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martedì 29 dicembre 2020

Pasolini, Avrei voluto urlare, e ero muto: la mia religione era un profumo.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Pasolini, Avrei voluto urlare, e ero muto:  la mia religione era un profumo.
La religione del mio tempo
Pier Paolo Pasolini
"Rileggendo 'La religione del mio tempo' l'impressione è quella di un grande poeta che abbia posto il tema dei limiti della poesia verso la vita, in un mondo che non sa più che farsene né della poesia né dei poeti. Pasolini, scegliendo la compromissione con la realtà, si è tenuto al corpo vivo della propria singolarità, narrandone l'urto con la storia. Ha rifiutato il privilegio lirico, mettendosi in discussione come singolo anonimo e comune, prendendo su di sé, insieme alla grazia e a una squisitezza che possedeva d'elezione, tutta la nostra storica miseria individuale e di popolo. Ha deluso, è andato in una direzione contraria alla politica e alla cultura istituite e d'opposizione" 
(dalla Prefazione di Gianni D'Elia).



Se – non vedendoli da soli due giorni,
ora, alla finestra, nel rivederli, un breve
istante, laggiù, ignorati e disadorni,
mentre salgono in un sole bianco come neve,
a stento trattengo un infantile pianto –
cosa farò, quando, esausto ogni mio debito,
quaggiù, si sarà perso l’ultimo rantolo
ormai da mille anni, dall’eterno?
Due giornate di febbre! Tanto
da non poter più sopportare l’esterno,
se appena un po’ rinnovato dalle nubi
calde, di ottobre, e così moderno
ormai – che mi pare di non poterlo più
capire – in quei due che salgono la strada,
là in fondo, all’alba della gioventù...
Disadorni, ignorati: eppure fradici
sono i loro capelli d’una beata crosta
di brillantina – rubata nell’armadio
dei fratelli maggiori; oppure losca
di millenari soli cittadini
la tela dei calzoni al sole d’Ostia
e al vento scoloriti; eppure fini
i lavori incalliti del pettine
sul ciuffo a strisce bionde e sulla scrima.
Dall’angolo d’un palazzo, eretti,
appaiono, ma stanchi per la salita,
e scompaiono, per ultimi i garretti,
all’angolo d’un altro palazzo. La vita
è come se non fosse mai stata.
Il sole, il colore del cielo, la nemica
dolcezza, che l’aria rabbuiata
da redivive nubi, ridà alle cose,
tutto accade come a una passata
ora del mio esistere: misteriose
mattine di Bologna o di Casarsa,
doloranti e perfette come rose,
riaccadono qui nella luce apparsa
a due avviliti occhi di ragazzo,
che altro non conosce se non l’arte
di perdersi, chiaro nel suo buio arazzo.
E non ho mai peccato: sono
puro come un vecchio santo, ma
neppure ho avuto; il dono
disperato del sesso, è andato
tutto in fumo: sono buono
come un pazzo. Il passato
è quello che ebbi per destino,
niente altro che vuoto sconsolato...
e consolante. Osservo, chino
sul davanzale, quei due nel sole
andare, lievi; e sto come un bambino
che non geme per ciò che non ha avuto solo,
ma anche per ciò che non avrà...
E in quel pianto il mondo è odore,
nient’altro: viole, prati, che sa
mia madre, e in quali primavere...
Odore che trema per diventare, qua
dove il pianto è dolce, materia
d’espressione, tono... la ben nota
voce della lingua folle e vera
ch’ebbi nascendo e nella vita è immota.




L’ossessione è perduta, è divenuta
odorante fantasma che si stende
in giorni di luce grande e muta,
quando così debole si accende
l’azzurro che bianco è quasi,
ai rumori dispersi si rapprende
l’assurdo silenzio di stasi
naturali, e agli odori dei pranzi,
dei lavori, si mischiano randagi
soffi di bosco, sepolti nei canti
più ombrosi o più assolati
delle prime colline – stanchi
moti quasi di altre età, ora beati
in questa, che vuole nuovo amore.
Da bambino sognavo a questi fiati,
già freschi e intiepiditi dal sole,
frammenti di foreste, celtiche
quercie, tra sterpaglia e rovi di more
sfrondati, nel rossore, quasi svèlti
dall’autunno assolato – e seni
di fiumi nordici ciecamente deserti
dove pungeva l’odore dei licheni,
fresco e nudo, come di Pasqua le viole...
Allora la carne era senza freni.
