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mercoledì 16 dicembre 2020

Pasolini, Ultimo discorso sugli intellettuali - Il Setaccio n°5, marzo 1943, pagina 3

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Ultimo discorso sugli intellettuali
Il Setaccio n°5, marzo 1943, pagina 3

Nel secondo numero di questa rivista, ho riportato il seguente passo, da un corsivo di «Primato»: 
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«Persuasi come siamo che la guerra nella diversità dei suoi aspetti, e nella complessità delle sue azioni, investe sempre più apertamente quella cultura che è patrimonio inalienabile della Patria e dalla quale discendono direttamente i presupposti di questa guerra, proseguiamo con ferma e consapevole fiducia il nostro lavoro». 
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E l'avevo così commentato: 
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«Naturalmente aderiamo a tali affermazioni con decisione estrema. Vorremmo però che nelle riviste e nei giornali letterari, si insistesse meno sulla posizione dei letterati. È mai venuto in mente a qualcuno di giustificare, o per lo meno precisare, la situazione degli operai o degli impiegati?».
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Per me, e per noi- la questione era finita lì. Non cosi per la stampa italiana, che per lunghi mesi, senza nessun cenno ad esaurirsene, va trascinando avanti la questione sugli intellettuali e la guerra con un seguito ininterrotto di polemiche. A me il rapporto «intellettuali e guerra» non soltanto si presenta come inammissibile, non esistendo tra i due termini alcun ragionevole nesso, ma senz'altro, per noi intellettuali (se vogliamo proprio chiamarci con questo ormai brutto nome} offensivo, e, vorrei qui aggiungere, nocivo per la nazione in guerra. Dovrò qui riportarmi all'antica questione della posizione civile degli intellettuali? Posizione che sembra rimanere sempre e fatalmente misconosciuta e falsata. Dovrò rivendicare invece - ancora una volta vanamente - la sua eccelsa utilità, che, a una civiltà, nata oscuramente da anteriori condizioni economiche e sociali, dà la ragione ultima più profonda e duratura? Noi vorremmo che finalmente questa nostra posizione di intellettuali venisse considerata alla stregua di un mestiere, e, come tale rispettata. E non parlo solo di rispettare negli intellettuali l'aspetto e l'opera più utile, cioè il loro lavoro di creazione, di poesia, ma anche la fatica più umile-e, si badi, niente affatto gratuita-di letteratura. (Qui non vogliamo polemizzare con un passo del discorso recente di Goebbels, in cui, tra le cose che lo stato di guerra non ammette, si elencavano le pagine e l'inchiostro consumati in letterarie questioni di lana caprina, poiché finché i problemi si riducono a stabilire se si debba accogliere o no una parola straniera, un neologismo ecc., siamo d'accordo.)

Ma mi si potrebbe obbiettare, (e l'abbiezione mi verrebbe, poi, dal partito polemizzante, da una parte, più ufficiale, e, da un'altra, più illetterato, retrivo e provinciale), mi si potrebbe obbiettare che ora si va appunto chiedendo agli intellettuali di adeguarsi allo stato di guerra esercitando proprio - come poco più sopra auspicavo - un definito e utile mestiere: quello della propaganda. 

Ma sta qui, appunto, l'equivoco: e si tratta di un equivoco tra vocazione e vocazione, tra mestiere e mestiere. Per fare della buona e utile propaganda occorrono un'indole e una preparazione non inferiori a quelle che occorrono per fare un buon letterato, o, mettiamo, per fare un buon notaio. Si tratta, dunque, di una professione: e come per qualsiasi altra, non ci si può improvvisare. Bisogna cercare gli elementi, educarli. Non pretendere che un uomo, di punto in bianco, perché sa tenere la penna in mano e ha fatto, magari, della buona critica, debba esser capace di mutare improvvisamente i suoi interessi, la sua forma mentis, le sue aspirazioni, e riempire le pagine della sua rivista di argomenti a cui non è educato, oppure a tacere. A tacere, cioè a por fine alla sua fatica, a cadere nell'inerzia, nel tedio. Come a togliere al contadino la vanga, al falegname gli attrezzi. A sentirsi un peso morto, per quel che a lui sta più a cuore, nella vita civile, e magari, rendersi ad essa utile per mezzo di qualche lavoro di genere inferiore, che lo aiuti ad esistere. 

Allora, mi sembra che nessuno, onestamente, potrebbe pretendere da parte degli intellettuali un adeguamento alla guerra attraverso un'opera di propaganda: (a meno che questa non divenga uno di quei «lavori marginali», a cui alludevo poco più sopra, cioè vero e proprio mestiere, competenza). Tuttavia mi si potrebbe fare ancora un'abbiezione, e cioè: gli intellettuali non dovrebbero adeguarsi allo stato di guerra attraverso una propaganda accettata (oppure rifiutata) come un obbligo, anzi il loro entusiasmo, la loro fede dovrebbero spontaneamente sentirne la necessità. 

E allora il discorso si fa più serio. E, purtroppo, non contesto che tale abbiezione sia non fondata per tutti i casi. Tuttavia potremo senz'altro superarla dialetticamente osservando che gli intellettuali - uomini come i notai e i muratori - possono dar corpo alla loro fede in mille altri modi che con la propaganda {o, peggio, il silenzio); e che da essi, come dai notai o dai muratori, è lecito pretendere che manifestino la loro fede in nessun altro modo se non intensificando il lavoro che è di loro competenza. E non è detto che ora, in Italia, questo non stia accadendo, o, almeno, maturando. 

(Io e mia madre sediamo dentro la stanza che ha pro t etto prima la sua infanzia, e poi la mia. Ed ecco dentro questa stanza, dal buio della notte si ode echeggiare una voce: è un ragazzo, soffermato davanti alla porta di casa nostra, che chiama un amico. E quel grido, come una volta, non mi suscita nostalgia del passato, di me fanciullo, o vaghi tremori, ma mi richiama con nuovo dolore ai momenti che viviamo. Mi mostra più vivi, per un attimo, davanti agli occhi i volti di mio padre e del mio più caro amico, che la guerra mi ha portato via. Il primo san due anni che non lo vedo. Del secondo non so più nulla, e passo le mie più tristi ore a immaginarlo, in Russia, ferito, disperso, prigioniero ... E qui davanti ho il doloroso sguardo di mia madre, e vorrei esprimere tutto questo ma non è possibile: è troppo vivo, violento, doloroso.) 
Pier Paolo Pasolini






Biblioteca Universitaria di Bologna, collocazione 2118/PER. 10220.

Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).

I documenti digitalizzati appartengono alle raccolte di:
Biblioteca dell'Archiginnasio
Biblioteca Universitaria di Bologna
Centro studi-archivio Pier Paolo Pasolini - Bologna
Archivio storico dell'Università di Bologna
Biblioteca Cantonale di Lugano  



 Fonte:
http://badigit.comune.bologna.it/mostre/pasolini42/index.html 
Creative Commons Attribuzione 3.0.



Curatore, Bruno Esposito

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