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giovedì 31 dicembre 2020

Pasolini, Perchè il Processo - 28 settembre 1975.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Perché il Processo

Il 28 settembre 1975, Pasolini sempre dalle pagine del Corriere, risponde ad un articolo di fondo apparso sul quotidiano La Stampa il 14 settembre 1975 
 il Processo: e poi? 


* * *

   Cari colleghi della «Stampa», «il Processo» avete scritto in un fondo del 14 settembre «e poi?». Bene, se i prossimi dieci anni della nostra vita contano (sono, cioè storia) poi si sarà saputo qualcosa. Se invece quelli che contano sono i prossimi diecimila anni (cioè la vita del mondo), poi tutto è pleonastico e vano.
     Io, per me, tendo a dare infinitamente maggiore importanza ai prossimi diecimila anni che ai prossimi dieci: e, se mi interesso ai prossimi dieci, è per pura filosofia della virtù. 
     Che cosa è necessario sapere, o meglio, che cosa i cittadini italiani vogliono sapere, affinché i prossimi dieci anni della loro vita non siano loro sottratti (come è stato per gli ultimi dieci )? 
     Ripeterò ancora una volta la litania magari a costo di fare, a dispetto della virtù, del mero esercizio accademico. 
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di  cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la «massa», dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata.
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l’unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente).
     I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai «cultura» è stata più accentatrice che la «cultura» di questi dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso.
         Ho detto e ripetuto la parola «perché»: gli italiani non vogliono infatti consapevolmente sapere che questi fenomeni oggettivamente esistono, e quali siano gli eventuali rimedi: ma vogliono sapere, appunto, e prima di tutto, perché esistono. 
     Voi dite, cari colleghi della «Stampa», che a far sapere tutte queste cose agli italiani provvede il gioco democratico, ossia le critiche che i partiti si muovono a vicenda - anche violentemente - e, in specie, le critiche che tutti i partiti muovono alla Democrazia cristiana. No. Non è così. E proprio per la ragione che voi stessi (contraddicendovi) sostenete: e cioè per la ragione che, ognuno in diversa misura e in diverso modo, tutti gli uomini politici e tutti i partiti condividono con la Democrazia cristiana cecità e responsabilità. 
     Dunque, prima di tutto, gli altri partiti non possono muovere critiche oggettive e convincenti alla Democrazia cristiana, dal momento che anch’essi non hanno capito certi problemi o, peggio ancora, anch’essi hanno condiviso certe decisioni.
     Inoltre su tutta la vita democratica italiana incombe il sospetto di omertà da una parte e di ignoranza dall’altra, per cui nasce - quasi da se stesso - un naturale patto col potere: una tacita diplomazia del silenzio.
     Un elenco, anche sommario, ma, per quanto é possibile, completo e ragionato, dei fenomeni, cioè delle colpe, non è mai stato fatto. Forse la cosa è considerata insostenibile. 
     Perché, ai capi di imputazione che ho qui sopra elencato, c’è molto altro da aggiungere - sempre a proposito di ciò che gli italiani vogliono consapevolmente sapere. 
    Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti.
     Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della «strategia della tensione» (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente).
       Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda.
    Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna. 
     Ma gli italiani - e questo è il nodo della questione - vogliono sapere tutte queste cose insieme: e insieme agli altri potenziali reati col cui elenco ho esordito. Fin che non si sapranno tutte queste cose insieme - e la logica che le connette e le lega in un tutto unico non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti - la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova coscienza. Cioè l’Italia non potrà essere governata. 
     Il Processo Penale di cui parlo ha (nella mia fantasia di moralista) la figura, il senso e il valore di una Sintesi. La cacciata e il processo (istruito - dicevo - se non celebrato) di Nixon dovrebbe pur voler dire qualcosa per voi, che credete in questo gioco democratico. Se contro Nixon in America si fosse svolto un gioco democratico, quale sembra esser da voi concepito, Nixon sarebbe ancora lì, e l’America non saprebbe di sé ciò che sa: o almeno non avrebbe avuto la conferma, sia pur formale (ed è importante) della bontà di ciò che essa reputa buono: la propria democrazia. 
     Ma se (come mi pare evidente, con immedicabile mortificazione) l’opinione pubblica italiana - che anche voi rappresentate - non vuole sapere - o si accontenta di sospettare -, il gioco democratico non è formale: è falso.
    Inoltre se la consapevole volontà di sapere dei cittadini italiani non ha la forza di costringere il potere ad autocriticarsi e a smascherarsi - se non altro secondo il modello americano -, ciò significa che il nostro è un ben povero paese: anzi, diciamo pure, un paese miserabile. 

