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domenica 13 dicembre 2020

Miles Gloriosus di Plauto - Il Vantone di Pasolini e la lunga polemica di Aggeo Savioli

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


L'Unità - venerdi 1 luglio 1983

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
...Che in Italia esista un «teatro» analogo a quello in cui affondava le sue prepotenti radici il lavoro di Plauto, è cosa da mettere senza esitazione in dubbio. Dove potevo trovare una sede dotata di tanta assolutezza, di tanto valore istituzionale? Nel teatro dialettale sì, ma il testo di Plauto non era dialettale. Del teatro corrente, ad alto livello, in lingua, mi faceva (e mi fa) orrore il birignao. Qualcosa di vagamente analogo al teatro di Plauto, di cosi sanguignamente plebeo, capace di dar luogo ad uno scambio altrettanto intenso, ammiccante e dialogante, fra testo e pubblico, mi pareva di poterlo individuare soltanto nell'avanspettacolo... Il nobilissimo volgare insomma,  contagiato dalla volgarità, direi fisiologica, del capocomico... della soubrette...
P.P.Pasolini 


Pasolini tradusse il Miles nel 1963, (sembra in sole tre settimane) su richiesta di Vittorio Gassman che voleva portare sulle scene il testo di Plauto, ma l’allestimento non fu mai realizzato. Il 10 novembre del ’63 al Teatro della Pergola di Firenze, fu portato in scena dal regista  Franco Enriquez.
  • regia: Franco Enriquez
  • scene e costumi: Emanuele Luzzati
  • musiche: Ranieri Romagnoli
  • produzione: Compagnia dei Quattro
interpreti:


Michele Riccardini, Renato Campese, Glauco Mauri, Carlo de Cristofaro, Enrico D’Amato, Laura Panti, Sergio Di Stefano, Armando Spadaro, Valeria Moriconi (nel ruolo di Acroteleuzio, una cortigiana), Pierantonio Barbieri, Nevio Sagnotti, Ines Carmona.

Pasolini non si limita ad una semplice traduzione della Miles Gloriosus di Plauto, ma riesce a ricavarne un rifacimento che, attraverso un diverso stile linguistico, attualizza i personaggi. Il dialetto romanesco utilizzato da Pasolini  nella sua traduzione della  Miles Gloriosus di Plauto, non è il dialetto letterario che troviamo in Ragazzi di Vita o in Una Vita violenta, ma una forma quasi da avanspettacolo - di seguito alcuni titoli apparsi sui giornali dell'epoca:


Plauto impara a parlare come i ragazzi di vita. Nel «Vantone» Pier Paolo Pasolini ha impiegato un linguaggio ricco di moderni vocaboli romaneschi
Poesio Paolo Emilio
La Nazione – 12.11.63


Il “Miles” di Pasolini. La commedia, intitolata «Il vantone», presentata nella nuova e interessante versione del noto scrittore
Bertani Odoardo
L’Avvenire d’Italia – 12.11.63


Parlano in romanesco i personaggi di Plauto. Al teatro della Fiera «Il vantone», versione di Pier Paolo Pasolini del «Miles gloriosus»
Fontana Laura
Alto Adige – 27.11.63


«Il Vantone»: cioè il «Miles gloriosus» di Plauto tradotto da Pier Paolo Pasolini
Guglielmino Gian Maria
Gazzetta del Popolo – 7.12.63

Un «miles» romanesco con qualche parolaccia. «Il Vantone» di Pasolini all’Alfieri
A. Bl.
Stampa Sera – 7.12.63

 Un Plauto in romanesco nella “traslazione” di Pasolini
G. Pros.
Il Tempo – 28.12.63


«Il Vantone»: da Plauto al Sor Capanna
Savioli Aggeo
L’Unità – 13.11.63

ed è quest'ultimo articolo che noi andremo a leggere. Segue una replica di Pasolini apparsa sull'Unità del 16 novembre 1963 e con una serie di controrepliche, sempre sull'Unità e sempre di  Savioli Aggeo:  28 dicembre 1963, 31 ottobre 1976, 1 luglio 1983. 


(La trascrizione dal cartaceo è stata curata da Bruno Esposito)


L’Unità – 13.11.63

Il <<Vantone>> da Plauto al sor Capanna
IN SCENA IL «MILES GL0RI0SUS» TRADOTTO DA PASOLINI
Lo spettacolo dato in «prima assoluta» alla Pergola di Firenze dalla Compagnia dei Quattro

Dal nostro inviato                                                

Del Vantone si parlava da tempo: era nei progetti di Vittorio Gassman. travolti poi (solo momentaneamente, speriamo) dalla strabiliante fortuna cinematografica dell'attore. Ora l'ha presentato, alla Pergola di Firenze, in <<prima>> per l'Italia, la Compagnia dei Quattro, cui Pasolini ha voluto confidare questo suo esordio nel teatro. Per la verità. seppure annunciata come opera non di 
prima mano, ma tuttavia autonoma dalla fonte ispiratrice (il nome di Plauto viene citato appena, pudicamente, fra parentesi) tale libera traduzione del Miles .gloriosus e certo meno qualificante, ai fini dell'accertamento di eventuali doti drammaturgiche del narratore, poeta e regista di film, di quanto non fosse la sua versione dell'Orestea di Eschilo: discussa e discutibile, si, ma motivata da ragioni non soltanto di gusto, di spasso personale o conviviale, bensi ideologiche, culturali. e insomma di pubblica risonanza.
L’Unità – 13.11.63

