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lunedì 7 marzo 2022

Pilade di Pier Paolo Pasolini a Taormina - Il Dramma, 13 ottobre 1969

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pilade di Pasolini a Taormina - 1969

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

Proprio mentre tra Grado e Venezia si sviluppava il discorso sul nuovo film di Pier Paolo Pasolini, e il poeta spiegava - venendo meno a qualche cautela logica - che le complicazioni espressive e le conseguenti difficoltà di comprensione, unanimemente riconosciute a Porcile, andavano messe nel conto di una sua precisa intenzione di costruire prodotti fruibili dal minor numero possibile di persone (estrema difesa dell’intellettuale dalla massificazione del suo lavoro); mentre, dunque, tra Grado e Venezia, Pasolini portava cosi la sua gioia e la sua angoscia, la nativa ritrosia friulana e la acquisita sfrontatezza romana, a Taormina, una specie di genius loci quale e il regista Cutrufelli, metteva in scena una tragedia di Pier Paolo Pasolini, Pilade, vecchia di qualche anno, già pubblicata su ≪ Nuovi Argomenti ≫.
Nel teatro greco di Taormina (splendido, suggestivo, con l’Etna sullo sfondo, visibile oltre la scena opportunamente frantumata dai secoli, ecc.) si e fatto di tutto, e Cutrufelli e fiero di aver dimostrato che ci si può fare anche Pirandello e, appunto, i Sei personaggi; per quel discorso che sui disperati comici pirandelliani agisce come un’aria euripidea e dunque niente di meglio che provarlo nel modo giusto, con gli spazi adatti e qualcosa di regalato da una parte e dall'altra (dalla suggestione del luogo, voglio dire, e dalla forza - comunque - di Pirandello). Ma per ospitarci questo Pilade pasoliniano non sarebbe occorsa giustificazione di sorta, anche se gli inviti, per il passato, fossero stati più severi. La tragedia, infatti, ripete puntigliosamente lo schema classico, con il prologo, gli interventi del coro, gli interventi degli Dei, la comodità narrativa dei messi (in quanto a messi Pasolini ha forse un poco esagerato: alla conclusione della tragedia si arriva per il convergere delle informazioni di tre messaggeri, uno dietro l’altro), fino a farlo confondere, nella struttura dell’opera, con una sorta di staticità espressiva, che e tutta del teatro pasoliniano e che non sarebbe giusto attribuire al modello della tragedia classica.
Del resto, questo Pilade appartiene alla teorizzazione pasoliniana del teatro della parola, cosi come, su un altro versante, vi appartiene Orgia: e una ipotesi di teatro che trascura l’idea del teatro, riferendosi al ≪ detto ≫ prima che al ≪ rappresentato ≫. E una ipotesi di teatro immaginata per platee abitate da ≪ lettori di poesia ≫ (cioè, secondo le affermazioni dello stesso Pasolini, un cinquemila persone circa, in tutta Italia): che e un altro modo - anche se meno incauto - per parlare di
prodotti che si difendono dalla massificazione negandosi a un certo tipo di comunicazione.
E naturalmente non si parla del cosiddetto teatro di poesia, che e cosa affatto diversa; ma proprio di un rapporto di comunicazione da svolgere all'interno di una certa semantica, attraverso codici opportuni, con una serie di riferimenti dati, che si e convenuto appunto chiamare ≪ teatro ≫, ≪ parola ≫, ≪ poesia ≫.
Per ciò che mi riguarda, non contesto i momenti lirici della tragedia - ve ne sono alcuni singolarissimi ne contesto il segno della parola che come sempre in Pasolini e pieno, definito, violentemente espressivo. Contesto che tutto ciò, nel Pilade scritto in forma di tragedia, possa assumere dimensione
teatrale.
So bene che stiamo qui cercando di capire dove e come si rintracci, ormai, il teatrale. E che la discussione su questo aggettivo porta lontano. Ma qualche giochetto empirico - si fa per dire - ci e rimasto per verificare almeno le condizioni base della dimensione teatrale; e uno di questi giochetti consiste nel leggersi un dramma, poi nel vederlo rappresentato di fronte a una platea normale, infine di analizzare quanto di quel dramma e passato oltre il limite che una volta si diceva della ribalta. Fatta poi la tara delle incapacità della rappresentazione (regista, interpreti, scenografie, ecc.), si otterrà il risultato circa il tasso di teatralità del dramma. Cioè, la sua autonoma condizione di rappresentatività
teatrale.
Facciamolo, dunque, con il Pilade, questo giochino. Intanto cosa vuol dire, cosa intende rappresentare la ≪ tragedia ≫ di Pasolini?
E inutile arrischiarci a interpretazioni personali; esiste un sunto, scritto da Pasolini stesso e apparso su ≪ Paese Sera ≫ (per una piccola posta tra Pasolini e il critico drammatico di quel giornale), che a me sembra fedelissimo e assolutamente accettabile. Facciamo dunque riferimento al testo ≪ autentico ≫ ; ≪ Il tema profondo del dramma - dice Pasolini - e il seguente :
la Dea della democrazia liberale, Atena, trasforma le Furie, dee dell’irrazionalità “ selvaggia ” , in Eumenidi, dee dell’irrazionalità sopravvivente come capacita di sogno e di sentimento in un mondo razionale; ma ecco che meta delle Eumenidi  “ degenerano ” , e dalle “ misteriose montagne ” rientrano in città, nel cuore appunto della democrazia liberale : le altre Eumenidi, rimaste sui monti “ispirano” , invece, la rivoluzione socialista e partigiana di Pilade. Ma ecco che interviene inopinatamente - e fuori da ogni prevedibilità storica - Atena. E la nuova civiltà capitalistica. Atena, dopo aver predetto a Oreste la sua connivenza con le atrocità della borghesia fascista e la lotta partigiana contro di lui, richiama le Eumenidi fedeli dai monti. E queste, sempre inopinatamente, la obbediscono: e divengono le dee del benessere, della nuova era opulenta. Pilade, cosi abbandonato da esse (da notare dunque che sono state le stesse dee della democrazia liberale a ” ispirare “ la sua rivoluzione socialista), non ha più nulla davanti a se, e gli resta una sola verità: l’orrore del potere ≫.
Perfetto. Ho detto che la illustrazione del ≪ tema profondo del dramma ≫ e assolutamente chiara e condivisibile, e lo mantengo; non senza avvertire, pero, che il dramma e assai meno chiaro e che una costante altalena sul filo teso dell’ambiguità costringe il lettore a non comuni sforzi di attenzione e di memorizzazione.
Ma, lo si e detto, il lettore scelto e quello abituato ai testi poetici e dunque gli si può chiedere anche più di questo.
Nel nostro test, il dramma andava letto e interpretato - e lo abbiamo fatto -, poi osservato alla rappresentazione teatrale. A Taormina - lo dico subito e tranquillamente - questo dramma, cosi felicemente raccontato da Pasolini, non si e visto. Allo spettatore sono arrivate alcune splendide pagine (per quanto dette malissimo, chi l’ha udita non dimenticherà quella struggente memoria sull'amicizia dei ragazzi: e un esempio); la sensazione di una contrapposizione ideologica tra le dee dell’≪ irrazionalità selvaggia ≫ e le dee della ≪ irrazionalità di sogno e di sentimento ≫, contrapposizione che definisce ispiratrici del fascismo le prime e del socialismo le seconde (ma il brivido e il disagio nel constatare raffermata attrazione delle due parti, fino all'amplesso di Pilade ed Elettra?