E la dolcezza ch’era nel colore
del giorno, si faceva dolcezza
un poco anche in quel dolore.
La gioventù bendata, rozza, retta
delle famiglie barbare che andavano
emigrando, per la sommessa
selva o l’allagata plaga,
consolavano la solitudine
del mio lettuccio, della mia strada.
La storia, la Chiesa, la vicissitudine
d’una famiglia, così, non sono
che un po’ di sole profumato e nudo,
che riscalda una vigna in abbandono,
qualche filo di fieno tra i boschetti
corrosi, qualche casa tramortita al suono
delle campane... I giovinetti
antichi, essi soltanto vivi, se pieni
della primavera ebbero i petti
nelle età più belle, erano insieme
sogni del sesso e immagini bevute
dalla vecchia carta del poema
che di volume in volume, in mute
febbri di novità suprema,
– erano Shakespeare, Tommaseo, Carducci... –
faceva d’ogni mia fibra un solo tremito.


.
Avrei voluto urlare, e ero muto:
la mia religione era un profumo.
Ed eccolo ora qui, uguale e sconosciuto,
quel profumo, nel mondo, umido
e raggiante: e io qui, perso nell’atto
sempre riuscito e inutile, umile
e squisito, di scioglierne l’intatto
senso nelle sue mille immagini...
Mi ritrovo tenero come un ragazzo
all’entusiasmo misterioso, selvaggio,
come fu in passato, e stente
lacrime mi bagnano la pagina
alla vista, nel solicello ardente,
di quei due, che – loro sì ragazzi –
si perdono svelti, beatamente,
nella ricca periferia, sotto terrazzi
pieni di sereno cielo di mare,
mattutini balconi, attici
dorati da un sole già serale...
Il senso della vita mi ritorna
com’era sempre allora, un male
più cieco se stupendamente colmo
di dolcezza. Perché, a un ragazzo, pare
che mai avrà ciò che egli solo
non ha mai avuto. E in quel mare
di disperazione, il suo furioso sogno
di corpi, crede di dover pagare
con l’essere follemente buono...
Così, se bastano due giorni
di febbre, perché la vita sembri
perduta e intero torni
il mondo (e niente m’inebbri
altro che rimpianto) al mondo io,
nel grande e muto sole di settembre,
morendo, non saprei che dire addio...
Eppure, Chiesa, ero venuto a te.
Pascal e i Canti del Popolo Greco
tenevo stretti in mano, ardente, come se
il mistero contadino, quieto
e sordo nell’estate del quarantatre,
tra il borgo, le viti e il greto
del Tagliamento, fosse al centro
della terra e del cielo;
e lì, gola, cuore e ventre
squarciati sul lontano sentiero
delle Fonde, consumavo le ore
del più bel tempo umano, l’intero
mio giorno di gioventù, in amori
la cui dolcezza ancora mi fa piangere...
Tra i libri sparsi, pochi fiori
azzurrini, e l’erba, l’erba candida
tra le saggine, io davo a Cristo
tutta la mia ingenuità e il mio sangue.
Cantavano gli uccelli nel pulviscolo
in una trama complicata, incerta,
assordante, prede dell’esistere,
povere passioni perse tra i vertici
umili dei gelseti e dei sambuchi:
e io, come loro, nei luoghi deserti
destinati ai candidi, ai perduti,
aspettavo che scendesse la sera,
che si sentissero intorno i muti
odori del fuoco, della lieta miseria,
che l’Angelus suonasse, velato
del nuovo, contadino mistero
nell’antico mistero consumato.
Fu una breve passione. Erano servi
quei padri e quei figli che le sere
di Casarsa vivevano, così acerbi,
per me, di religione: le severe
loro allegrezze erano il grigiore
di chi, pur poco, ma possiede;
la chiesa del mio adolescente amore
era morta nei secoli, e vivente
solo nel vecchio, doloroso odore
dei campi. Spazzò la Resistenza
con nuovi sogni il sogno delle Regioni
Federate in Cristo, e il dolceardente
suo usignolo... Nessuna delle passioni
vere dell’uomo si rivelò
nelle parole e nelle azioni
della Chiesa. Anzi, guai a chi non può
non essere ad essa nuovo! Non dare
ad essa ingenuo tutto ciò
che in lui ondeggia come un mare
di troppo trepidante amore.
Guai a chi con gioia vitale
vuole servire una legge ch’è dolore!