Il Vantone ripete dunque. nel fondo,' la vicenda del soldato spaccone plautino* Pirgopolinice, doppiamente beffato'da un pugno di allegri burloni. nel quale spicca il servo Palestrione; per la cui malizia, Pirgopolinice perde la concubina Filocomasio e poi, tratto in inganno dalla cortigiana Acroteleuzio, vien picchiato e minacciato di atroci mutilazioni dai domestici di Periplecomeno, un vecchio di spirito. che della donna si e finto marito. E' una storia tutta scoperta, nella quale Plauto ammicca spudoratamente, più che mai, verso lo spettatore, facendo e disfacendo una serie d'intrighi. I'uno più assurdo dell'altro: da quello tessuto al danni  dello schiavo Scelledro, cui si fa credere che la Filocomasio da lui vista in intimo colloquio col giovane amante, Pleusicle, non sia lei, ma sua sorella; a quelli che segnano, appunto, la totale disfatta di Pirgopolinice, esemplare tipico di tutti i <<cornuti e mazziati» Capitan Fracassa d'ogni tempo.
Con qualche taglio e qualche aggiunta. il testo e dunque quello che è. Pasolini non ha dilatato. come forse era da aspettarsi, il personaggio di Pirgopolinice, ne ha arricchito la figura del guerriero millantatore di sfumature satiriche attuali, che la realtà odierna poteva probabilmente suggerirgli.
(E del resto, Plauto stesso non se la prendeva, addirittura, con Scipione l'Africano, salvatore della patria?). Anche Palestrione e gli altri sono vivi per quel tanto, anzi quel molto, di sanguigna evidenza, di carnale robustezza che ad essi (come a tutte le altre consimili sue creature) conferi I'autore latino: nel cui gioco spassionato e ribaldo lo scrittore di oggi ha voluto avvertire, crediamo, soprattutto uno stimolo per la propria sotterranea o palese vocazione picaresca; ma non un incitamento a rielaborazioni polemiche in chiave di contemporaneità. Se un aspetto della commedia sembra esser stato posto in rilievo particolare, nell'adattamento di Pasolini, non e infatti quello che attiene alla cinica ma veridica rappresentazione d'un mondo corrotto e canagliesco: quanto piuttosto l'altro, parziale, della ironizzata perfidia e ambiguità femminile. Ma la misoginia di Plauto, che è indulgente, libertina, carica di sensuale simpatia. assume qui (fatta I'eccezione dello stornello finale, gioiosamente e congruamente intonato da Valeria Moriconi) i caratteri d'una programmatica, quasi teorica tetraggine. :
L'accento del giudizio da dare a proposito del Vantone si sposta, a questo punto, sulla resa stilistica. ' La lingua adoperata da Pasolini, è quelle, grosso modo, che i lettori c gli spettatori di cinema conoscevano già: un impasto di italiano. di romanesco e di dialetti <<burini», con locuzioni di gergo e di parlar corrente periferico. L'operazione e però assai meno riuscita che altrove: mancando
una necessita autentica allo sforzo filologico. mancando una congenialità espressiva tra la materia prescelta e la ricerca formate, il testo risulta impoverito e ingrigito nel vocabolario e nel fraseggio: ne le facili quanto insistenti rime o assonanze o dissonanze pasoliniane sono tali da restituire. se non in modesta misura. la ricchezza e lo splendore verbale di Plauto, il magistero ritmico e timbrico del suo eloquio. dove la violenza plebea e sorvegliata sempre da una raffinatissima cultura. Il romanesco maccheronico e annacquato del Vantone, a dirla tutta, non richiama alla mente ne Pascarella ne Trilussa (lasciamo perdere Belli), ma semmai il sor Capanna e. peggio, l'approssimativo idioma delle riviste radiofoniche del tipo di Campo de" fiori: condito. naturalmente, di vivaci interiezioni, d'un pittoresco ormai, peraltro, logoro dall'uso.
Da Pasolini, in conclusione, c'era da attendersi qualcosa di maggior peso anche se - è dovere di cronisti sottolinearlo - la prima e per ora unica rappresentazione di ieri sera (II Vantone andrà a Roma e poi a Milano nel prossimo gennaio) ha registrato un successo strepitoso, con grandi risate e lunghissimi applausi all'indirizzo degli interpreti, del regista, dello scenografo e dello stesso
Pasolini. che si trovava, appartalo, in sala. E senza dubbio, Franco Enriquez. nella cornice semplice ma colorita disegnata da Emanuele Luzzati (autore anche dei bei costumi). ha edificato uno spettacolo agile, dl pronto comicità, insaporito ma anche ispessito, a volte, da invenzioni farsesche d'antico conio. E gli attori si sono prodigati festosamente nelle loro parti, non guardando troppo al sottile, ma raggiungendo effetti di sicura presa sulla "platea. 
Da citare fra i primi, ovviamente, oltre alla Moriconi. la quale era pungentissima Acroteleuzio,  Glauco Mauri, che, avendo indossato tre anni or sono i panni di Pirgopolinice, ha vestito stavolta  quelli di Palestrione: Michele Riccardini, nel ruolo che da il titolo alla commedia: Enrico D'Amato, un gustoso Scelledro. Ma efficaci anche Laura Panti (Filocomasio), Carlo De Cristofaro  (Perlplecomeno), Sergio De Stefano (Pleusicle), Armando Spadaro, Renato Campese. Si sono provati tutti (la Moriconi e Mauri individualmente) anche come cantanti, cavandosela con bravura: quantunque l'arrangiatore delle musiche... 


