutta disciolta nel suo candore, che in definitiva è purezza poetica, la cui amoralità non depone affatto in suo sfavore, se è tutta densa e pregna di precedenti sofferenze umane, che solo la poesia momentaneamente conclude. Penna, insomma, «non è uno di quelli, troppi, e veramente stucchevoli, che fanno dell'art après l'art» (L. Anceschi). La sua purezza è da cercarsi altrove.

   Non esiteremo invece ad indicare la purezza di Giotti (Colori) ad una più semplice e quieta adeguazione del suo cuore al suo linguaggio: una freschezza che è pura in quanto tale e, con conseguente estrema naturalezza si ritrova nel dialetto. (Un dialetto era quello di Saffo.) Mentre nell'altro puro, Penna, la definizione critica di tale purezza, avrà bisogno di numerosi studi con successivi approfondimenti, in Giotti è facile risalire alla sua origine.


Dal portiere non c'era nessuno. 
C'era la luce sui poveri letti 
disfatti. E sopra un tavolaccio 
dormiva un ragazzaccio bellissimo.


   Dove il riferimento a certe acerbe e dolci prosaicità crepuscolari non ci possono accontentare per la verginità di Penna. Ma a versi come questi:

Ga piovù; e avanti sera 
ga dà un colpo de vento. 
Ormizado a la riva,
un picio bastimento 
con un spontier longo, salta 
su la mareta blu. 
Se vedi in fondo i monti. 
E l'istà no' xe più.



cosa aggiungere?

   Tale nuda e candida purezza reperibile sia in Penna che in Giotti, e differentemente risolta nelle due poesie, è completamente scomparsa, direi bruciata, sebbene ancora in maniera diversa, in altri due poeti della stessa collezione: Ghiselli e Dal Fabbro.

   In maniera diversa, ho detto, e volevo significare che nel primo il cuore urge troppo nella poesia a intorbidire il linguaggio, e nel secondo ogni freschezza o purezza viene abolita da una eccessiva malizia di riferimenti letterari.


   «Il primo passo sempre stentato di Ghiselli e insieme il suo salire unanime in ogni verso è quanto di più struggente, di più ingenuo e contraddetto la giovane poesia ci abbia lasciato in questi anni...» (A. Gatto). Stando così le cose, Ghiselli sopravviverebbe attraverso un documento puramente umano di una sofferenza non solamente umana. La sua immagine, cioè, si conterrebbe nei limiti di un'evasione, o confessione, in perpetua ricerca del suo linguaggio, del mestiere: «E m'incantavo, qualche volta ero triste, perché mi sentivo disarmato e inverosimilmente povero, difronte all'esperienza (dei Con· temporanei), alle loro scuole o gruppi», e poi « ... ma esaminando la mia vita già tanto povera di significati, tornavo a credere, a illudermi, a sperare». Un perpetuo ricorso dunque alle sorgenti umane della poesia: sicché sarà facile trovare sempre, «al di là delle gracili trasparenze letterarie di cui a volte i versi sono come infiacchiti e anelanti una fondamentale libertà d'animo, una continua sostanza ... », insomma «il qualcosa che sarebbe venuto a prendere il posto del tanto invocato mestiere». E allora, in questi momenti, si ottengono dei risultati sinceramente poetici, ed anzi dei frammenti veramente potenti, appunto per questo urgere e gravare dell'umanità fisica e sofferente, che nel linguaggio non si disperde, né, in un certo senso, si purifica. Per Ghiselli mi torna il nome di Michelangelo poeta. Infatti, si confrontino con alcuni versi irrisolti e poderosi di Michelangelo, alcuni versi del Nostro.

dovrei disfare il tetto e poi le mura,
discendere a trovar le fondamenta 
e poi ricostruire- un'altra torre.


e ancora:


Fammi le mani colme: fammi noto 
il destino perché possa 
come il martello sopra la campana,
fulminare il silenzio in me sopito.

Torna ad esser sorgente, dura pietra,
mazza, scalpello, forma che diviene.
Riporta l'apra Tua dentro le vene 
nostre, sino a quando s'avverta il rombo 
del Tuo silenzio accompagnare il sangue.

   Insomma, Ghiselli perviene ad espressione di vera poesia, allorché «i suoi versi anelano con la propria forza impacciata e gentile, all'estrema fatica con cui la coscienza, l'esperienza e l'idea della vita diventano semplicemente la vita, e la poesia uno specchio di cose create, un oggetto» (A. Gatto).