Guai a chi con vitale dolore
si dona a una causa che nulla vuole
se non difendere la poca fede ancora
rimasta a dar rassegnazione al mondo!
Guai a chi crede che all’impeto del cuore
debba l’impeto della ragione rispondere!
Guai a chi non sa essere misero
nel misurare nell’anima i fondi
piani dell’egoismo e le derise
pazzie della pietà! Guai a chi crede
che la storia ad una eterna origine
– per candore piuttosto che per fede –
si sia interrotta, come il sole
del sogno; e non sa che è erede
la Chiesa di ogni secolo creatore,
e difenderne gli istituiti beni,
l’orribile, animale grigiore
che vince nell’uomo luce e tenebra!
Guai a chi non sa che è borghese
questa fede cristiana, nel segno
di ogni privilegio, di ogni resa,
di ogni servitù; che il peccato
altro non è che reato di lesa
certezza quotidiana, odiato
per paura e aridità; che la Chiesa
è lo spietato cuore dello Stato.








Poveri, allegri cristi quattordicenni,
i due ragazzi di Donna Olimpia
possono buttare il loro giorno, pieni
di passione nella miscredenza, limpidi
nella confusione: possono andare
trascinati da quel povero impeto
del loro cuore quasi animale,
alle gioie mattutine di Villa Sciarra
e del Gianicolo, gioie di studenti, balie,
giovinette, verso la gazzarra
dei loro pari, che il solicello assorbe
in un patito alone d’erba e d’aria...
Mattine di pura vita! Quando sorde
sono le anime a ogni richiamo
che non sia quello del dolce disordine
del male e del bene quotidiano...
Essi lo vivono, abbandonati
da tutti, liberi in quel loro umano
fervore a cui sono leggermente nati,
perché poveri, perché figli di poveri,
nel loro destino rassegnati
eppure sempre pronti alle nuove
avventure del sogno, che scendendo
dall’alto del mondo, li muove,
ingenui, e a cui essi corrotti si vendono,
benché nessuno li paghi: stracciati
ed eleganti al modo stupendo
dei romani, se ne vanno tra gli agiati
quartieri della gente per cui è vero il sogno...
Anche loro disadorni, ignorati,
a tenersi in cuore il loro bisogno
dell’accorante superfluo – seppure,
ormai, non d’altra classe ma d’altra nazione –
rivedo con le larghe e dure
faccie contadine, l’occhio bruciante
di celeste, le tozze e sicure
membra di atleti dalle basse anche,
altri adolescenti... Sono, i loro calzoni,
sgraziati e quasi goffi, inelegante
il barbaro taglio delle loro chiome,
rasati alle tempie e alle nuche, e alti
i ciuffi disordinati, come
creste di guerra, piume di falchi.
Sono attenti, modesti: non sanno
incredulità, ironia, ma arsi
hanno gli sguardi da un affanno
e da un pudore che mettono a nudo
sempre nelle loro pupille la loro anima:
tanto che non sai se all’inquietudine
di quelle anime l’aria è così nuova
e così chiara, o al vento che schiude
sopra quel loro mondo giovane
il vecchio odore dell’Asia...
Un vento che pare si muova
solo nel cielo intento nella pace
dell’immensità: e sull’immensa
città, spanda soltanto qualche lacero
soffio, come un misterioso incenso.
Sopra la Moscova il duomo
di San Basilio, sul grigio pavimento,
erige come un ragno d’oro addome
ed elitre, senza ormai vita.
Nell’altro estremo della piazza, come
a folle distanza, l’arrugginita
massa del Maneggio, cotta da un Dio
Settecentesco, un po’ russo, un po’ semita,
un po’ tedesco... E dentro il pio
pallore della notte, le muraglie
del Cremlino chiudono al turbinio
della folla, sotto mute luminarie,
guglie e cupolette, ignote
oggi ancora agli occhi proletari...
Migliaia e migliaia di felici gote
di ragazzi la luce della Piazza Rossa
accende, raccolti in cerchi, in ruote,
in file, in quell’immensa fossa
su cui gli astri splendono vicini:
giocano, con semplice e commossa
gioia, come – sotto gli scalini
della chiesa, nella loro piazzetta –
gli ingenui ragazzi contadini.
Si tengono per mano in una stretta
rozza e affettuosa, file di maschi,
circondando qualche giovinetta;
altri, più giovani, intorno, rimasti
senza gioco, si spingono violenti
a guardare coi cupi, casti
occhi, qualcuno che tenti
un passo di danza, alla pura e folta
musica dei primitivi strumenti.