Aggeo Savioli 

l'Unità del 16 novembre 1963


Caro direttore,

scusami questo biglietto «di intervento» in un caso in cui non è simpatico intervenire: parlo della recensione allo spettacolo di Firenze, in cui si è dato il mio Miles gloriosus, dovuta ad Aggeo Savioli. Ma se io non ho diritto d'intervenire direttamente su quello scritto, credo però di aver il diritto di far sentire le mie ragioni davanti ai lettori dell'«Unità»: cioè a quella unica parte della società italiana per cui mi pare valga la pena lottare e operare. Lascio ad Aggeo Savioli la responsabilità delle sue opinioni estetiche, ma non gli lascio il diritto di intervenire politicamente sul senso e il valore di una traduzione. Cosa avrebbe voluto Savioli? Che io manomettessi Plauto per farne, dopo duemila anni, un autore marxista? Si aspettava questo da me, e per questo io lo ho deluso? A me ciò sembra pazzesco. Prima di tutto per il poco rispetto che tale posizione dogmatica implica verso di Lui, Plauto, e poi per il poco rispetto che implica verso il pubblico (cioè, nella fattispecie, verso i lettori dell'«Unità»). No, non si può credere che l'essere marxisti e l'essere impegnati fino al collo in una lotta politica e ideologica possa consentire delle gherminelle tattiche come quella di far passare Plauto per un autore rivoluzionario! Io ho liberamente tradotto Plauto, è vero: ma liberamente in senso stilistico, all'interno dello stile. Non poteva passarmi neanche da lontano per la mente l'idea di operare delle trasformazioni di contenuto. Tutta un'educazione, che vorrei dire puritana, mi
l'Unità del 16 novembre 1963
spingeva a questo. Oltre a tutto: con una traduzione come il mio Vantone il pubblico esce dallo spettacolo munito di un’idea - farsesca, comica, sì, ma esatta - di quella che fu una società funebremente deformata dallo schiavismo. Se io avessi aggiunto dei riferimenti contemporanei a una lotta di classe così come oggi la concepiamo, il pubblico sarebbe uscito, invece, con una idea pamphlettistica e mistificatoria di tale società. Errore filologico e storico insieme! A questo punto devo però aggiungere che, dentro i limiti consentitimi dall'onestà filologica e storica, ho forzato al massimo la materia verso un modo di vedere il mondo che è nostro. Ho forzato sempre, esplicitamente, la «condizione di schiavità» del Miles, fino addirittura a drammatizzarla nel caso di Scelledro e a  renderla crudele nella crudeltà di Palestrione (non sono d'accordo sull'interpretazione festosa e un po' burattinesca data a questo personaggio da Glauco Mauri); ho calcato il più possibile gli unici due o tre accenti di senso di ingiustizia sociale che vagamente affiorano in Plauto (non è colpa mia se anche questi sono stati sorvolati un po' dalla recitazione, ma è colpa di Savioli non averli avvertiti); e, infine, ho reso con tutta l'immediatezza che mi era consentita l'antimilitarismo di Plauto nella sua concezione principale, il Generale (così ho tradotto il Miles); tanto è vero che quando egli chiede che cosa un servo gli auguri, questi gli risponde «vincere sempre vincere», che è un motto che non può essere privo di diretta allusività per gli italiani.

Questo ho voluto chiarire per i lettori dell'«Unità».
Ricevi i più cordiali saluti del tuo

PIER PAOLO PASOLINI


L'Unità 31 ottobre 1976

Questo Vantone fa pena come un Don Chisciotte

L'elaborazione della commedia di Plauto fatta a suo tempo da Pasolini riproposta dal regista Luigi Squamila in un'accentuazione malinconica

Non si ride troppo, con questo Plauto. Parliamo del Miles glortosus, tradotto e adattato come il Vantone da Pier Paolo Pasolini circa tre lustri or sono, su incarico di Gassman. allestito nella stagione '63-"64 da Franco Enriquez e ora riproposto da Luigi Squarzina, in apertura della nuova fase, da lui diretta, del Teatro di Roma.
L'imminenza dell'anniversario della terribile morta di Pasolini può aver gettato un'ombra sull'impresa (non siamo però certi che lo scrittore, il quale si diceva «gaio» in vita, nonostante tutto, avrebbe gradito un cosi mesto omaggio); alla cultura, all'esperienza, alla lucidità di Squarzina dobbiamo comunque il riconoscimento di una sua scelta, discutibile si, ma consapevole.
Pasolini adottò nella propria elaborazione dì Plauto il verso (quel martelliano o alessandrino o doppio settenario che, primeggiante in Francia, in Italia non ha avuto mai molta fortuna) e una lingua composita di romanesco, di dialetto suburbano (l'eloquio, insomma, dei «burini»), di gerghi più recenti e bastardi. Alla prima prova della ribalta, l'impasto lessicale e sintattico a noi non parve specialmente riuscito, nel quadro dell'attività pasoliniana già allora cosi impegnativa, per tale riguardo, sulla pagina e sullo schermo, da Ragazzi di vita a Una vita violenta, ad Accattone. Né ci sembrò che l'autore avesse trovato, nel testo plautino, la cui corposità e plasticità ritenemmo per certi aspetti diminuita, particolari motivi di rispondenza nel presente. Ne segui, anche, una polemichetta, della quale il programma di sala del Teatro di Roma offre adesso uno scorcio breve e unilaterale, perciò quasi incomprensibile.
Ad ogni modo, cogliendo varie affermazioni di Pasolini, Squarzina ha voluto porre in risalto, attraverso il tema della « beffa », quello della condizione servile e della lotta che lo schiavo Palestrione, con abili manovre, conduce per liberare la giovane Filocomasio dalle grinfie del soldato spaccone e sedicente grande amatore Pirgopolinice, affidandola alle mani affettuose dello spasimante Pleusicle, ma soprattutto per sciogliere se stesso dai vincoli della sudditanza. Pirgopolinice cadrà in una doppia trappoleria: lascerà andare Filocomasio e i suoi compagni colmandoli di regali, perché intanto sedotto da una cortigiana, che si dice signora di rango; e, sorpreso con costei, sarà svergognato e punito (non
fino in fondo) come adultero. Cornuto e mazziato, insomma.
Di Palestrione e dei sodali di lui, peraltro, qui si manifesta forse più la sornioneria che la protervia, e così la riflessione prevale sull'azione, la quiete sul moto. I momenti più calibrati e singolari dello spettacolo sono quelli, del resto, in cui si esprime non tanto una solidarietà di classe (Palestrione, anzi, prende bene per i fondelli Sceledro, schiavo dello stesso padrone) quanto una comunanza esistenziale tra gente unita (Palestrione, Pleuslcle, Il ricco scapolo
Pcriplecomeno) da una amicizia che supera le differenze sociali e riceve piuttosto 
alimento dallo stesso atteggiarsi, scettico, a volte burlone e insieme tollerante, verso il mondo.
L'Unità 31 ottobre 1976