   Per Beniamino Dal Fabbro, stimato da me come uno dei più onesti e appassionati letterati italiani, mi spiace non poter accogliere lietamente il suo Villapluvia. È un libro che scoraggia, in cui l'amore approfonditissimo di Dal Fabbro per la recente poesia francese e italiana, viene scontato dolorosamente. Il linguaggio mi pare una ricostruzione - qua e là felice - di tesi e di gusto, in cui la freschezza è  na dolorosa malizia. Ho detto quella ch'io credo la verità, brutalmente: sono questi soprattutto i casi, dove i mezzi termini sono disonesti.

   Di Glauco Natoli, vorrei parlare più diffusamente di quel che lo spazio rimastomi mi acconsenta. Forse per una limpida simpatia umana che dal suo libro spira. È un poeta che, rischiando continuamente i pericoli di Dal Fabbro, si salva in merito della propria seria ed affettuosa giovinezza, che, dalle prime un po' rudi reminiscenze montaliane: («Aspra è la terra e spacca l l'esile radica attorta; l vita: una cosa già morta l che dondola sulla risacca»), lo riporta ad una dolcezza distesa e molle di rievocazione («Ma pure vivo: memore dei segni l per cui l'alba si sbianca l nel declino degli astri, l al grido mattutino degli uccelli»), che lo riallaccia a certe più recenti esperienze poetiche (Gatto, Sereni etc.).


Pio
(In questo art. Pasolini si firma Pio)




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Pasolini - Per una morale pura in Ungaretti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


(Sulla copertina. disegno di Pier Paolo Pasolini)


Pasolini - Per una morale pura in Ungaretti
Setaccio», III, l, novembre 1942


In uno dei consueti «esercizi di lettura» che più privatamente si dedicano alla tecnica della poesia, mi sono soffermato sulla lirica << O notte >> e me la sono andata parafrasando non tanto per illuminare le inesistenti oscurità od appianare i luoghi difficili, quanto per distendermi attraverso un  scelta che avesse valore di esempio in una più chiara e precisa adeguazione alla poesia ungarettiana. Ripeterò ora qui l'esperimento, poiché dal confronto di una compiuta parafrasi con la poesia stessa, risulteranno nettamente alcuni elementi che sono essenziali del processo stilistico ungarettiano e che, del resto, non si distaccano da quelli usuali che il lettore sprovveduto si pone a prima lettura come problemi da risolvere; i versi o nuclei verbali decisi e illuminati, con le pause bianche che li separano.

Ora questa che può sembrare un'apparenza meramente grafica e che colpisce subito l'inesperto, mi pare questione da riproporsi anche a chi pensi di averla già largamente superata, se si tien conto che, in fondo, nessuna critica che se ne sia curata, ha attribuito agli spazi bianchi maggior valore che quello di isolare i nuclei verbali, per farli vibrare, essenzializzarli, sfumandoli e scarnendoli allo stesso tempo. 

Ora, le lunghe pause ungarettiane a me sembrano invece il primo corollario di una poesia che assuma come sua forma un processo ad illuminazioni sommamente decise, necessarie ed essenziali e che, quindi, si rifiutano di essere collegate fra loro a un comune o poetico procedimento logico; le pause così verrebbero ad essere l' abolizione dei legami logici (congiunzioni, proposizioni incidenti, trapassi gnomici, verbi di <<credere>>, «sembrare», apostrofi e soprattutto avverbi) come il principale mezzo di una poesia intesa - e ciò risulterà in seguito più chiaramente - come rievocazione, e che questa poesia-rievocazione venga a coincidere in genere, con la poesia tradizionale. Risulterebbe così riproposto il senso dell'originalità tecnica ungarettiana. 