Una marea di girotondi lungo la svolta
della muraglia... Sono questi i figli
della fame, i figli della rivolta,
i figli del sangue, sono questi i figli
dei pionieri che hanno solo lottato,
degli eroi senza nome, i figli
del lontano futuro disperato!
Eccoli sul mondo, ora: e del mondo
padroni. E il mondo no, non è beato
per loro, benché umilmente giocondo
lo guardi il loro occhio: poco
più veste la loro gioventù che il biondo
capo, l’interna forza, il fuoco
del pudore, per le enormi vie, gli enormi
casamenti, stesi sopra il vuoto
della città potente e senza forma,
che accoglie le loro nuove vite.
Ma è religioso l’ardore di cui colme
e quasi cieche alle pupille ardite,
come a donarsi o a testimoniarsi,
tremano le loro anime amiche.






Questi due che per quartieri sparsi
di luce e miseria, vanno abbracciati,
lieti paganamente dei loro passi,
dicono con faccia lieta che mille facce
ha la storia, e che spesso chi è indietro
è primo: così chiaramente incarnate
sono nel loro ingenuo petto
le confuse e reali speranze del mondo,
che possono ogni atto anche abbietto,
ogni miscredenza, ogni inverecondia...
Ma noi? Ah, certo, c’è in ogni errore un lievito
di verità: può essere libero e limpido
ogni occhio più servo e opaco, a ricevere
la vita esterna, non solo per gli istinti
stupenda perché esiste, ma anche
per il pensiero, che ne assiste – vinto,
sia pure, e impotente – l’esaltante
pluralità, la magica stranezza
vivace, le misteriose mescolanze
di grande e povero, l’abbietta
luce e l’eletta incoscienza.
Pietà per la creatura! Ad essa,
a questa pietà spietata, e senza
religione, basta qualunque religione,
anche la cattolica, se un’Esistenza
magicamente diversa pone
nel fondo di quella creatura
stravagante nel vero, alone
che la divora, sia essa dura
per interna paura, tenera
per una nuova, oscura
volontà di esistere, sia essa degenere
o pura, venduta o santa,
eslege o umilmente perbene:
una delle infinite branche della pianta
che frondeggia alla semplice vita,
in città, borgate, tuguri, ponti, antri,
amica nella sua esistenza nemica,
allegra nell’ingiustizia antica,
urlante nell’amore che mendica.
Sì, certo, quanto scolorita,
se reale, può apparire la greggia
che vive, a chi con quella pietà divertita
e sacrilega vi guardi brillare la scheggia
del divino! E consideri divina,
dentro la propria anima attenta, la legge
di un ambiguo, disperato destino:
l’egoismo, la mistificazione,
il capriccio e la durezza del bambino.
Io, bambino in altro modo, per la passione,
e spinto per questo ad essere uomo
con tutto il suo sapore d’umile convenzione
(da cui ingenuamente sono
costretto a essere sempre chiaro
in ogni rapporto, e, per condanna, buono)
mi sforzo a capire ogni cosa, ignaro
come sono d’altra vita che non sia
la mia, fino perdutamente a fare
di altra vita, nella nostalgia,
piena esperienza: sono tutto pietà,
ma voglio che diversa sia la via
del mio amore per questa realtà,
che anch’io amerei caso per caso, creatura
per creatura. Mi voglio diverso: ma
ahi, come so capire coloro che tale figura
dell’anima siano spinti a esprimere!
Col più alto di questi, andavo per l’oscura
galleria dei viali, una notte, al confine
della città, battuta dalle anime
perdute, sporchi crocefissi senza spine,
allegri e feroci, ragazzacci e mondane,
presi da ire di viscere, da gioie
leggere come le brezze lontane
scorrenti su loro, su noi,
dal mare ai colli, nel tempo
delle notti che mai non muoiono...
Io sentivo il sacrilego sentimento
che esaltava il mio amico a quelle
forme dell’esistere, prede d’un vento
che le trascinava sulla terra,
senza vita alla morte, senza coscienza
alla luce: ma gli erano sorelle:
come per lui, lottare per l’esistenza
fu buio in cuore, male, disprezzo
vitale per l’esistenza altrui, adolescenza
umiliante, e felice, in mezzo
al branco dei lupi ben adulti,
loro sì, pronti, aggiornati sul prezzo
della vita: custodi di culti
o padroni di stati, ladri o servi,
arrivisti o autorità, re o ultimi
dei paria, tutti, fino dai più acerbi
anni, nella norma che vuole uguali:
a non capire, a capire senza mai perdersi.