Una parte dei costumi e qualche fondale, di stampo ottocentesco, evocando le temperie del «commedione» di Belli, accennano, ma appena appena, una ulteriore prospettiva; l'impianto scenografico di Bruno Garofalo, con i suoi «macchinismi» spudorati e ingenuamente maliziosi, allude però in primo luogo allo avanspettacolo, al « teatro dei poveracci » che dovrebbe fornire, criticamente filtrato, il giusto riscontro al contenuto e alla forma del dramma. All'inizio e alla fine, anzi, vediamo gli interpreti, o almeno il protagonista, nella cornice di squallidi camerini, truccarsi e struccarsi. Ma il
lazzo, lo sberleffo, l'ammiccamento - plateale del varietà, quando ci sono, risultano «citati», introdotti dall'esterno e con notevole freddezza in una rappresentazione che di quel « genere » non possiede il dinamismo, volgare, ma
spiccio; o hanno l'aria d'arrivare di rimbalzo, da altri mediatori che non Pasolini:
Fellini, magari, avvertibile nelle mostruose acconciature che ravvolgono la sgualdrina Acroteleuzio e la sua domestica.
Quanto a Pirgopolinice, che è Mario Scaccia, bardato a mezzo tra un antico romano e un fascista moderno, non senza ascendenze petroliniane, eccolo d'improvviso tramutarsi da carnefice, sia pure parolaio e millantatore, in vittima: quasi un «diverso», anche lui, adescato per tale via e trascinato a forza sull'orlo della più atroce rivalsa a suo danno, la castrazione. La malinconia dominante per buona parte di questo Vantone di Plauto - Pasolini - Squarzina (e che impronta di sé, in larga misura, le musiche di Benedetto Ghiglia. dopo uno sbrigliato avvio) tocca nelle battute conclusive i limiti della tragedia; e tre cupi stornelli romaneschi, ispirati all'inganno e alla morte, offrono un congruo suggello alla vicenda cosi impostata. Quasi quasi siamo spinti a vergognarci di aver sentito (insieme con Plauto, tutto sommato) una qualche soddisfazione nell'assistere allo sputtanamento (scusate, la parola è quella) del militare spocchioso, del generale ammazzatutti; e siamo indotti a percepire, forse, dietro la feroce caricatura dell'eroe della patria (non è escluso che Plauto ce l'avesse con Scipione l'Africano), il triste ma nobile e simpatico profilo d'un Don Chisciotte o d'un Falstaff.
Rimane il fatto che la comicità plautina, e anche pasoliniana, se si tien conto delle componenti picaresche ed epigrammatiche dell'opera del narratore, del poeta, del cineasta, è qui attenuata e intiepidita. E che gli attori, pur selezionati con un certo criterio, non figurano al meglio delle loro possibilità (il già nominato Scaccia, Luisa De Santis. Franca Tamantini), o sono poco utilizzati (Alberto Sorrentino) o inferiori alcompito (Giulio Marchetti, Loredana Solfizi,  Claudio Puglisi) o gravati d'un peso eccessivo (Gianni Bonagura,
che è Palestrione). Ma, trattandosi di una compagnia un po' « arrangiata ». non si poteva pretendere il massimo. E. anzi, qualche prestazione fa spicco, come quella di Toni Ucci, balordo e patetico Sceledro.
L'anteprima del Vantone, all'Argentina, ha registrato risate in parco numero, ma applausi nutriti.
Aggeo Savioli


L'Unità  28 dicembre 1963

L'Unità  28 dicembre 1963
L'Unità  28 dicembre 1963

L'Unità  28 dicembre 1963

[...]

PERIPLECOMENO
Portatemelo qua: si nun ce sta, alzatelo
de peso, come un baccalà. E castratelo.

PIRGOPOLINICE
(trascinato dai servi)
Periplecò, te supplico!

PERIPLECOMENO
Supplica 'sto cavolo!
Cariò, guarda se taja er tu' coltello, bravo!

CARIONE
Taja? Ma sta a smanià, de tajà 'sto par de palle,
mannaggia troja: ar collo, noi volemo attaccalle
a 'sto zozzone, come er ciuccio ai ragazzini!

PIRGOPOLINICE
No! Se tu me taj le palle m'arovini!

PERIPLECOMENO
Un momento: contrordine!

CARIONE
Mo' nun devo tajà?

PERIPLECOMENO
No, prima me ficca da fallo un po' frustà.

CARIONE

Allora forza!

[...]


(Tratto dal Vantone di Pasolini, V° atto)



Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini - Dal Vero, 1952 ( L'Unità, narratori di ieri e di oggi ).

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



"Dal vero" (1953-54) apparve su L'Unità del 15 luglio 1952, privo del collage dantesco che lo precedeva

[...]

E quella fronte c'ha 'l pel così nero
… … … …; e quell'altro ch'è biondo...
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt'i suoi seguaci,
che l'anima col corpo morto fanno.
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: « Lano, sì non furo accorte
le gambe tue alle giostre del Toppo! »
Luogo è in Inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno...
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti...
come che suoni la sconcia novella,
I' m'accostai con tutta la persona
lungo 'I mio duca, e non torceva li occhi
dalla sembianza lor ch'era non bona.
… e vidivi dentro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenze né sì ree
mostrò già mai con tutta l'Etiopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Al fine delle sua parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche...
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava...
… mentre che la speranza ha fior del verde.


Collage da Dante
( Pier Paolo Pasolini - da Ali con gli occhi azzurri ).


[...]

ma arricchito di un ultimo paragrafo ("La sera scendeva su San Lorenzo..."). Verrà pubblicato da Garzanti nel 1965 all'interno del volume miscellaneo "Alì dagli occhi azzurri". Ora in: Tutte le Opere > "Romanzi e racconti, vol. 2, 1962-1975", Meridiani Mondadori 1998, pp. 437-445.

Daniele Cenci
  
Pier Paolo Pasolini - Dal Vero, 1952 
( Narratori di ieri e di oggi ).
L'Unita / domenica 15 luglio 1962

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)


La gran facciata del Penitenziario si staccò e cominciò lentamente a spostarsi indietro. Gialla, nuda, giganteggiava, retrocedendo, tra i muraglioni, gialli, nudi anch'essi, in fondo a cui cominciò ad emergere l'altra ala, come un enorme parallelepipedo. Man mano che quei due edifici, bucherellati da centinaia di finestre, restavano indietro, si isolavano sempre più contro il cielo lattiginoso, e contro l'agro li intorno spelacchiato: senza un albero per quanto potesse spaziare lo sguardo.

A destra comparve e restò subito indietro, ruotando, la garitta vuota e scrostata come una latrina: col gesto di due carabinieri sbragati sulla polvere, il fucile tra le gambe, e sopra rulla breve ascesa, anch'essa ruotante, un quadro ronzante di vita popolare, con ragazzini, stracci, cani: che sparirono tra le case da arabi, a un piano e di calce.