I punti essenziali del discorso sulla poesia << O notte >> mi sembrano separabili in tre nuclei: il primo fino al verso << moribonde dolcezze >>, che verrebbe ad accennare la situazione pratica (alba, risveglio, stagione); il secondo fino al verso << e già sono deserto >>, che pindaricamente dal pensiero dell'autunno passa a quello della caduca giovinezza, e dopo una breve pausa (sono sperduto nel giro delle mie malinconie), il terzo, che, nella contemplazione della notte asserenatrice, viene ad avere una funzione di catarsi. Basterà così soffermarsi nel primo gruppo e scioglierne i suoi .punti essenziali nel giro di un possibile discorso il quale non potrà avere un ritmo tradizionalmente rievocativo. (Questa rievocazione, il cui senso sarebbe qui lungo approfondire, risulterà tanto più profonda e accorata, quanto più concretata nei legami della costruzione logica. Già Mario Luzi avvertiva nei versi - presi a caso come esempio - 


certo del tuo costume 
non ti dorrai: ché di natura è frutto 
ogni nostra vaghezza, 

come la congiunzione << ché >> è nella logica la maniera più abile ecc. Ma nel discorso leopardiano l'entità sintattica, pur conservando la sua letterale individualità, è doppiata dall'inflessione melodica che vi abbandona tutto l'affetto e vi rende una specie di suono sordo o minore di concentrazione, una cariatide oscura a posteriori accenti << rilustri >>. Ma io vorrei conferire a questa notazione un valore più vasto e in quell'<< inflessione melodica affettuosa >> scorgere il segno tecnico di una condizione particolare ed essenziale di tutta la poesia tradizionale. Gli esempi ne sono infiniti dall'ancora leopardiano << vaghe stelle dell'Orsa >> pregno di un rievocativo accoramento - e quanto diverso da certi avvii ungarettiani pure esclamativi! - ai vari e noti 


Se lamentar augelli o verdi fronde 

Forse perché della fatai quiete 
tu sei l'imago ... 

Ma per tale trepidazione nata dall'accorato trapasso del dolore ad una assuefazione serena ma sconsolata ed arresa, era facile cadere nel turgore o nella lacrimosità, di cui è piena la letteratura italiana.) 

Ecco la parafrasi: << Quando l'alberatura è svelata dall'ampia ansia dell'alba, dolorosi sono i risvegli. Allora, sorelle foglie, vi odo fremere lamentosamente, ché gli autunni sono moribonde dolcezze >>: dove viene arbitrariamente riesumato, attraverso una restituita ricostruzione logica di avverbi e conseguenti inflessioni di tono, il ritmo tradizionale della rievocazione, che tuttavia resta confitta e quasi tremante nei luminosi silenzi delle pause. Queste perdono così ogni diretta e ricercata funzione di essenzialità (che non verrebbe ad essere altro che il luziano << decorativo invertito >>). 

Questa dell'essenzialità è la prima e più diffusa deviazione della critica nella poesia ungarettiana (<< il primo lavoro di Ungaretti ha dovuto essere quello della parola, e si badi non di una parola essenziale come finora s'è detto, ma d'una parola comune, pura dai vizi del tempo ... >> Carlo Bo); deviazione di ogni assunto teorico, precedente l'attuazione propriamente poetica, ed ha fatto sì che la parola ungarettiana venisse ad assumere un valore memorabile o assoluto, una parola intesa come nucleo di voce materialmente isolata nel silenzio, densa di cose taciute, drammaticamente scoperta e rinverginata. Ma a me sembra che codesta << parola >> ungarettiana e questa sofferenza che lo macera non siano altro chè il processo formale comune a qualsiasi vero poeta, che, ripeto, schemi teorici antecedenti rendono più caratteristico in Ungaretti, ma che non hanno niente a che fare con la poesia. Basti un esempio: 


Tutta la luce vana fu bevuta 
begli occhi sazi nelle chiuse palpebre 
ormai prive di peso ... 

Nelle onde sospirose del tuo nudo 
il mistero rapisci. Sorridendo ... 

Nel primo caso che è vera poesia, la parola porta il marchio della sofferenza poetica, nel secondo soltanto quello di una ricerca, facilitata, del resto, da un processo analogico che si ripete, qui, meccanicamente. 

Così mi sembra che in generale tutti i primi studi su Ungaretti siano inquinati da questo equivoco che confonde processo verbale con poesia, o, se mai, la vera poesia con una poeticità minore, !imitabile nel breve giro di una formula o di un godimento immediato. 


(Si presenterebbe ora la necessità di una disamina del· la critica ungarettiana, che, secondo una gentile definizione del Contini, «quando parla di Ungaretti, si configura naturalmente come una azione di grazie». E si vedano le pagine affettuose di Pancrazi e quelle fedeli e certe del De Robertis, del Gargiulo, e del Ca passo. Più decisamente rigorosi -direi sudati- gli studi del Contini stesso e del Bo, dove la poesia ungarettiana,.disciolta dalle formule, si distende in un più ampio discorso storico.)

Lo studio di tale critica - ripeto - sarebbe ora necessario, se queste mie pagine non si fossero modestamente impegnate ad altro che a riportare pianamente l'opera ungarettiana in diretto confronto con un assoluto, epperciò semplice, concetto di poesia. S'intende. che. innanzi a tale confronto verranno meno le determmazioni della critica; si tratterà di pronunciarsi decisamente con un sì o con un no; e il problema più che nuovamente impostato, verrà ad essere, direi, sognato. Del resto questo appunto, partito da una considerazione quasi puramente tecnica, e riguardante solo il << secondo >> Ungaretti, (se si tien conto che liriche come L'isola e Memoria d'Ofelia d'Alba sono pausate da profondissimi silenzi) vuoi terminare con un'altra considerazione non propriamente estetica. Alludo a un insegnamento che non dubiterò di chiamare morale, di cui la nostra anima si arricchisce quasi con un moto inavvertito di distacco dal possibile punto di partenza, poiché illogicamente persuasa. Quell'insegnamento che trasfigura il fine didascalico a un'esemplarità sofferta negli altissimi cieli della poesia, e si esprime concretamente nei versi della poesia classica, qui è più sottile e profondo, appunto perché meno concreto e meno logico, tutto riversato in una zona di cosciente delirio, che oltre che poesia è sogno di poesia, ed ivi consumato fino ad acquistare di nuovo un senso di saggezza umana agli estremi limiti dell'umana cordialità. Sono << proverbi >> tutti permeati della coscienza limpida del poeta che si rivolge a se stesso, cosciente della fatica e del presente dolore, ma del tutto assolto da ogni peccato di confessione o immodestia. La lezione etica ungarettiana (oltre che in una zona segreta che lascerò inesplorata perché attingibile solo da chi per la poesia abbia un interesse diretto -ed allora sarà una lezione di nobiltà, parsimonia, e piena coscienza di sé), si svolge anche in un terreno di umana comunicatività, rinverginata - nei suoi termini di borghese ed antica saggezza da una illogicità di sogno, che la riconduce, però, a un ritmo di schietto e semplice insegnamento. E questo trova nella sua massima distanza, una sensibile praticità. << La morte si sconta vivendo >>, << Il vero amore è una quiete accesa >> ecc. sono voci che risuoneranno sulle labbra degli uomini, negli eventi, prima ignoti, di un luogo dell'esistenza nuovamente rivelato dalla poesia. La morale ungarettiana è insomma, una morale «pura» in una poesia che «pura», nel significato corrente di questa parola, non può essere chiamata.




Biblioteca Universitaria di Bologna, collocazione 2118/PER. 10220.

Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).

I documenti digitalizzati appartengono alle raccolte di:
Biblioteca dell'Archiginnasio
Biblioteca Universitaria di Bologna
Centro studi-archivio Pier Paolo Pasolini - Bologna
Archivio storico dell'Università di Bologna
Biblioteca Cantonale di Lugano  



 Fonte:
http://badigit.comune.bologna.it/mostre/pasolini42/index.html 
Creative Commons Attribuzione 3.0.



Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

I disegni di Pasolini per la rivista il Setaccio.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





I disegni di Pasolini per la rivista il Setaccio.

   Oltre a saggi letterari, di critica d'arte, racconti e poesie in italiano e in friuliano (17 in totale), il contributo di Pier Paolo Pasolini per la rivista Il Setaccio del GIL (Comando Federale di Bologna della Gioventù Italiana del Littorio), si arricchisce anche di disegni, di cui alcuni pubblicati sulla copertina della rivista (cfr. i n. 1, 2 e 5):

Disegno  di Pasolini, sulla copertina del numero 1 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, a pagina 14 del numero 1 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, a pagina 14 del numero 1 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, a pagina 14 del numero 1 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, sulla copertina del numero 2 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, a pagina 5 del numero 2 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, a pagina 12 del numero 2 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, a pagina 14 del numero 3 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, a pagina 18 del numero 4 del Setaccio


Disegno  di Pasolini, sulla copertina del numero 5 del Setaccio




Disegno  di Pasolini, a pagina 14 del numero 5 del Setaccio


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