Poi corremmo come in cerca dell’ignaro
Dio che li animava: lui lo sapeva, dove.
Guidava la sua Cadillac di cinematografaro,
con un dito, arruffando con l’altro la giovane
sua grossa testa, parlando, stanco e instancabile...
Giungemmo: dietro a Tor Vajanica,
un vento inaspettato, ora, soffiava:
le file dei capanni, sgangherate, come
rottami, con spruzzi di calce, e la cava
schiena, il biancheggiante addome
d’una barca, erano soli a resistergli.
Due giovinetti, rimasti senza nome,
ci pedinarono un po’, senza insistere,
in qualche loro sordida, calda speranza.
Bruni e tremanti sparvero. E miste
alle spume, all’acqua, lì vicina – tanta
quanta in una pozza di temporale,
nella tenebra di qualche infanzia –
ecco la luce e la bianchezza immortale
del Dio: dritto, vicino, che col fiato
ci bagnava, dall’arruffato mare,
in una colonna salata ed estatica
di pulviscolo, così violento al tatto
che il rombo del frangente s’era smorzato.






Sì, certo, era un Dio... e altri meno pazzi
e stupendi ce n’è. Coi loro sacerdoti,
e, vorrei anche dire, con i loro santi.
Santi poveri, martoriati dai ben noti
dolori, col terribile dovere
di arrivare, senza troppi terremoti,
alla fine del mese, per riavere
in tasca le poche sospirate lire:
impiegatucci, funzionari, leve
di un Partito, per cui vivere e morire.
Felici ti mostrano un paio di scarpe
nuove, un quadruccio buono all’appena civile
parete della casa, una bella sciarpa
natalizia per la moglie: ma dentro,
dietro quell’infantile palpito,
quello stento, ti misurano col metro
della loro fede, del loro sacrificio.
Sono inflessibili, sono tetri,
nel loro giudicarti: chi ha il cilicio
addosso non può perdonare.
Non puoi da loro aspettare una briciola
di pietà: non perché lo insegni Marx,
ma per quel loro dio d’amore,
elementare vittoria di bene sul male,
ch’è nei loro atti. Ma come nel biancore
dell’estetico dio del mare, informe Forma,
mescolanza irrazionale di gioia e dolore,
sbianca l’opacità del gesso, la norma
che svaluta... così arrossa nel rosso
dell’altro Dio – quello che trasforma
il mondo, quello futuro ed incorrotto –
il sangue dei giorni di Stalin...
Non torna nulla. Nemmeno il paradosso
esistenziale, in cui, fertili-aridi,
vivono quasi tutti coloro che conosco:
borghesi colti, esperti di essenziali
infrastrutture, spiriti del bosco
della mondanità, della cultura:
a popolare le pure sere di Piazza del Popolo,
dei nuovi quartieri oltre le vecchie mura,
del centro dove la città s’infossa
in preziosi vicoli scintillanti e luridi...
Genio arreso, con le sue quattro ossa
sotto eleganti vesti, ognuno porta intorno
una faccia intenta, dove gli altri possano
sospettare qualcosa; nei caffè, di giorno,
nei salotti, la sera: ma ognuno cerca
nella faccia dell’altro invano un ritorno
delle speranze antiche: e se vi accerta
una speranza, è una speranza inconfessabile,
nel cerchio della domanda e dell’offerta,
il cui sguardo è come per uno spasimo
di interna ferita: che rende esanimi,
accidiosi, scontenti, spinge a uno sciopero
dei sentimenti, a una colpevole stasi
della coscienza, ad una pace insana,
che vuole i nostri giorni grigi e tragici.
Così, se guardo in fondo alle anime
delle schiere di individui vivi
nel mio tempo, a me vicini o non lontani,
vedo che dei mille sacrilegi possibili
che ogni religione naturale
può enumerare, quello che rimane
sempre, in tutti, è la viltà.
Un sentimento eterno – una forma
del sentimento – fossile, immutabile,
che lascia in ogni altro sentimento
diretta o indiretta, la sua orma.
È quella viltà che fa l’uomo irreligioso.
È come un profondo impedimento
che, all’uomo, toglie forza al cuore,
calore al ragionamento,
che lo fa ragionare di bontà
come di un puro comportamento,
di pietà come di una pura norma.