II Penitenziario continuò a rimpicciolire, giallognolo, e dopo che furono passati radendo gli argini impolverati, comparve di faccia, sulla gran depressione dell'Aniene, un vasto digradare di prati formicolanti, come cimiteri, di fiori , un cavallo marrone col lunghissimo collo teso su quei fiori, e, in fondo, spalmata.su tutto l'orizzonte, quant'era lunga, Roma.

Su quella visione di Roma, o piuttosto dei quartieri tiburtini, da Monte Sacro, Pietralata, giù giù fino a Tor de' Schiavi, il Prenestino, Centocelle,. con miriadi di case come scatole di scarpe, e baracche, e torracce, l'autobus si inchiodò. . .

« A fattori, — disse Claudio, il liberante — che ce 'o fai er bijetto? »

« Come, no », fece il fattorino>>.

« Vedemo un po' qqua, a quanto ce 'o metti? »

« Famo venti lire, va »

« Che te va de scherzà? E quanno 'e rimedio io, venti lire? »

« Aòh, a me me 'o venghi a ddi? »
« A me nun me va de pagà! »

« Fa un pò come te pare, a morè, dopo sò affari tua, dopo ».

« E paga, dàje, a Cla' » fece allora Sergio il compare del liberante.

« E famme contrattà un pochetto, no? — fece Claudio — Mbè, famo na tredicina de lire, a fattori? »

« Ammappete, fijo bello, te 'a passi male, si nun me sbajo! » zagaiò il fattorino.

Sergio si stufò: « Auffa, già me so stufato, ssa, a Clà. Caccia ste quaranta lire, namo ».

<< Ahio, quant'è cattivo questo — disse il fattorino —. Che, le ha lassate a casa 'e pistole, a pischè? »

« Stamo aggravati, fattori — confessò Claudio —. Questo e dù anni che nun lavora, e io sorto adesso de bottega!»

Dato ch'era appena sortito de bottega, Claudio era tutto felice, e si stava godendo le prime dolcezze delIa vita in libertà, tanto che avrebbe preso di petto alla malandrina pure un sasso, per mettersi a chiacchierare, se non avesse incontrato un fattorino della ATAC o qualche altro dritto. Cacciò magnanimo dalla saccoccia le quaranta lire, prese i biglietti, e si spinse con l'aria d'un bocchissiere un po' groncio tra i sedili, seguito pigramente da Sergio, che si guardava stanco intorno con la sua faccia di maomettano.

 « Sbragàmise qqua, a Sè » fece  Claudio.

« Sbragamise qqua » fece Sergio.

Dal fondo dell'autobus il fattorino si  Intromise: « Tutta festa oggi, eh? ».

« Come, no » ammise Claudio.

« Quale festa, quale festa, ma si nun  pagamo manco li ciechi! » disse Sergio,  con I'occhio perso.

« E lèvate, a Sè » — ribattè il compare  — « che tu dichi cosi perchè nun ce se stato llà ddentro! Ma mmejo n'anno  ssenza na lira e magnà da li frati,  stacce, che un ciorno ssolo llà dentro...».

« E' regolare » concluse il filosofo  laggiù, col berrettino pargulo sugli occhi,  contando gli spiccioli.


Tutt'a un botto Claudio e Sergio zomparono in piedi, e gettandosi sui vetri della cabina del conducente, cominciarono a picchiarvi con le nocche.

II conducente che con la matita sullo orecchio stava consultando alteramente il listino degli orari, e facendo a mente i suoi calcoli, voltò di sguincio la faccia gialla e nera, e fissò con freddezza quei due sciammannati. Ma essi eran troppo di buon umore per capire che tra la gente libera ci fosse qualcuno che non gliene importasse un cavolo della libertà e anzi c'avesse li nervi. Senza badare all'espressione scura del conducente, gli fecero allegramente cenno di partire, di mettere in moto l'autobus, di accendere il motore, sfoderando tutti i' numeri della loro mimica sanlorenzina.

II conducente, dietro i vetri come un'immagine sacra sotto la campana, li riguardò ancora un poco: poi alzò di scatto l'avambraccio fino a. portare la mano con le dita serrate all'altezza della bocca e del naso, e agitandola quivi con un gesto secco e insolente d'interrogazione.

Neanche al gran gesto napoletano della dritteria nazionale, i due pivelli s'arresero.


 
Claudio grido: « Dàje, a conducè, fai finta che metti in moto er motore».

« E daje, che te possino ammaitte! » insistette Sergio.

E il fattorino, dal fondo dell'auto: « See, quello ve manna ormi tutt'è ddue! »


Che succedeva? Tre ragazze, vestite dei più accesi colori che si possano stampare, negli abiti in vendita, bell'e fatti, alle bancherelle di Piazza Vittorio, stavano correndo su dalla strada del Penitenziario, tutte affannate per tema di perdere l'autobus, con le facce rosse come cocomeri.
Visto che il conducente non gli dava retta, i due misero testa, spalle e braccia fuori dal finestrino, guardando tutto quel ben di Dio che veniva avanti ballonzolando sotto il sole dolce come l'olio.



« Forza, a morette, — si accorò Claudio — dàje che mò I'auto parte! »

E Sergio: « Ammappele, quanto corono, dàje che famo la bella! »

II fattorino invece si mise a cantare:
lo stongo carcerato e mamma more... 
Vojo mori pur io prima 'e sta sera, 
oi carceriere mio, oi carceriere...

« A fattori — gridò Claudio — che te va de sfotte?...

« lo stongo carcerato .. » ricominciò il fattorino. « E arioccace! »

Le tre ragazze salirono, scottanti e sospirose dentro l'autobus, tutte felici d'averlo preso. Si guardavano e ridevano: poi un pò alla volta gli passo l'affanno e il prurito del riso, e andarono a mettersi a sedere sui sedili sgangherati, facendosi aria con le mani.

Claudio e Sergio andarono a mettersi seduti appresso a loro, e cominciarono a darsi ai madrigali; e non si sarebbe potuto dargli torto, se, con il gran poeta di Roma, si sarebbe potuto dir delle pischelle:

Uh, bene mio, che brodo de pollanche
Je metterebbe addosso un par de
branche
da nun faje resta manco la pelle.