Mio Dio, chi ha capito oltre il fatto?); e un gran parlare, un gran narrare, un gran groviglio di parole nel quale era difficile districare un’azione.
Direi che il ≪ tema profondo ≫ si riduceva a questo: il benessere neocapitalista - Oreste, le Eumenidi, Atena - sconfigge, con la sua torpida razionalità, l'irrazionalismo rivoluzionario e mette a braccetto - o meglio, a possedersi sull'erba - la fascista e il partigiano.
Si tratta di una lettura rozza? Non e colpa mia: e ciò che si leggeva dalla scena di Taormina.
Colpa, allora, di Giovanni Cutrufelli, o di Arnaldo Ninchi - che era Oreste -, o di Sandro Ninchi - che era Pilade -. o di Claudia Giannotti - che era Elettra? Degli attori no di certo: hanno fatto del loro meglio, e soprattutto Arnaldo Ninchi era autentico e credibile. La regia qualche intoppo certo lo ha creato: si vedeva, ad esempio, che lo spettacolo era stato immaginato in una direzione assolutamente dimostrativa, che il conflitto ideologico e politico descritto da Pasolini aveva suggerito al regista personaggi vestiti da fascisti, da partigiani, da bravi borghesi, e che poi, chissà perchè, avevano prevalso i costumi antichi: una corazza, un peplo, un mantello rosso (della primitiva idea erano rimaste le musiche : Battaglioni M, Fratelli d’Italia, Internazionale; ed era un grosso pasticcio che infastidiva e aiutava a non capire). Insomma Cutrufelli muoveva delle figure e ne immaginava altre; costruiva situazioni e gli si respingevano sullo sfondo come se il dramma non fosse sufficiente a crearle. E in realtà era cosi. Il dramma esisteva solo come saggio ideologico-politico con intermezzi lirici. Lo sforzo di tradurlo in rappresentazione era meritorio ma destinato al nulla, e infatti nel nulla si concludeva.
E’ curioso: ho sentito Fellini parlare di una incapacità pasoliniana verso l’immagine. Non so, ma mi pare che sbagli; cosi non vorrei dire di una incapacità di Pasolini verso l’agire, il creare con l’azione situazioni teatrali. Ciò che gli interessa e evidentemente far pesare la parola - i mille si e i mille no: la contraddizione in cui vive da poeta e, insieme, contro il poeta che e - e non gli importa come.
Ma questa idea, che Pasolini ha, che tutto questo possa avere a che vedere con il teatro, che idea assurda! E ci costringe, poi, a intervenire, a cercare di capire, a cercare di spiegare, di collocare in qualche modo questo suo ≪ teatro ≫ (senza riuscirci naturalmente), noi che per di più, con i nostri
curiosi vizi specialistici, certamente gli procuriamo soltanto fastidio. Dico a lui, Pier Paolo Pasolini.

Mario Raimondo





Curatore, Bruno Esposito

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