    Ci sono inoltre delle cose (e a questo punto continuo, più che mai, nel puro spirito della Stoà) che i cittadini italiani vogliono sapere, pur senza aver formulato con la sufficiente chiarezza, io credo, la loro volontà di sapere: fatto che si verifica là dove il gioco democratico, appunto, è falso; dove tutti giocano con il potere; e dove la cecità dei politici è ormai ben assodata. 
    Gli italiani vogliono dunque sapere ancora cos’è con precisione la «condizione» umana - politica e sociale - in cui sono stati e sono costretti a vivere quasi come da un cataclisma naturale: prima, dalle illusioni nefaste e degradanti del benessere e poi dalle illusioni frustranti, no, non del ritorno della povertà, ma del rientro del benessere.
    Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, che limiti ha, che futuro prevede, la «nuova cultura» - in senso antropologico - in cui essi vivono come in sogno: una cultura livellatrice, degradante, volgare (specie nell’ultima generazione).
     Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, e come si definisce veramente, il «nuovo tipo di potere» da cui tale cultura si è prodotta: visto che il potere clerico-fascista è tramontato, e ormai esso ad altro non costringe che a «lotte ritardate» (la condanna a morte degli antifranchisti, i rapporti tra la vecchia e la nuova generazione mafiosa nel Mezzogiorno ecc.).
     Gli italiani vogliono ancora sapere, soprattutto, che cos’è e come si definisce il «nuovo modo di produzione» (da cui sono nati quel «nuovo potere» e, quindi, quella «nuova cultura»): se per caso tale «nuovo modo di produzione» - introducendo una nuova qualità di merce e perciò una nuova qualità di umanità - non produca, per la prima volta nella storia, «rapporti sociali immodificabili»: ossia sottratti e negati, una volta per sempre, a ogni possibile forma di “alterità”.
    Senza sapere che cosa siano questo «nuovo modo di produzione», questo “nuovo potere” e questa «nuova cultura», non si può governare: non si possono prendere decisioni politiche (se non quelle che servono a tirare avanti fino al giorno dopo, come fa Moro).
     I potenti democristiani che ci hanno governato in questi ultimi dieci anni, non hanno saputo neanche porsi il problema di tale «nuovo modo di produzione», di tale «nuovo potere» e di tale «nuova cultura», se non nei meandri del loro Palazzo di pazzi: e continuando a credere di servire il potere istituito clerico-fascista. Ciò li ha portati ai tragici scompensi che hanno ridotto il nostro paese in quello stato, che più volte ho paragonato alle macerie del 1945. 
     È questo il vero reato politico di cui i potenti democristiani si sono resi colpevoli: e per cui meriterebbero di essere trascinati in un’aula di tribunale e processati. 
     Non dico, con questo, che anche altri uomini politici non si siano posti i problemi che non si son posti i sacrestani al potere, o che, come loro, non abbiano saputo risolverli. Anche i comunisti hanno per esempio confuso il tenore di vita dell’operaio con la sua vita, e lo sviluppo col progresso. Ma i comunisti hanno compiuto - se hanno compiuto - degli errori teorici. Essi non erano al governo, non detenevano il potere. Essi non derubavano gli italiani. Sono coloro che si sono assunti delle responsabilità che devono pagare, cari colleghi della «Stampa», che, sono certo, siete perfettamente d’accordo con me... 
     Un’ultima osservazione che mi sembra, del resto, capitale. 
     L’inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone...), l’inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti... Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui parlo io. Dunque, al centro e al fondo di tutto, c’é il problema della Magistratura e delle sue scelte politiche. 
     Ma, mentre contro gli uomini politici, tutti noi, cari colleghi della «Stampa», abbiamo coraggio di parlare, perché in fondo gli uomini politici sono cinici, disponibili, pazienti, furbi, grandi incassatori, e conoscono un sia pur provinciale e grossolano fair play, a proposito dei Magistrati tutti stiamo zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché? Ecco l’ultima atrocità da dire: perché abbiamo paura. 
Pier Paolo Pasolini, «Corriere della Sera», 28 settembre 1975 

Fonte:
http://evelinasantangelo.it/interne/rif.php?la=1&st=&id=266&SID


Curatore, Bruno Esposito

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La Stampa risponde a Pasolini - Il processo: e poi? - domenica 14 settembre 1975

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



La Stampa risponde a Pasolini
Il processo: e poi? 
Pasolini la Dc, il Pci e gli altri
La Stampa domenica 14 settembre 1975 
Anno 109 - Numero 212

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

In un articolo di fondo il quotidiano La Stampa risponde al "Processo ai gerarchi DC", immaginato da Pier Paolo Pasolini e provocatoriamente invocato attraverso due articoli pubblicati rispettivamente su Corriere e Il Mondo, il 24 agosto e il 28 agosto 1975.
A quest'articolo Pasolini, sempre dalle pagine del Corriere, risponde il 28 settembre 1975 affermando che “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” in un articolo titolato Perchè il processo.