Ma Ilautobus fece davvero la bella, si scrollò tutt'a un botto, ebbe un rumore di ferrivecchi in contrasto con la aria ufficiale del suo conducente: e si lanciò, radendo le grandi praterie con frane di papaveri e margherite, giù per la strada di Casale dei Pazzi.

Volarono a destra e a sinistra i pezzi di agro pinguemente nutriti dall'Aniene, scuri e caldi, ronzanti al sole; volarono le casette costruite a metà e già abitate, volarono le villette e i vecchi casali...

« A Sè, — fece Claudio — dimme un pò, come se comporta la Inesse? »

« Che, me lo domandi, a Clà — nspose Sergio — Er zolito, che si la vedo me vie voja da daje na pignate in faccia... ».

« Mo' con chi se la fa? »

<< Cor Palletta, lla ».

<< Chi Palletta? >>

« Er fijo de sora Anita, lla, quella che c'ha er banco a Piazza Vittorio .. Quer roscietto, un po' fusto, che te posso ddi... ».

« Ah, ho ccapito... Be, con quer brutto li s'e messa? »

« Che voi fa? Ma mò cambia... »

« Che, stacca ancora tutte 'e sere a 'e sei? »

« Come no? »

« Stassera 'a vado a trova .. »

<< Me fai rabbia, me fai. Ma che c'ha che te sfagiola tanto, me 'o voi ddi? >>

« Aoh, me sfagiola ».

Claudio si mise a pensare con che faccia beata all'incontro di quella sera con la Ines, e se non era lei, qualche altra ragazza di San Lorenzo, di quelle che conosceva da pischello, che era uguale. Si sbragò meglio sul sedile, e, come se stesse solo, si mise a cantare...

lo stongo carcerato e mamma more
— voj mori pur io prima 'e sta sera
— oi carceriere mio, oi carceriere,..

Teneva la testa ritratta fra lo spalle, le corde del collo gli si erano tirate, e le narici gli si aprivano e gli si chiudevano sulla bocca che mostrava la sua intera dentiera di cavallo: e scuoteva leggermente il capo, come per secernere meglio la passione che ci metteva a cantare.

Alia fermata di Ponte Mammolo l'autobus si riempi di gente. Poi imbocco la Tiburtina, passò sopra l'Aniene, e punto dritto verso Roma.

Presso i due malandrini s'era venuto a mettere all'impiedi, leggendo superbamente il Corriere dello Sport, un giovanotto pettinato alla Rudi, con le scarpe bianche di quelle bucherellate, un vestito a righe bianche e nere e la argentina gialla. Claudio lo smicciò per un pezzo senza farsi capire, guardando le novità che andavano di moda quell'estate. Poi, dopo aver ben bene allumato, si nascose e diede una gomitata a Sergio, che se ne stava, canticchiante, sui sedile, col fazzoletto annodato alia malandrina, e la faccia negra e lucente, come ce l'aveva dipinto Caravaggio.

« A Sè, — fece Claudio — me vojo fà una de quelle camice a buchi che vanno de moda st'anno, e un paro de scarpine bianche llà... »

« Ammappete, voi fa proprio I'acchittone, voi fa, beato tte! »

« Quale beato, quale beato, see... Tengo na fame addietrata... ».

Si morse le nocche delle dita, facendo « mmh », gettò uno sguardo affamato alle « rose de fuego » che gli stavano accanto, e l'occhio guardandole gli si punto fuori dal finestrino...

« Te ricordi, a Sè? » si accorò.

« De che? »

«Qqua, quanno ch'eramio regazzini...».

« Mbè?».

« Che ce stava er circo, giu a Pietralata... che noi eramio scappati de casa...».

Si era parato davanti, dalla sinistra, tra montarozzi e spianate, il Forte di Pietralata, brulicante davanti dei fez rossi dei bersaglieri, con una tromba in mezzo al cortile che suonava il rancio.

Sergio e Claudio, piccoletti, scappati di casa, se n'erano venuti da quelle parti, come magnanimante ricordava Claudio, e se n'erano stati un par di settimane, digiunando o magnando qualche cipolla o qualche persica grattata ai mercatini, oppure un pò di cotiche fregate dalla borsa di qualche commare... Se n'erano iti di casa cosi, perchè gli piaceva di divertirsi... Dai bersaglieri rimediavano da fumare...

Poi trovarono da dormire sotto la tenda di un cocomeraro, sopra i cocomeri, il cocomeraro aveva un maiale, dalle parti di Bagni di Tivoli, e visto che facevano buona guardia ai cocomeri, li mandò a sorvegliare il maiale: anzi, il maiale e un coniglio... Che tremarella la notte nella campagna disabitata, dentro la capanna... Dormivano con una mazza sotto la testa... Una mattina la madre del cocomeraro era venuta li, li aveva mandati a Bagni a comprare del pane, e intanto, approfittando che non c'erano s'era pappata il coniglio...

Trovarono gli ossicini interrati davanti alia baracca...

A Pietralata, che il cocomeraro li aveva cacciati via a causa del coniglio, avevano lavorato in un circo... coi leoni .. litigando coi maschietti concorrenti della borgata .. Una sera era scappata Rondella, la cavalla maremmana, e via per prati e mucchi di immondezza, lungo le rive dell'Aniene...

L'autobus arrivò in fondo alla Tiburtina, passò sopra il cavalcavia tra fischi di treni, e andò a ormeggiare, nella gran caciara, al capolinea del Portonaccio. Bianchicci, nel gran biancore del giorno, brillavano i lumini del Verano. L'11 era pronto. Claudio e Sergio zomparono giù dall'auto, tagliarono gridando e ridendo tra la ressa, balzarono sul tram già in corsa, e restarono attaccati al predellino, sempre più schiamazzanti, mentre la vecchia vettura risaliva sferragliando il lungo viale che rasente i muraglioni del cimitero portava a San Lorenzo.

Tutti smandrappati, con l'aria del quartiere che gli scapigliava la chioma, appesi in fondo al grappolo che si accalcava al predellino, volavano verso casa. Ammazza, quant'è bella la vita, mica pei micchi, ma per quelli che le soddisfazioni sanno prendersele... come loro due... Mentre alzavano moina Claudio pensava a se stesso con la camicia a buchi e le scarpine bianche, all'Ambra Jovinelli o nella rotonda di Ostia, con la Inesse o qualche altra ragazza che gli veniva dietro: a completare il quadro della sua bellezza...

