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sabato 9 gennaio 2021

Adele Cambria, Diario di Accattone - La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961



Adele Cambria, Diario di Accattone
La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961


La vestaglia, lavata, rilavata, uno straccio: ma la sporcizia dura, è ormai intessuta dentro. Sotto il petto, una spilla di sicurezza. La sarta, bonacciona, con preoccupazioni igieniche, mi dice che ha bollito ogni cosa… Sarebbe facile, dunque, l’ironia su questa miseria ricostruita con accanimento, con dolcezza, e Pasolini che fa addobbare di altri stracci i bambinetti che le madri gli hanno portato, qui, in via Tiburtina, mirabilmente vestiti a festa. Lui, inesorabile, gentile, condanna le sottovesti piccolissime di nylon, le sottane di panno blu coi pupazzi, le giacchette a uomo, dei maschi, con la cravatta a farfalla della Prima Comunione. Si stanno girando alcune scene del primo film diretto dallo scrittore: Accattone (o Stella, come piace di più al produttore). Io sono Nannina. Pasolini, una volta che ero andata a chiedergli un’intervista, mi ha detto che ero Nannina: dunque, se volevo lavorare nel film. Diceva: “Lei ha la faccia di Nannina”. Ora, come è normale, mi incuriosiva quest’altra mia faccia che non sospettavo di avere. Ho letto la sceneggiatura: “…Nella stanza c’è anche un’altra donna, piccola come una gatta, Nannina la Napoletana, con i suoi cinque figli, il più piccolo le sta attaccato al petto…”. Ed ancora: “…Nannina, spaventata dal fatto che qualcuno la chiami, come se non avesse il diritto di essere chiamata, ecc.”. Poi le battute che il Napoletano mi dice: “Beh, Nannì! Vuje site ‘na femmina oro dieciotto! Voi siete una femmina intrepida!”. Esattamente il tipo di donna che mi ha fatto, da sempre, compassione e rabbia: che ho odiato, nella sua soggezione meridionale (schiavitù devota, animalesca, verso i figli, verso un marito almeno irriconoscente, e fatica, botte, tradimenti, ogni cosa accettata come naturale).
Questa Nannina del film è una sposata forse a quattordici-quindici anni, e da allora, un figlio dietro l’altro, con il marito fuori e dentro dal carcere, che sfrutta un paio di prostitute eccetera.
E lei, salda, con questa cintura di figli intorno, che la divorano, a faticare, ad aspettare. Chi sa mai perché sono io che ho la faccia di Nannina, pensavo, certamente, puerilmente offesa: si vede che il Sud – poiché sono meridionale – rimane attaccato alle ossa. Allora ho detto di sì: e soprattutto mi incuriosiva quest’esperienza, di vedere girare un film dall’interno: e mi divertiva, proprio nel senso di distrarmi, per l’assoluta irresponsabilità del mio compito, il non rischiare nulla – poiché faccio un altro mestiere – interamente affidata ad altri.
Negli stabilimenti cinematografici della De Paolis, sulla Tiburtina, si girano le scene della baracca. Mi tirano i capelli lisci dietro, con molte rozze forcine, niente trucco, ed i cinque bambini che non ne vogliono sapere di starsene attaccati a me.
Anche il piccolo, di otto mesi, che devo tenere sulle braccia, piange e sbava con gargarismi allucinanti; e mi sembra una specie di buffa, dispettosa rivincita sull’idea che il regista ha della mia faccia: madre inesausta intorno alla quale i bambini vengono come mosche al miele…
Il più piccolo ha la testa che gli scotta come ferro da stiro.
Dico alla madre: “Ma ha la febbre”. Lei prima dice che non è vero, poi mi supplica di non parlarne a Pasolini, se no ne prendono un altro. “Ma la pagano lo stesso”, dico. Inutile, vuole restare. Mi sento colpevole. Pasolini ha la pazienza – e la crudeltà – di un santo. Con tutti questi bambini che strillano (ce n’è uno, Roberto, di tre anni, che mi annuncia: “Mo’ io te meno”, e subito incomincia una giostra di calci e pugni): con le madri, che li riempiono di baci e sberle, perché siano buoni e si lascino fare la fotografia: “che gliela mandiamo allo zio in Australia…”, dice una.
[…] Franco Citti ‒ Accattone ‒ sta qui ora a recitare, “ tutto bello e malandro”, come lo descrive Pasolini nella sceneggiatura: con un cuore d’oro appeso al collo, che gliel’ha fatto Maddalena, ed anche gli anelli, che gli incrostano d’oro la mano, e il bracciale, il maglione bianco e tutto. Maddalena (Silvana Corsini) sta distesa su un lettone putrido, con la gamba fasciata, i capelli neri, come serpi, sulle spalle magre: io, Nannina, sto da un canto, nella baracca, con i quattro bambini che alla fine si sono decisi a farsi la fotografia, ed il più piccolo in braccio, che strilla, ossessivo. Ciak, azione, si gira: l’operatore Delli Colli sistema la macchina da presa, una ‘bandiera’ (cioè un tendone nero stinto) è messo fuori della porta, perché non venga dentro troppa luce: un solo ‘gruppo’ da ottomila, poche carrellate. Accattone traversa la stanza con passo indolente: sembra un ragazzetto, smilzo e impavido, ma è già sui ventisei anni: scarpe a doppia suola, abbronzatura, e le rughe che gli bruciano improvvise la pelle, intorno agli occhi, alla bocca piccola, quando parla. Pasolini gli suggerisce le battute […].