*


Di seguito l'articolo di del quotidiano La Stampa pubblicato domenica 14 settembre 1975: 

Pier Paolo Pasolini, riflettendo deluso, da un suo ritiro, sull'Italia d'oggi che è diversa da quella della sua giovinezza, ma che non solo per questo non gli piace più, ha proposto come panacea per i nostri mali, o come provocatorio schema interpretativo della nostra condizione, un « processo alla DC ». Egli lo vorrebbe celebrato subito e con gran pompa, per innumerevoli colpe. 
Quest'idea non è così originale come è sembrata a molti. Pasolini ha soltanto trasposto sul piano dell'immaginazione drammatica qualcosa che, nella realtà, è già in atto. Che altro sono le cronache politiche italiane correnti se non un incessante processo alla DC? Di che cosa si è discusso e scritto se non di questo, da un paio d'anni a questa parte, nei comizi, nei quotidiani, sulle copertine dei settimanali, nelle vignette degli umoristi o nei saggi degli economisti, nei libri dei politologi e in quelli degli ecologi? Tutti (compresi molti, DC) celebrano instancabilmente il processo al potere in Italia, e quindi alla democrazia cristiana che lo detiene da trent'anni. 
Non stupisce tanto la proposta pasoliniana, quanto lo stupore per il fatto che un uomo d'immaginazione abbia tradotto in canovaccio teatrale qualcosa a cui assistiamo ogni giorno. Anzi, il « processo » che è in corso nella vita pubblica, e che rappresenta una fase capitale nell'evoluzione della Repubblica, identificandosi con lo stesso meccanismo democratico, è assai più educativo e profondo di quello che si potrebbe mai combattere, a colpi di procedura, nelle aule di un tribunale italiano: chissà quanti rinvìi. 
* *
Anche nella realtà, beninteso, i rinvìi non furono pochi: con danno anche dell'accusata. Tenendoci a questa immagine, si potrebbe dire che, avviato il procedimento, la dc ha subito alcune delibere preliminari avverse dei giudici-elettori; non ne ha tenuto conto per arroganza del potere; è stata condannata in modo netto, in un tribunale di prima istanza, il 15 giugno di quest'anno; soltanto allora si è allarmata e in preda a gran confusione ha finito per decidere che doveva cambiare collegio di avvocati e linea di difesa; si è infine immersa in una sofferta opera di autocritica e (forse) di autocorrezione, per presentarsi a future sentenze in condizioni più favorevoli. 
Fin qui l'immagine del processo calza; ma quello straordinario congegno che è il sistema democratico di governo è assai più complesso di qualsiasi procedura giudiziaria. In una democrazia ciascuna delle parti è simultaneamente giudice e imputato; il processo è un prisma a molte facce; il suo fine non è di produrre giudizi ma di provocare comportamenti diversi; le battaglie di parole e l'aritmetica dei voti incidono sulle cose. Inoltre, il procedimento non ha mai fine; in una democrazia, nessuna condanna è senza appello, nessuna vittoria o sconfitta è definitiva. 
* *
Il Processo pasoliniano, per essere riflesso sincero della realtà, dovrebbe celebrarsi simultaneamente su più palcoscenici. Su uno di essi, oggi il principale, gli imputati sono i capi DC; ma sugli altri gli imputati sono diversi, giacché questo autoprocesso, il più severo che la nostra democrazia abbia mai conosciuto (forse è un segno di maturità, forse di decadenza), non risparmia nessuno. Esso investe la psicologia e i comportamenti delle masse, con le loro impazienze; dell'individuo italiano, con la sua povera socialità; delle categorie, con i loro egoismi «corporativi», come oggi si dice; delle forze economiche organizzate, con le loro miopie; degl'intellettuali, con i loro settarismi e la loro volubile superficialità; e naturalmente dei partiti. 
Il riflettore, dunque, non è sempre puntato sulla DC. 
Talvolta illumina vividamente gli sbandamenti opportunistici di alcuni fra i piccoli « partiti-clienti »; talaltra, l'insicurezza e le brusche deviazioni di rotta dei socialisti; più spesso, la sempre riaffiorante ambiguità, o incertezza, o togliattiana doppiezza della dirigenza comunista. Questa non ha ancora avuto la forza di riconoscere fino in fondo la fatale responsabilità storica di avere falsato e compromesso così a lungo ogni potenziale alternativa democratica di sinistra, per aver deviato tanta parte della sinistra italiana sulla cattiva pista del leninismo-stalinismo, scambiato per socialismo. Ancora oggi, se il «Processo» italiano continua a presentare oscuri sbocchi, è in buona parte perché la dirigenza comunista non ha chiarito agli altri, e forse neppure a se stessa, che sia l'Urss; che cosa sia il socialismo; che cosa sia l'ideologia attuale del comunismo italiano.
 Non basta, ai comunisti, replicare in tono irritato: noi siamo quello che siamo. Ma che cosa sono i nostri comunisti, che a Livorno dichiarano la loro appartenenza irrevocabile all'Occidente pluralista ed annunciano che non può esserci socialismo che non sia democratico; mentre a Firenze invitano quale << ospite d'onore >> al Superfestival dell'<<Unità>>  nientemeno che la Repubblica Democratica Tedesca tutta intera, uno Stato che si conserva i cittadini circondando il proprio territorio ( nell'<<era della distensione») con barriere elettroniche, fili spinati e pattuglie di guardie che sparano? Che ha, questa Rdt, di socialista e di democratico, per essere offerta agl'Italiani come società modello? Perché il PCI sbandiera così i suoi Franco, invece di condannarli? E perché, ogni volta che gli si tocca l'Urss, ricade, per tutta reazione, in infantili esaltazioni del « paradiso sovietico », come fossimo nel 1948? 
* * 
La pluralità dei « processi » in corso, e quindi, fuor di metafora, la mancanza di alternative politiche limpide e rassicuranti, riconduce tutta l'attenzione sul processo in corso dentro la DC. 
Il male del partito è stato diagnosticato: presunzione, abuso di potere, occupazione e sfruttamento dello Stato (e che cosa non è Stato nell'Italia d'oggi?), inefficienza e così di seguito. Ma la cura come va? Siamo ancora alle prime scene; le parole sono molte (anche buone: come nell'intervista di Rumor al nostro giornale; o nel discorso di Moro a Bari); ma i fatti sono pochi. E' così difficile produrne? Indichiamo un solo mocratico, neppure tanto difficile: perchè non si è ancora ridato all'Italia una Rai-Tv autonoma, come vorrebbe la legge, non più parcellizzata tra i partiti, e largamente dominata dalla DC? Perché i processi in Italia vanno così per le lunghe? 






Curatore, Bruno Esposito

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martedì 29 dicembre 2020

Pasolini, Vivo e Coscienza - Testo per un balletto

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Vivo e Coscienza di Luca Veggetti

Vivo e Coscienza è un testo incompiuto del 1963, scritto da Pasolini su commissione della Biennale di Venezia (ma non se ne fece niente). Vivo e Coscienza, uno spettacolo-balletto dove la vita combatte con la coscienza attraverso due personaggi antagonisti - probabilmente Betti e Ninetto. Nella bozza pasoliniana troviamo quattro scene che si svolgono in quattro periodi storici: seicento, rivoluzione francese, fascismo, resistenza.

Primo

Vivo. rozzo, adolescente, sta lavorando la terra: a scelta può potare le vigne o falciare l'erba con una grande falce celtica, o fare la raccolta delle mele. o arare; un lavoro antico perché siamo nel 1660. Vivo potrebbe però anche essere un pastore abruzzese o pugliese, o un marinaio, o un pescatore - potrebbe trovarsi su una spiaggia a Terracina, a Napoli, ad Amalfi, ad accomodare le reti. a tirare in secco la barca.
Poiché è pura vita, il suo lavoro è una danza: non ha parole in lingua per esprimersi. La sua esistenza è molto anteriore ancora al XII secolo. perduta nella preistoria, ad altro livello. in altra cultura.
Entra Coscienza. Viene, forse, dal Concilio di Trento. II cambio dei cavalli è una locanda li vicino. Essa è li per caso, ricca, indipendente. vestita pudicamente e baroccamente come una monaca. Osserva Vivo nella sua antica danza di vita, sensualità. lavoro, sole, smemoratezza, fame.

COSCIENZA 

Ah! Sei lì! Monumento della vita,
incancellabile, pura prole di prole
senza padre che guidi, Dio che benedica.
Sei lì, perché solo esserci è i] tuo amore!
O mare, o campi, intorno, e tu,
nero d'ombra. o bruciante di sole,
condanni il mondo con la tua gioventù.
Gotico è il tuo capo, romanico il tuo membro, pagano il tuo sorriso. Non è più la tua storia nel mondo. Eppure sembro io estranea al mondo, io che lo rinnovo !
Io, che ti esprimo e ti comprendo! 

Vivo non l'ha vista, e nella sua mitica indifferenza si è lasciato guardare. Coscienza gli si avvicina. 

COSCIENZA 

Ragazzo, è buona la tua merce?
(Ah la terra è tua, tu ne fai
ciò che ti serve, su essa eserciti
un rozzo potere, che tu sai
dai padri, e non t'inganna mai!) 

Vivo ascolta, viene portando come in un'offerta la merce prodotta dal suo lavoro fisico, «con le sue braccia», Coscienza l'acquista allungandogli le monete d'oro. 

COSCIENZA 

Tieni l'oro che ti piace tanto
(Ah, le antiche gioie misteriose
che t) procura il ballo, il canto
nelle sere, gelide o afose.
profumate di strame

Vivo prende le monete e torna alla sua danza, pieno di rinnovata vitale felicità. 
Un improvviso furore invade Coscienza. Un gesuita lo saprebbe forse spiegare. La tenerezza colpevole si tramuta in severo odio. Il mancato possesso sessuale in una puritana pretesa di possesso ideologico. Lo rimprovera per la sua vitalità così animale e lo invita invece a pregare, ad avere coscienza del dogma ecclesiastico. 
(Controriforma). 

COSCIENZA 

Vieni qui! Inginocchiati! Orrenda
è la bellezza della tua danza muta.
Non c'è nulla in te che non offenda Dio La Chiesa in te rifiuta
l'incoscienza: vieni qui, inginocchiati!
Altro non hai che una vita ricevuta in dono, piccola creatura sciocca:
è il demonio, è il demonio che possiede
il dolce silenzio della tua bocca...

Vivo poveretto, man mano che Coscienza parla, si abbiocca. Un po' alla volta, spaventato. smette di danzare, e, come una bestia al suo domatore, le si avvicina ad ascoltarne la voce piena di divina maestà e di minaccia. 

COSCIENZA 
(vittoriosa, ipocrita)

Così sei degno dei padri e del padre.
Così obbediente China il capo
Usa per pregare le tue labbra ladre 

Lui, buono buono, le obbedisce, le si inginocchia accanto e si appresta a recitare le parole della preghiera imposta per Religiosa Autorità. 


COSCIENZA 
(quasi con un grido)

Un bacio, un bacio di pietà
un bacio della casta Coscienza
a chi non sapeva ed ora sa 

Si china su di lui per baciarlo. Lenta. incerta, come vuole la sensualità vergognosa, prepotente. egoista, come vuole la tentazione rinnegata. E lui, preso da religiosa soggezione, supino, puro indifeso, non si schermisce. 
Si lascerebbe baciare se una musica stupenda non scoppiasse Una musica che solo il popolo canta. Una vecchia melodia che riempie cielo e terra. 
Come portarti da essa, entrano gli amici di Vivo, i compagni di Vivo. i coetanei di Vivo: i giovani vivi. Giovanotti del Seicento, dal molle grembo, dalla gamba elegante, dalle facce gremite di luce e di ombra: con fiori e frutta. come in un quadro del Caravaggio, un racconto del Bandello. Ragazzotti contadini vivi tre secoli fa, che altro non sono che vivi; e lingua non hanno, se non la lingua muta della danza - e danzano. 
Danzano come portati dalla stupenda forza della melodia, semplice, antica e terribile come il mondo. 

Vivo è strappato dalle labbra di Coscienza fatalmente. senza crudeltà. la lascia - le volta le spalle - la dimentica. Con pura, semplice, incolpevole gioia si mette a ballare con i suoi compagni. Ballando l'antico ballo della gioventù. E se ne vanno, Coscienza rimane sola, angosciata

Fine primo episodio 

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti


Secondo. 

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti
Anni della rivoluzione francese. Musica francese fine Settecento con riecheggiamenti dei canti della rivoluzione francese. 
Prima parte analoga alla precedente con varianti dovute al mutamento dell'epoca. 
Coscienza sarà vestita da sanculotta e rappresenta la coscienza rivoluzionaria. 
Vivo può essere un artigiano cittadino, Si arriva fino quasi al bacio, ma Vivo sarà trascinato via da una giovinetta sua coetanea. 

Terzo. 

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti
Anni del capitalismo fascista 
Musica distorta del jazz degli anni 30 possibilmente di origine tedesca. 
Coscienza questa volta è la coscienza della borghesia dominante. 
Vivo potrebbe essere un contadino trasferito in città. disoccupato, [panchina giardinetti pubblici. stazione ferroviaria ecc.), Scena ripetuta con varianti fino al bacia. 
Vivo è portato via dal richiamo della patria (balletto soldati) e parte per la guerra,

Quarto.

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti
Anni della resistenza. Musica totalmente di ispirazione con lievissima eco dei canti della resistenza. 
Coscienza è la coscienza democratica della resistenza. Vivo è un partigiano. Balletto della condanna a morte e della fucilazione. 
Adesso che è morto Coscienza spera di poterlo baciare. Finalmente di possederlo. 
Ma mentre si china sulle sue labbra, anche questa volta egli le viene portato via. 
Trascinati dal solito motivo popolare, questa volta sono i morti che vengono a portarglielo via, Tra cui egli. che fu un anonimo vivo. si perde. 
Coscienza per la quarta volta rimane sola e angosciata, ma nella sua angoscia c'è una luce di speranza. 
«Verrà un giorno - ella spera — in cui la Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita». 

Annotazione. 

Il motivo centrale spiegato nella prima parte al momento del bacio, lo si ritroverà sempre negli altri episodi allo stesso momento. 
Gli episodi si ridurranno probabilmente a tre, tagliando la Coscienza rivoluzionaria francese. 

P.P.Pasolini
(Oggi in "Pasolini, Teatro" a cura di Walter Siti)

Vivo e Coscienza di Luca Veggetti


Nel 2015 Vivo e Coscienza viene portato in scena da Luca Veggetti.
Scrive Luca Veggetti che firma coreografia, regia e dispositivo scenico:

“Ripercorrendo lo schema formale di Pasolini, lo spettacolo si articola così in quattro scene e in quattro “danze” di lavoro – rivoluzione – guerra – morte, dove Vivo e Coscienza agiscono in contrappunto a un “coro” che assume in ogni quadro identità diverse.
Data la natura frammentaria del testo di Pasolini, così come il fatto che dei quattro quadri previsti ne completò come dialogo solo il primo, ci è sembrato più interessante lavorare sul materiale delle didascalie, proponendo un rapporto di diegesi tra testo e azione. Questo ha introdotto, grazie all’idea di Marinella Guatterini, un elemento di grande rilievo e interesse nella produzione: la voce di Francesco Leonetti, poeta e amico personale di Pasolini, nonché attore emblematico in alcuni suoi film.
La poetica voce di Leonetti, registrata per l’occasione con l’aiuto di Eleonora Fiorani, è uno straordinario contributo artistico, un documento di valore inestimabile che sembra riportare in vita Pasolini stesso attraverso la toccante presenza vocale del suo amico e collaboratore. Esso serve come tessuto connettivo al materiale musicale. Una partitura di grande spessore e interesse che il compositore Paolo Aralla costruisce in parte elaborando materiali musicali e sonori di epoche diverse, essa si aggancia alla struttura ciclica di Pasolini spaziando dalla ieratica musica del ‘600 sino a materiali popolari del dopoguerra. A questa si aggiunge inoltre un progetto sonoro che, esplorando le possibilità di captazione del movimento, ne sfrutta il loro trattamento in tempo reale. I danzatori grazie a un particolare dispositivo audio inserito nei tavoli scenografici trasformano il movimento in suono”.

Luca Veggetti



Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini: la selva oscura

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini: la selva oscura
DAL LIBRO INEDITO "LA DIVINA MIMESIS"
LA STAMPA
Anno 109 - Numero 258
Venerdì 7 Novembre 1975

   Ma ecco che subito, dopo pochi passi di quel mio solitario e scoraggiato salire, eccola lì, uscita dai ripostigli comuni della mia anima (che accanitamente continuava a pensare, per difendersi, per sopravvivere — per tornare indietro!), eccola li, la bestia agile e senza scrupoli, cangiante come un camaleonte, cosi che i suoi colori che cambiano sono sempre quelli di prima. I colori dell'esterno, prima di tutto: quelli trovati nascendo, e subito oggetto di un affetto tremendo, che non vuol davvero vederli cambiare. E poi quelli dell'interno, a immagine e somiglianza — a causa dell'errore della lealtà infantile e giovanile — di quelli del mondo. Il colore della purezza, soprattutto, dell'altezza morale, dell'onestà intellettuale — maledetti colori dipinti dall'illusione!

Cosi, la «Lonza» (in cui non ebbi, subito, difficoltà a riconoscermi), con tutti quei colori che le maculavano la pelle, non si muoveva da davanti ai miei occhi, come una madre-ragazzo, come una chiesa-ragazzo. Anzi, per una forza terribile — quella della verità, quella della necessità della vita — mi impediva di proseguire per la mia nuova strada — scelta non per mio vole.-e, ma per mancanza di ogni volere — e su cui non c'è alcun bisogno di mistificazione, perché si è soli. E io, mistificatore, anzi, sottilissimo caso di mistificazione, a causa dello spreco di sincerità onestamente voluta — sono stato più volte per arrendermi e tornare indietro nel prepotente, nello stupido, nel volgare mondo appena lasciato. 

Ma ecco farsi avanti, accanto alla «Lonza», il sonno e la ferocia riuniti insieme in una sola forma di «Leone»; che, benché spelacchiato, fetido di stallatico bestiale, pigro, vile, prepotente, stupido, privo di altro interesse che non fosse il poltrire, solo, e il divorare, solo — aveva tuttavia la potenza di chi non sa il male, essendo per sua natura soltanto bene ciò in cui tutto lui stesso consiste. Dal suo essere sonno e ferocia, egoismo e fame rabbiosa, il «Leone» traeva una ispirazione a vivere che 1o distingueva, con violenza addirittura brutale, dal mondo esterno. Che lo ospitava quasi tremando.

L'idea di sé non ha ragione: e quando si esprime distrugge la realtà, perché la divora. 

Il saper divorare dà poi una certezza per cui è difficile impedirsi di farne uso: impedirsi di entrare, per mezzo di tale scienza, nel mondo, e istallatisi, come un re, un prepotente poeta. Sia pure parzialmente, anche in quel «Leone», come in uno sproporzionato segno premonitore, io mi riconobbi.


 * * 

Ma dovevo riconoscermi ancora in qualcosa di ben peggio. Dal silenzio in cui si è — determinazione incontrollabile o fenomeno che a poco a poco si forma, fuori dagli accaniti e ingenui ritratti che il figlio per tutta la vita offre di sé — venne fuori una «Lupa», che si affiancò alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza, la bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati tra loro: lo zigomo in alto, contro l'occhio, la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo. E tra loro una cavità oblunga, che rende il mento sporgente, quasi appuntito: ridicolo come ogni maschera di morte. 

E l'occhio secco in uno spasimo; tanto più abietto quanto più simile agli spasimi dei santi: un'aridità allucinata, che dove posa la sua luce pare si attacchi come colla colata dalla pupilla fatta tonda, ora troppo diritta ora sfuggente; e in mezzo il naso, ingrossato nella pelle e nei buchi, sopra il labbro superiore quasi sparito, per consunzione: il naso umano della bestia, che fa di se stessa una cavia delle proprie brame divenute, incancrenendo, sempre più naturali. 

Quella «Lupa» mi faceva paura: non per ciò che di degradante rappresentava, ma per il solo fatto di essere una apparizione, quasi oggettiva: la definizione di sé, un «ecce homo», per così dire, dalla cui realtà la conoscenza non può in alcun modo evadere. La sua presenza era così indiscutibile da togliere ogni speranza di poter giungere mai a quella cima misteriosa che intravedevo davanti a me, nel silenzio. Mi ci ero incamminato così volentieri — inaridito, senza vivere, senza scrivere, e tuttavia, proprio nella mancanza di tutto, se non dell'«abominio della desolazione», preso da una nuova forma di vitalità — che ora, il dover accreditare alla presenza di quella bestia senza pace una forza insuperabile — qualcosa contro cui era semplicemente ridicolo cercar di misurarsi — mi dava un'angoscia da cui ero reso impotente. Ero respinto indistro dalla tentazione di ritornarmene là dove non si richiede, in fondo, che di tacere. 

E mentre rovinavo giù, giustamente ridicolo per la mia antica vittoria su un mondo cui io appartenevo senza nessuna ragione di ritenermene più alto, ormai privo dell'autorità della poesia, e fatto ignorante dalle lunghe frequentazioni oscurantiste, pratiche e mistiche, ecco che mi apparve una figura, in cui dovevo ancora una volta riconoscermi, ingiallita dal silenzio. 


**

Come la percepii — in mezzo a tutta quella solitudine, a quel dimenticatoio, a cui mi ero ridotto, gridai: « Pietà, per favore », come nei sogni, quando ogni dignità va perduta, e chi deve piangere piange, chi deve chiedere pietà chiede pietà. «Guarda lo stato in cui mi trovo, guarda, anche se io non so se sei una sopravvivenza o una nuova realtà! ». 

«Ah — fece, guardandomi, con una sottile ma non naturale ironia nei suoi occhi fatti per essere seri — hai ragione, sono un'ombra, una sopravvivenza... Sto ingiallendo pian piano negli Anni Cinquanta del mondo, o, per meglio dire, d'Italia...». E qui sorrise ancora, ironico, leggermente nevrotico: perché erano solo la serietà, o la passione, la possibile luce dei suoi occhi: occhi tiepidi e castani sotto lo zigomo pronunciato, la guancia magra e infantile, la bocca dal brutto sorriso pieno di dolcezza: tirata dal ghigno dell'impaccio di chi deve farsi perdonare un'antica colpa. Così, con quel sorriso che lo deformava, assomigliava un po' a un povero bandito scalcagnato e sporco. E disse: 


«Sono settentrionale: in Friuli è nata mia madre, in Romagna mio padre; vissi a lungo a Bologna, e in altre città e paesi della pianura padana — come è scritto nel risvolto di quei libri degli Anni Cinquanta, che ingialliscono con me...-». 

E qui ebbe un altro sorriso di sdentato — benché nessun dente gli mancasse. Ma quando il sorriso, bene o male, finì di tirargli la bocca sull'ombra delle estremità infossate della chiostra giallastra dei denti, un'aria di ingenua nobiltà gli invase tutto il volto. 


«Sono nato sotto il fascismo, benché fossi quasi ancora un ragazzo quando cadde. E vissi poi a lungo a Roma, dove del resto il fascismo, con altro nome, continuava: mentre la cultura della borghesia squisita non accennava a tramontare, andando di pari passo (si dice così?) con l'ignoranza delle sconfinate masse della piccola borghesia...». 

Sorrise, sorrise ancora, come un colpevole, quasi volesse attenuare quello che aveva detto, o volesse scusarsi per la genericità a cui era costretto dalle circostanze, o anche dalla sua angoscia. 


«Fui poeta, — aggiunse, rapido, quasi ora volesse dettare la sua lapide — cantai la divisione nella coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita. E, nel dolore distruzione misto alla speranza della fondazione, esaurisce oscuramente il suo mandato...». 

Mi guardò un momento, non più come si guarda una vittima da aiutare, ma uno scolaro, o un intervistatore: 


« E' perciò — aggiunse — che sono destinato a ingiallire così precocemente; perché la piaga di un dubbio, il dolore di una lacerazione, divengono presto dei mali privati, di cui gli altri hanno ragione di disinteressarsi. E poi... ognuno ha un momento solo, nella vita... ». 

Ebbe una goccia, ancora, di sorriso malizioso e doloroso nell'occhio incapace di sorridere, quindi, con aria amica, aggiunse: 


« Ma tu, perché vuoi tornare indietro, in mezzo a quella degradazione? Perché non continui a salire su di qua, solo, come sei stato destinato ad essere, e come sei?»

Lo guardai. Tanta gentilezza, tanto desiderio di prestarsi mettersi a disposizione, in quel frangente, mi confortava. Era misero, minuto, il mio soccorritore: non era padre, non era fratello maggiore, non aveva l'imponenza consolatrice di chi rappresenta l'autorità; poteva essere tutt'al più una guida di montagna. Ma santo cielo!, in una circostanza come quella, in cui la mia vita pareva implicare cielo e terra, presentandosi come una gran favola edificante — addirittura un'esperienza dell'al di là, una ascesa su per erte mistiche con una paradisiaca luce di sole — come succede ai santi quando sono già personaggi delle loro canzoni sacre — in una circostanza come quella, poteva capitarmi un incontro un po' migliore, o almeno un po' più romanzesco! Tutto era fatto per questo, mi pareva: per presupporre una grande guida, venuta su lungo le vie del necessario, con lo splendore della poesia, dal fondo della mia storia, della mia cultura. Poteva essere, ad esempio, Gramsci stesso..., lui, venuto fuori dalla piccola tomba del Cimitero degli Inglesi a Testaccio, con la sua schiena di piccolo, eretto Leopardi, la fronte rettangolare della madre sardegnola, la capigliatura un po' romantica degli Anni Venti, e quei poveri occhiali d'intellettuale borghese... Oppure, ecco!, poteva capitarmi Rimbaud, il mio Rimbaud dei diciotto anni, mio coetaneo, e castratore, col suo destino e su., lingua già divini, come quelli di un classico che fosse però bello e coperto di nastri come Alcibiade, e non per fare l'amore con lui, ma per ammirarlo con tutta l'anima infantile... Oppure, infine, poteva essere Charlot...

Non avevo invece davanti a me che lui, un piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta, come egli amaramente diceva: incapace di aiutare se stesso, figurarsi un altro. Eppure era chiaro che al mondo — nel mio mondo — non avrei potuto trovare — benché così misera, così, come dire, paesana, così timida — altra guida che questa. 

Pier Paolo Pasolini





Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini, Il PCI ai giovani - L'Espresso, 16 giugno 1968

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini: vi odio, cari studenti.
Ovvero: "Il PCI ai giovani!!"
16 giugno 1968






Il Pci ai giovani!!, di Pier Paolo Pasolini



Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.

A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.

Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco (?)
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.

Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.

Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.

E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.

È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.

Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.
Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud):
quindi, i Maestri
- che sapranno sempre di essere Maestri -
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.

I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”.

Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.

Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese (con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.

Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.
Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente...

Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!
Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità...
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.

Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?





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Curatore, Bruno Esposito

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