Intanto, sotto i muraglioni del Verano, passava nella luce invetrita, qualche coppia, un vecchio, o un garzone in piedi sul sellino spingeva allaccato il suo triciclo su per la salita... E loro due, la mano a imbuto contro la bocca, li sfottevano...

« A nannaccio, nannaccio, a pampuzzzo... ».

« Fra dù anni sei bona pure subito! ».

« A dondolina... ».

«Nun je dà retta, e dopo dò che so' stato io... ».

« Se seguiti cosi quando lo pij marito?... ».


« Che, stai a sputa li pormoni, a pische? ».


« Daje, che mò arivi... ».


« See, quanno affitta quello... ».


Intanto ecco venire avanti le prime case brune di San Lorenzo, le prime strade rossicce, ecco profilarsi in fondo e ingrandirsi sempre più, biancheggiando, l'arco di Santa Bibiana, e poi il vecchio giardinetto in mezzo al quale sfilavano, gesticolanti, le più allegre compagnie della ragazzaglia sanlorenzina, acchittata per la sera, le panchine e le aiuole col verde delle vecchie estati.

La sera scendeva su San Lorenzo come un temporale: per le strade geometriche intorno alla piazza dei giardini, si sentivano le saracinesche abbassarsi con schianti improvvisi; ombre di ragazzi correvano con le bottiglie del latte, e i garzoni lanciavano a tutta forza i loro tricicli in mezzo alla confusione di gente che rincasava svelta come se, appunto, fuggisse un improvviso scroscio di pioggia.

L'aria era più sporca, torbida, che buia, i fanali di una macchina, già accesi, aspri, bruciavano a una curva, sull'asfalto ancora chiaro e diurno: pareva che un vento carico di odori e di umidità sbattesse le finestre, le porte a vetri, agitasse gli alberelli morti dei giardinetti, e mettesse in allarme tutto il rione: invece era la calmissima ora della cena che stava scendendo.

Pier Paolo Pasolini
 L'Unita / domenica 15 luglio 1962



Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini voto PCI per contribuire a salvare il futuro.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Pasolini voto PCI per contribuire a salvare il futuro.
Intervista quasi inedita rilasciata a
Paolo Spriano
L'Unità / sabato 20 aprile 1963

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

Sono note le passioni e la sincerità con cui esprime le sue opinioni sui problemi politici, non meno che su quelli sociali, estetici, culturali. per questo la nostra conversazione comincia e si sviluppa con domande e risposte in cui l'accento personale e particolarmente presente.



D. — Tu esprimesti, pubblicamente, in prosa e in versi la tua simpatia per  l'esperimento di centro sinistra quando esso si attuò. Oggi a più di un anno di distanza, il tuo parere è mutato? 






R. - lo sono stato uno di quelli che hanno accolto con un certo favore il centro-sinistra. Ricordo che due anni fa ho pubblicato sull'Avanti! una poesia a Nenni, con gli auguri di  buon lavoro. Ho dovuto molto ricredermi. Intendiamoci, continuo a seguire Nenni con la simpatia e anche la trepidazione con cui si segue un uomo che si e messo in una situazione difficile, contraddittoria e « scandalizzante ». D'altra parte, il problema non rigorosamente politico, ma, direi, sentimentale, che il centro-sinistra suscita è uno di quel problemi che si risolvono in  sede di buon senso, e quindi non si risolvono. Cioè: è preferibile un governo di centro, o di centro-destra, oppure un governo di centro-sinistra? Il buon senso è li, inappuntabile, a dire che il secondo corno è da preferirsi. Bene. MA il meno peggio ha fatto capire, come sempre, quanto il meglio sia diverso. Per quel che mi riguarda personalmente — la mia vita, il mio lavoro - questi del centro-sinistra sono stati gli anni più brutti.  Ma la situazione di capro espiatorio non e certo la migliore per giudicare serenamente le cose. Me l'ha spiegato l'altro giorno un ragazzo di sedici anni in una riunione all'associazione « Nuova Resistenza »: la destra, imbestialita da una prospettiva più democratica di governo, si accanisce con più rabbia,  là dove può, coi suoi avversari classici: per esempio gli intellettuali. Prendiamo atto di quello che anche un ragazzo di sedici anni capisce. (Ma intanto questo può restare anche il lato buono della cosa; la scissione aperta, scoperta, messa a nudo tra governo e stato. E' la prima volta che questo succede in Italia. La burncrazia, la magistratura, il Corriere della Sera, la televisione, non la pensano come gli uomini al governo: sono rimasti nelle tenebre e nell'odio delle destre. Benissimo. non è una chiarificazione? E non è una fenditura che serpeggia anche nel gran corpo della Democrazia Cristiana?). 


D. — Deduci  da queste considerazioni una scelta elettorale precisa?








R. - Anche quest'anno come sempre, voto comunista. Lo sai bene, il  voto è un fatto estremamente privato, delicatamente privato, addirittura patologicamente privato. Bene, la mia vita privata e tormentata dal suo contrario: dall'ufficialità, che, letteralmente, non vuole ammettere la mia esistenza.E mi destina a uno stato — che rischia di diventare ridicolo — di perseguitato. Perciò devo confessarti che anche quel tanto di «ufficiale» che c'è nel partito comunista, non mi piace. Fatti miei, certo. Un Partito che si considera, a diritto, maturo per prendere il potere e governare, non può non essere, in qualche modo «ufficiale». Per me, ufficialità è esattamente il contrario della razionalità. Ciononostante voto per il PCI  senza il minimo dubbio, o la minima incertezza interiore. Perchè so che la razionalità del marxismo è più forte di qualsiasi contingenza anche sgradevole, di qualsiasi situazione particolare che regoli i rapporti tra i comunisti di estrazione o formazione borghese.


D. — Si fa un n discutere del miracolo economico, del « benessere >, di quanto siano mutate le condizioni di vita delle masse popolari in questi ultimi anni. Qual è il tuo parere in proposito? 