La scena, per girarla, si divide in due parti. Prima, la macchina da presa punta Accattone, poi si sposta su Maddalena, vestita di giallo, in mezzo al gran letto, spaventata e becera, e giovane.
È lei, per ora, la donna di Accattone: quella che va “a produce”, la notte, sul viale delle Mura Ardeatine: quella che lo ricopre di povero oro, come usano le prostitute col magnaccia, e gli permette di tenere la “mille e quattro” di seconda mano. Ma oggi Maddalena non può andare a lavorare, perché una motocicletta l’ha investita e buttata per terra. […]
Un altro giorno, che giriamo, la baracca è uguale, mezza vuota, con solo il lettone e la cucina economica e il quadro della Vergine, stile novecento, col Bambino piccolo sproporzionato, che pare un sandwich che lei si stia ad imboccare. Ma oggi la donna di Accattone è un’altra: è Stella.
Io, Nannina, ci sono sempre, faccio parte dell’arredamento, coi cinque figli intorno; Accattone, dopo che m’ha fatto andare in galera il marito, m’ha portato qua a casa sua; Maddalena guadagnava abbastanza per tutti (cioè da mangiare una volta al giorno anche per me e i bambini…). Ed ora, Stella? Stella è d’altra razza. Una che lavora: tutto il giorno a ‘capare’ le bottiglie vuote della Coca -Cola e del Chinotto, ammucchiate a montagnola nei depositi della borgata. Le danno ottocento lire. […]
E questa è la scena, come l’ho vista dirigere da Pasolini, con gentilezza, con pazienza: io a calar giù i materassi, sul letto, e Stella davanti a una pentola, dove i macchinisti hanno buttato il ghiaccio secco ‒ nell’acqua calda bollente ‒ perché ne esca il vapore, come della pasta che cuoce.
Le prime cure del regista sono per Stella. Pasolini e l’aiuto ‒ Bernardo Bertolucci ‒ si preoccupano di come la ragazza debba essere vestita, qui in casa. Un grembiule nero lucido, ma bisogna tagliarli via le maniche perché è estate: un’appiccicosa estate romana, “ … in quel mondo ‒ di borgate tristi, beduine ‒ di gialle praterie sfregate ‒ da un vento sempre senza pace…”.
In testa, Stella porta un fazzoletto, ma annodato basso sulla fronte per proteggere i capelli dalla polvere, ora che sta facendo le pulizie. E il timore ‒ quasi infantile ‒ di Pasolini è che la ragazza ‒ Franca Pasut ‒ non si dia troppo cerone sul viso. Anzi al principio aveva detto nulla, né segni di lapis intorno agli occhi, né palpebre blu: e si sforza di spiegare, alla Franca, come il suo modo di camminare deve essere sciatto, proprio senza nessuna civetteria. Gli occhi di questa ragazza sono celesti trasparenti, il corpo ampio e placido, il viso appena sbozzato e d’una naturale allegria: e forse l’aiuta a sorridere, con tanta ovina dolcezza — come direbbe Moravia — il fatto di essere friulana…
‒ Ah Vittò, e che t’hanno fatto?
È la prima battuta di Stella, in questa scena. (Lei, Accattone lo chiama col suo nome vero: Vittorio). Poi la ragazza attraversa la stanza: “Più sciatta le dice Pasolini ‒ non come Marilyn in Niagara, devi essere magari un po’ buffa…”. Va ad accendere la luce, che è già sera. L’operatore Delli Colli prepara il primo piano. (Dreyer, e la sua Giovanna d’Arco, sono i modelli citati più di frequente, da Pasolini).
[…] È sabato sera, incomincia l’estate, sul mare di Ostia ‒ buio come un dirupo ‒ sì riaprono le terrazze del Calypso; Sergio, Franco, sono in grana: finite le riprese, il mille e quattro ansimante raspa la ghiaia dei cortile, tra le baracche della De Paolis, e si parte. Er Mohicano, Bachino, appoggiati a un muro, sono rimasti a guardare: i giovani non li hanno voluti insieme, per la notte. Anche Pasolini torna a casa, a Monteverdevecchio: la sua faccia è consumata, più di sempre, è difficile parlare, è goffa la domanda: fino a che punto sia legittimo ad uno scrittore sfruttare impietosamente la realtà, derubare gli altri di se stessi…
“Non so” dice Pasolini “a me sembra di avere sempre pagato abbastanza…”
Allora, le domande ai poeti sono inutili.
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© Adele Cambria in «La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961. Rivista fondata a Parma nel 1957 e chiusa nel 1966. Trascrizione a cura di Laura Arconti pubblicata su «Notizie Radicali»:

https://poetarumsilva.com/2018/07/14/prosabato-adele-cambria-diario-di-accattone/#more-64039



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Curatore, Bruno Esposito

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