Può renderlo feroce, qualche volta,
ma sempre lo rende prudente:
minaccia, giudica, ironizza, ascolta,
ma è sempre, interiormente, impaurito.
Non c’è nessuno che sfugga a questa paura.
Nessuno perciò è davvero amico o nemico.
Nessuno sa sentire vera passione:
ogni sua luce subito s’oscura
come per rassegnazione o pentimento
in quella antica viltà, in quell’ormone
misterioso che si è formato nei secoli.
Lo riconosco, sempre, in ogni uomo.
Lo so bene che altro non è che insicurezza
vitale, antica angoscia economica:
che era regola della nostra vita animale
ed è stata assimilata ora in queste povere
nostre comunità: che è difesa,
disperata, che si annida là dove
c’è un minimo di pace: nel possesso.
E ogni possesso è uguale: dall’industria
al campicello, dalla nave al carretto.
Perciò è uguale in tutti la viltà:
com’è alle grige origini o agli ultimi
grigi giorni di ogni civiltà...
Così la mia nazione è ritornata al punto
di partenza, nel ricorso dell’empietà.
E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,
e la governa. Non ha certo rimorso,
chi non crede in nulla, ed è cattolico,
a saper d’essere spietatamente in torto.
Usando nei ricatti e i disonori
quotidiani sicari provinciali,
volgari fin nel più profondo del cuore,
vuole uccidere ogni forma di religione,
nell’irreligioso pretesto di difenderla:
vuole, in nome d’un Dio morto, essere padrone.
Qui, tra le case, le piazze, le strade piene
di bassezza, della città in cui domina
ormai questo nuovo spirito che offende
l’anima ad ogni istante, – con i duomi,
le chiese, i monumenti muti nel disuso
angoscioso che è l’uso d’uomini
che non credono – io mi ricuso
ormai a vivere. Non c’è più niente
oltre la natura – in cui del resto è effuso
solo il fascino della morte – niente
di questo mondo umano che io ami.
Tutto mi dà dolore: questa gente
che segue supina ogni richiamo
da cui i suoi padroni la vogliono chiamata,
adottando, sbadata, le più infami
abitudini di vittima predestinata;
il grigio dei suoi vestiti per le grige strade;
i suoi grigi gesti in cui sembra stampata
l’omertà del male che l’invade;
il suo brulicare intorno a un benessere
illusorio, come un gregge intorno a poche biade;
la sua regolarità di marea, per cui resse
e deserti si alternano per le vie,
ordinati da flussi e da riflussi ossessi
e anonimi di necessità stantie;
i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema,
il cuore tetramente arreso al quia...
E intorno a questo interno dominio
della volgarità, la città che si sgretola
ammucchiandosi, brasiliana o levantina,
come l’espansione di una lebbra
che si bea ebbra di morte sugli strati
dell’epoche umane, cristiane o greche,
e allinea tempeste di caseggiati,
gore di lotti color bile o vomito,
senza senso, né di affanno né di pace;
sradica i riposanti muri, i gomiti
poetici dei vicoli sui giardini interni,
i superstiti casolari dalla tinta di pomice
o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano
beati, i selciati striati di una grama
erbetta, i rioni che parevano eterni
nei loro lineamenti quasi umani
di grigio mattone o smunto cotto:
tutto distrugge la volgare fiumana
dei pii possessori di lotti:
questi cuori di cani, questi occhi profanatori,
questi turpi alunni di un Gesù corrotto
nei salotti vaticani, negli oratori,
nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti:
forti di un popolo di servitori.
Com’è giunto lontano dai tumulti
puramente interiori del suo cuore,
e dal paesaggio di primule e virgulti
del materno Friuli, l’Usignolo
dolceardente della Chiesa Cattolica!
Il suo sacrilego, ma religioso amore
non è più che un ricordo, un’ars retorica:
ma è lui, che è morto, non io, d’ira,
d’amore deluso, di ansia spasmodica
per una tradizione che è uccisa
ogni giorno da chi se ne vuole difensore;
e con lui è morta una terra arrisa
da religiosa luce, col suo nitore
contadino di campi e casolari;
è morta una madre ch’è mitezza e candore
mai turbati in un tempo di solo male;
ed è morta un’epoca della nostra esistenza,
che in un mondo destinato a umiliare
fu luce morale e resistenza.
.
( Pier Paolo Pasolini, da "La religione del mio
tempo" ).






Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

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