R. — E' vero, come dice Moravia, in una società c'è quello che si pensa che ci sia. Ma il primo dovere di uno scrittore e quello di non temere l'impopolarità. lo rischio di rimanere un romanziere degli Anni Cinquanta se insisto a dire che nella nostra società c'è quello che c'è: ossia che c'è quello che c'era dieci anni fa. Il benessere e una faccenda privata della borghesia milanese e torinese. lo so che a livello popolare nulla e mutato. Anzi, come le disperate Cassandre vanno da tempo ripetendo, le cose sono peggiorate. Il Meridione ha l'aria spaventata di una colonia, coi suoi coprifuochi, i suoi deserti e i suoi silenzi. A Roma tuguri, disoccupazione, caos, bruttezza, centinaia di migliaia di persone che vivono con cinquantamila lire al mese. lo, coi miei occhi, verifico ogni giorno che; Tiburtino, il Quarticciolo, Primavalle e mille altri quartieri sono gli stessi di dieci anni fa, la gente vive allo stesco modo di dieci anni fa. Anzi, se il mio diritto di cittadino che protesta include anche la suscettibilità estetica, tutto e peggio che dieci anni fa, perchè almeno, dieci anni fa, intorno alle borgate e ai villaggi di tuguri c'erano i prati: oggi c'è qualcosa di indicibile, il puro orrore edilizio, qualcosa che condanna chi vi abita alla contemplazione dell'inferno. Perciò rischio tranquillamente l'impopolarità; e affermo in piena coscienza che non c'è ciò che tutti pensano che ci sia, e con ciò lo fanno essere: potrei scrivere altri dieci romanzi, o girare altri dieci film su un mondo che il razzismo borghese non vuole conoscere e che è in realtà espressivamente inesauribile, perchè non sono i quattro soldi del boom » nordico che potranno mutarlo. Mai come in questo momento in cui il fascino del qualunquismo neo capitalistico — efficienza, illuminismo culturale, gioia di vivere, astrattismo e motels — agisce soprattutto negli animi dei semplici, che si illudono di cambiare la propria vita imitando come possono la vita volgarizzata dai privilegiati, o addirittura accontentandosi di averne coscienza, la rivoluzione della struttura appare necessaria. lo credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda «Nuova Preistoria» sara la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industralizzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia...
Ma mi interrompo, perchè questi, cosi, sono discorsi da dilettante, e si giustificherebbero solo... se in versi... 


D. — Non ne hai forse parlato nelle tue poesie più recenti? 









R. — Si, i miei versi di questi due anni parlano di questi problemi. L'addio dell'uomo alle campagne...  alla civiltà classica... alla religione. Si intitolano — dato l'ingorgo  irrazionalistico — « Poesie in forma di rosa », ma potrebbero logicamente intitolarsi « La Nuova Preistoria ». La lotta operaia mi appare non solo come una lotta ideale per il futuro dell'uomo, ma anche come una lotta necessaria e terribilmente urgente per salvare il suo passato... 


D. — L'umanità è soprattutto preoccupata per il pericolo di una guerra catastrofica. Ti pare che l'orizzonte permanga sempre cosi oscuro da giustificare appieno queste ansie?







R. — Ho una grande tenerezza per Giovanni XXIII, una grande ammirazione per Krusciov, e una certa simpatia per Kennedy. Mentre ho un profondo disprezzo per la borghesia: un disprezzo pratico e ideologico, che mi fa vedere il nostro avvenire molto oscuro.  Casi da museo teratologico come quello di Hitler, le nostre  borghesie sono capaci in ogni momento, in ogni circostanza, di produrne; perchè sono mostruose esse  stesse, per aridità, cinismo, ignoranza, qualunquismo, ferocia, miopia. Al vertice, l'orizzonte è abbastanza sereno. Ma al livello medio del capitalismo — o del neocapitalismo — la guerra è un fatto che può sempre accadere. E' per questo, che, inconsciamente — malgrado la sua assurdità — continuiamo a temerla. Il sentimento dei privilegi di classe, che, sul piano pratico e terribilmente razionale, sul piano ideologico e sotto il dominio dell'irrazionalità. Perciò non vedo che garanzie possano dare  le nostre classi dominanti per la pace. Esse, comunque, tendono a modellare l'uomo secondo la loro forma interna: la mostruosità, come meccanicità, assenza dell'umano. Facciamo scoppiare le atomiche o giungano alla completa industrializzazione del mondo, il risultato sara lo stesso: una guerra in cui l'uomo sarà sconfitto e forse perduto per sempre. 


D. — I riferimenti dibattiti culturali in URSS e  alle posizioni che  ivi sono prevalse — e su cui noi abbiamo espresso il nostro parere e precisato i nostri punti di dissenso — sono ormai diventati un tema obbligato, spesso per cavarne della propaganda anticomunista, in questa campagna elettorale. Ci dici che ne pensi, e su quelle questioni e sull'eco che se n'è avuto qua?




R. — Si, disapprovo il discorso di  Krusciov sulle questioni letterarie e artistiche. Chi non lo disapprova? Ne deduco che, come critico o ideologo letterario, Krusciov, che e un grandissimo uomo politico, non vale molto. Del resto, invidio Evtuscenko. Te l'immagini un'Italia in cui il capo del governo facesse un discorso di cinquanta pagine su un poeta o su una questione di ideologia letteraria?  Te l'immagini un'Italia in cui l'immenso pubblico che si interessa delle sciocchezze della televisione, si interessasse invece dei problemi della poesia? La dura realtà è invece che in Italia i leaders dei partiti al governo perderebbero migliaia o centinaia di migliaia di voti, se parlassero di letteratura; la dura realtà e che in Italia i capi del governo, se si interessano di problemi estetici, è per inaugurare le iniziative culturalmente di quart'ordine o le onoranze a valori giubilati o accademici; la dura realtà è che in Italia la classe dirigente si difende contro gli intellettuali e i poeti mettendoli brutalmente al bando o mandandoli in prigione. 
Certo che, malgrado il discorso di Krusciov, voto comunista! Perchè so che Stalin e ormai un'ombra: e il capo di un governo che discute, anche a torto, di poesia, mi è estremamente simpatico. 
Paolo Spriano

(L'Unità / sabato 20 aprile 1963)

Pasolini con  Paolo Spriano ad un convegno alla libreria Eianudi - @Mediateca Roma




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi