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giovedì 24 dicembre 2020

I sintagmi viventi e i poeti morti - Rinascita 25 agosto 1967

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




I sintagmi viventi e i poeti morti

Rinascita numero 33
25 agosto 1967
pagina 20
Biblioteca Gino Bianco

Il linguaggio più puro che esista al mondo, anzi l’unico che potrebbe essere chiamato LINGUAGGIO e basta, è il linguaggio della realtà naturale.
   Per esempio, quello delle file di pioppi, dei prati verdi e del Lambro, che mi ha «parlato» presso Milano nelle ultime scene dell’Edipo. Oppure la fila di alberelli della strada cittadina, piena di macchine come un garage, che ha davanti agli occhi il tipografo di Rinascita o del Contemporaneo.
   Naturalmente il LINGUAGGIO di questi luoghi, di questi «particolarismi» naturali, sono enormemente contaminati da una serie di linguaggi, chiamiamoli così, «integranti» (per es. il mio italiano attraverso cui traduco la mia percezione di essere naturale di questi aspetti della natura. L’ho già scritto e riscritto. La realtà non fa altro che parlare con se stessa usando come veicolo l’esperienza umana. Dio, come dicono tutte le religioni, ha creato l’uomo per parlare con Se stesso). I mille linguaggi integranti (e anzitutto i linguaggi scritto-parlati) sono stati lungamente analizzati e studiati, prima dai grammatici, e ora, con una vastità di orizzonti quasi sterminata, dai semiologi. Ma – come anche questo ho già avuto occasione di ripetere molte volte – i semiologi hanno preso finora come oggetto delle loro ricerche i vari linguaggi (segnici o figurali, simbolici o viventi) che compongono quell’insieme che è poi il «Linguaggio della Realtà». In una mia relazione tenuta a Pesaro facevo, titubante, questa osservazione, perché non mi sentivo di giurare sulla completezza e sull’aggiornamento della mia informazione: ma gli specialisti là presenti, mi hanno rassicurato. No, la Semiologia, è vero, ha preso in considerazione i più impensati aspetti del linguaggio della Realtà: ma mai la Realtà stessa come linguaggio. La Semiologia cioè (e forse fortunatamente) non ha ancora compiuto il passo che la porterebbe a essere Filosofia in quanto descrizione della Realtà come linguaggio.
   Questo, mi ha detto Christian Metz, è un mio sogno. Un linguista italiano direbbe che è una mia grulleria. In conclusione mi trovo isolato e un po’ farneticante.
   Dunque l’unico linguaggio che potrebbe essere definito LINGUAGGIO e basta è quello della realtà naturale. E quello della realtà umana, nel momento in cui non è semplicemente naturale, ma storica? Cioè: mentre un pioppo parla un linguaggio puro, io, Pier Paolo Pasolini, parlo (stando zitto, con me, con la mia faccia, con la mia azione distribuita in tutti gli attimi, i giorni, gli anni e i decenni della mia vita) parlo un linguaggio puro? No, evidentemente. Questo linguaggio puro è contaminato anzitutto dal primo patto sociale, ossia dalla lingua, prima parlata poi scritta: e poi, da tutti gli infiniti linguaggi non segnici, di cui mi fornisce esperienza la mia anagrafe, il mio censo, la mia educazione – la società e il momento storico in cui vivo.
   Una sintesi di tutti questi linguaggi integranti uniti al PURO LINGUAGGIO della mia presenza naturale di vivente (come un pioppo), è il linguaggio della mia realtà umana, che è dunque, soprattutto, un ESEMPIO.
   Ognuno di noi (volendo o non volendo) fa vivendo un’azione morale il cui senso è sospeso.
   Da ciò la ragione della morte. Se noi fossimo immortali saremmo immorali, perché il nostro esempio non avrebbe mai fine, quindi sarebbe indecifrabile, eternamente sospeso e ambiguo.
   Ammettete che Stalin vivesse ancora: il marxismo, che aveva fatto della sua figura un esempio pubblico pressoché assoluto, non resterebbe ancora sospeso e ambiguo in una menzogna che solo con la fine di Stalin è stata smascherata? Nel caso di Stalin ci è voluto il XX Congresso (e non è affatto bastato). In un caso più umile, basta una «lacrimuccia» (in «co’ del ponte presso Benevento»).
   Osserviamo un momento questa lacrimuccia. Fino a quel punto l’uomo dal cui ciglio quella stenta e sublime lacrimuccia è gocciolata, era stato un peccatore: il suo era stato un esempio di
(generico e cattolico) male. Quella lacrimuccia ha rovesciato la sua vita: ha gettato su essa, retrospettivamente, una luce completamente diversa: il male è divenuto un non male, un contrario del bene, una volontà di essere bene, un bene inespresso, ma rabbia di non essere bene, un’impotenza a non volere il bene, una forma aberrante eppure divina del bene.
   S’egli non fosse mai morto, mai ci sarebbe stata quella lacrimuccia e il linguaggio della sua azione umana, del suo essere uomo sulla terra, sarebbe stato un esempio inconcluso di male e basta.
   La mia idea della morte, dunque, malgrado quest’ultimo esempio dantesco, non è cattolica né idealistica: almeno in questa fase del mio discorso (che è un discorso grammaticale e semiologico sul cinema). E lo dico qui, ora, perché questa è una nota d’appendice a quella relazione di Pesaro cui accennavo. E, appunto, in quella sede, mi era stato obiettato il pericolo spiritualistico di quella mia idea della morte ecc. ecc.
   O esprimersi e morire o essere inespressi e immortali, dicevo.
   Ma la mia idea della morte, dunque, era una idea comportamentistica e morale: non guardava al dopo della morte, ma al prima: non all’al di là, ma alla vita. Alla vita intesa dunque come adempimento, come tendenza disperata, incerta e continuamente in cerca di supporti, pretesti e relazioni, verso una sua perfezione espressiva. Credo che sia difficile essere più laici di così. E credo che fondare un’idea della vita su una morte così intesa, non abbia niente di contraddittorio al dichiararsi marxisti. O la filosofia «seconda» del marxismo deve continuare a essere il vecchio positivismo, tanto simpatico e tanto ingiallito? Pare che tutti siano d’accordo che no. E che anzi il problema principe di questi, del resto miseri e fuggevoli, anni sessanta, sia quello di trovare nuove integrazioni filosofiche al marxismo così come l’hanno lasciato, malconcio e quasi agonizzante, Stalin e il XX Congresso.
   Tra i vari errori compiuti da alcuni intellettuali ufficiali del marxismo, si deve ormai elencare quello del tentativo di un’apertura a destra, sulla linea di confine con le avanguardie. Ma è un errore già vecchio come le avanguardie stesse, e non conta più parlarne.
   Invece, a questo proposito, vorrei aggiungere qualcosa a quella mia relazione di Pesaro, così affrettatamente buttata giù e letta.
   Volevo ribadire prima di tutto questo fatto: il cinema è quanto di più sostanzialmente ambiguo si possa immaginare. Ecco perché: il cinema è un piano-sequenza infinito che esprime la realtà con la realtà. C’è sempre davanti a ognuno di noi una eventuale e virtuale macchina da presa, dallo châssis inesauribile, che «gira» la nostra vita da quando nasciamo a quando moriamo. Perché il nostro linguaggio PRIMO E PURO è la nostra presenza, realtà nella realtà. Quindi tutta la vita di Manfredi è
stata girata fino al pianto in co’ del ponte presso Benevento, e così tutta la vita di Stalin, fino alla sua morte senza pianto, molto più simile a quella di Pio XII che a quella di Manfredi (magari con un’appendice documentaria sulle rivelazioni di Krusciov). In quanto tale, il linguaggio cinematografico è quanto di più naturalistico si possa immaginare: dato che esso, teoricamente, esprime la realtà con la realtà, in modo incessante, cioè seguendo il tempo stesso della realtà (piano-sequenza infinito: o almeno lungo quanto l’intera esistenza di un uomo, di un pioppo, di un fatto della realtà). Tanto naturalistico che – come ancora già molte volte ho ripetuto – la Semiologia Generale della Realtà (che è il mio sogno) e la Semiologia del Cinema, sarebbero in conclusione quasi la stessa scienza.
   Lo stesso inespresso e inconscio Codice della Realtà che ognuno di noi ha dentro di sé, e che gli fa riconoscere la realtà (per es. ciò che dice una faccia vista per un attimo per strada), è lo stesso che gli fa riconoscere la realtà nel cinema (la stessa faccia «riprodotta» di uno che passa per strada).
   Ma cos’è che rende la realtà «naturalistica», cioè irreale? È il tempo.
   In tal senso il cinema non è più naturalistico, perché MAI, IN PRATICA, CIOÈ NEI VARI FILMS, il suo tempo è quello della realtà. Esso cioè non è irreale, come la realtà, che è fondata su un’illusione: ossia sul passare di qualcosa che non c’è, il tempo. Il cinema è fondato, al contrario, sull’abolizione del tempo come continuità, e quindi sulla sua trasformazione in realtà significativa e morale, sempre (anche nei films commerciali, in cui naturalmente significazione e moralità sono degenerate).
   Il cinema in pratica è come una vita dopo la morte. Mentre Stalin viveva egli si trovava in un continuum indecifrabile, approssimativo, mitico e violentemente fisico insieme, ambiguo e menzognero: dopo la morte tale continuum si è concentrato fuori dal tempo, in una serie fissa di atti morali: ossia quelli che i comunisti chiamano, eufemisticamente e classicisticamente, i «crimini» di Stalin.
   Il montaggio è dunque molto simile alla scelta che la morte fa degli atti della vita collocandoli fuori dal tempo.
   Ho detto – sì, ancora varie volte, ma sempre in modo affrettato – che il Cinema è simile alla «Langue» mentre i Films corrispondono alle «Paroles»: in un ambito di stretta osservanza saussurriana, questo significa che solo i Films (come solo le Paroles) esistono, in pratica e in concreto, mentre il Cinema (come la Langue) non esiste: è semplicemente una deduzione astratta e normalizzatrice che parte dall’esistenza concreta degli infiniti Films (come Paroles).
   Ora – e qui è l’idea nuova che è la ragione per cui ho scritto questa postilla – mentre la Langue dedotta per astrazione dalle Paroles è sempre un fatto linguistico, anche se esiste come pura ipotesi e successiva codificazione, il Cinema dedotto dai vari Films non è più un fatto cinematografico. LA LANGUE DEI FILMS (CIOÈ IL CINEMA) È LA REALTÀ STESSA!

   Prendiamo da Rimbaud, aprendolo a caso, «Les Chercheuses de poux»: sono parole di un sistema stilistico (anche se si tratta semplicemente di un titolo), che noi riconosciamo attraverso il codice conoscitivo che noi possediamo di quella «Langue» scritto-parlata che è il francese: ma se vediamo nel sublime Uomo di Aran una donna e un ragazzo su degli scogli, noi li riconosciamo perché entra in funzione in noi il codice conoscitivo della realtà tout court.
   Dunque, aggiungiamo ma nuova precisazione ai nostri vaneggiamenti semiologici: il Cinema in quanto Langue è la realtà stessa che si rappresenta.
   Il New American Cinema – di cui avevo preventivamente tanta stima, dato il mio amore per la Nuova Sinistra – visto qui a Roma, mi ha molto deluso. Nel migliore dei casi – direi Burkage – esso vale se visto dentro un ambito parziale di realtà storica, quella tipicamente nuovayorkese – che, è vero, del resto, è al centro del mondo. Nel peggiore dei casi – non faccio nomi – è un cinema per educande. Ma a parte questo mio giudizio di valore, che può certamente essere sbagliato, vorrei osservare come sia tutto un equivoco l’idea attraverso cui gli autori del New Cinema si illudono di distruggere il tempo convenzionale. Anzitutto essi credono di poter far coincidere il non-naturalismo sostanziale del cinema con la convenzionalità del montaggio del cinema commerciale hollywoodiano: con ciò rendono parziale e secondario il loro obiettivo polemico. Il non-naturalismo del tempo del cinema è invece sostanziale a tutti i possibili films. In secondo luogo essi fanno coincidere l’idea sbagliata del tempo di un piccolo borghese con l’idea sbagliata del tempo dell’umanità intera: ed anche qui sbagliano, perché anche il più cretino e nazista dei piccoli borghesi, fondando la sua vita sull’illusione del passare del tempo, compie qualcosa di commovente e sublime, come Einstein stesso. In terzo luogo, l’idea del tempo che essi contrappongono a quella che essi giudicano convenzionale, è un’idea tratta troppo genericamente dalle filosofie indiane che ha fatto venire di moda Ginsberg: e il risultato è che essi fanno un ribaltone arbitrario e dilettantesco del tempo, facendo dei films che sembrano dei calendari le cui pagine siano fatte scorrere rapidamente sotto il pollice – vi si intravvedono cieli azzurri con ramaglie nere, New York con la neve, un buon negro che scende nel metrò, delle ragazze che ballano balli passati di moda in un mese ecc. ecc. Essi cioè cercano arbitrariamente di violare quei «sintagmi viventi» che sono il linguaggio figurale con cui la realtà si esprime rappresentandosi: ma li violano, come in tutte le avanguardie che si proclamano tali, da poeti che non vivono, resi morti dall’idea di essere poeti.
   Dicevo più sopra come la morte operi una rapida sintesi della vita passata, e la luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali, facendone degli atti mitici o morali fuori dal tempo. Ecco, questo è il modo con cui una vita diventa una storia.
   Quanto a me, io continuo a credere nel cinema che racconta, ossia nella convenzione per cui il montaggio trasceglie, dai piani-sequenza infiniti che si possono girare, i tratti significativi e valevoli. Ma sono anche stato il primo a parlare esplicitamente di «cinema di poesia». Parlando però di cinema di poesia, io intendevo sempre parlare di poesia narrativa. La differenza era di tecnica: anziché la tecnica narrativa del romanzo, di Flaubert o di Joyce, la tecnica narrativa della poesia. Osservate il montaggio dell’Uomo di Aran. Ecco, avrete un’idea del montaggio piegato a una tecnica narrativa di cinema di poesia: sia pure di una poesia esiodea, come dicono gli agiografi. Anche le storie parigine d’interni, camere da letto o bar, di Godard, sono montate con una tecnica narrativa tipica della poesia. Naturalmente sarebbe idiota cercare dei limiti precisi e codificabili, tra certo cinema di prosa e certo cinema di poesia…
   Ora, quello che mi chiedo, in seguito agli esperimenti sbagliati dell’avanguardia, è se non sia possibile un cinema di poesia non narrativa: di poesia-poesia, o, come si suol dire, poesia lirica. È possibile?
   Su questa domanda chiudo la mia nota, non senza però aver prima cercato di porre i termini reali del problema. Non è possibile fare del cinema di poesia (ahi, chiamiamola così), lirica, semplicemente esasperando la tecnica del cinema di poesia narrativa. Esasperando Cassavetes o Godard, si fa del cattivo Cassavetes, o del Godard quatriduano. La cosa che ci si può chiedere è questa. Alle volte la realtà stessa è poetica. L’altra sera stavamo parlando di queste cose in una trattoria all’aperto, con Moravia, e altri amici, quando è arrivato (non visto, alla chetichella) un suonatore, e ha cominciato a suonare il suo mandolino. Ecco, è stata una cosa così poetica, che ognuno, in cuor suo si è sentito perdere, ha dovuto ricacciare in sé la commozione, intellettualizzarla ed esprimerla. In quel momento la realtà come linguaggio non segnico – ossia un suonatore di mandolino come simbolo figurale di se stesso – ossia ancora una smandolinata come sintagma vivente – era poetica. Il cogliere simili momenti, riproducendoli, sarebbe la poesia lirica del cinema? Ma in tal caso, ancora una volta, come la Semiologia della Realtà si identifica con quella del Cinema (anzi, come abbiamo visto, il Cinema in quanto Langue altro non è che la realtà stessa), così la poesia della realtà è una cosa sola con quella riprodotta dal cinema? Ma il suonatore di mandolino non era nel tempo – nel tempo di una cena all’aperto – e quindi in un tempo reale, nell’illusione del tempo reale, in una vita che aveva già i caratteri di una storia?
   A Montreal – leggo – si vedono esperimenti cinematografici tecnici nuovi. Forse la strada del cinema di poesia-poesia è quella? Ma che orrore! Nel futuro la poesia del cinema non potrà essere che espressionistica, macro-pop, deformante, gigantesca, angosciosa, allucinogena? E i suonatori di mandolino? E la faccia di cane buono di Moravia che li ascolta, contrito sopra un piatto di cicoria? Oh, io non ho rimpianti: chi ama troppo la realtà, come me, infine la odia, si ribella e la manda a farsi benedire. Ma non credo a un cinema di poesia lirica ottenuta attraverso il montaggio e l’esasperazione della tecnica.





Curatore, Bruno Esposito

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