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sabato 19 dicembre 2020

Pasolini - Ragionamento sul dolore civile

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Ragionamento sul dolore civile
Pier Paolo Pasolini
Il Setaccio,
anno III,
numero 2,
Pag. 3

dicembre 1942



   Il pensiero dell'infinito ci ha ormai distaccati dalle umili ed affannose tradizioni dell'esistenza famigliare; già il fiume, il bosco, il prato e la vigna che protessero l'infanzia delle nostre madri e di noi, sono fissati dietro i nostri passi, da una ferma nostalgia, da un sogno che non muta. Di sera, andiamo nel nostro campo o nella nostra casa, e lì - tremando - ascoltiamo battere il tempo ed affiorare gli anni e le voci; così, lentamente, nei nostri dolcissimi luoghi, ci edifichiamo il sepolcro.
   L'infinito che -nelle spoglie dell'ignoto e dell'immenso-ha nei secoli tratto gli uomini al moto, ora giace stanco e chiuso nei propri confini, davanti a noi che non abbiamo un gesto o un grido per cancellarlo o conquistarlo. La vigna o il focolare sono l'infinito (talvolta con lontane grida di fanciulli, o scrosci di pioggia, o, nella stanza vicina, il canto della madre che invecchia).
   Così sembra che -nel cerchio delle ansie umane, che i secoli hanno dispogliato dai suoi misteri - noi ci sprofondiamo, senza curiosità, inerti a un desto e vigilante letargo, a una nenia che canta l'inconoscibile attraverso gli affettuosi simboli del passato che ritorna e del presente che se ne consola dolorosamente; sembra, insomma, che, nitidi di un'esperienza di secoli, padroni di noi stessi, si sia raccolto il deserto intorno a noi, un deserto sensibile al nostro solo canto, dove riaffiorino disseccati nei rari simboli della casa natia, o della madre o d'altro che ci è caro, quei concetti che in altri tempi hanno teso il cammino dell'uomo: l'ignoto, la gloria, i viaggi, la lotta, la patria, Dio. Questa solitudine poetica, questa turris eturnea esiste: ma non è peccato.
   Non è peccato perché dal deserto che è nostro- dove siamo soli - noi non deviamo, sbandati da un'incomposta retorica pietà verso gli uomini che ci sono intorno, ma piuttosto li assumiamo, parte della nostra stessa natura, ad un amore che da egoistico - senza tradirsi, ma anzi rimanendo fermo nella tradizione della sua unica esistenza - diviene civile. (Al di là di ogni schema idealistico o superumanistico, in questo è da riconoscere una sorta di cosciente umiltà: parte della nostra stessa natura, ho detto, e tale riconoscimento è avvenuto senz'altro nel più ingenuo dei modi.) 
   Così, alcuni di quei concetti che ho sopra nominato, nel nostro deserto ritornano più puri: li abbiamo riedificati, non per contemplarli, ma per amarli più castamente. Ci siamo messi in un nuovo moto - nuovo per noi, come fu nuovo per i morti, e come sarà nuovo per i nascituri - e in questo ci sentiamo più liberi e trepidi a ritentare la vita. Un moto d'amore (che a noi sembra nuovo, anzi è nuovo, perché se così non fosse un passo dell'esistenza umana sarebbe inattuato), simile a quello che spinse la misurata anima greca a mari ignoti, al pédion pletos àperon che estinse Bruno nel rogo o Battisti sul patibolo. 
Noi siamo forse più umilmente uomini, perché più vicini a un infinito non più materiale, e conchiuso entro confini familiari alla nostra sofferenza, che ne sarà maggiore. La nostra ricerca non ci si propone in un senso di avventura, di epopea o retorico progresso, che risuona amaramente al nostro orecchio, ma ridotta al solo pensiero, ci si presenta piuttosto come memoria che s'infutura nel dolore. E in questo siamo tutti di una stessa sta tura: manca l'eroe, che come un faro ci guidi costruendo gli eventi: questi saranno piuttosto frutto o premio della fratellanza o amore civile. 
   Così hanno riacquistato valore quegli antichi attributi del vivere umano che sembravano esausti dal lunghissimo uso: la solidarietà, il progresso, la carità, i costumi. Ma soprattutto vorrei soffermarmi sul concetto di patria, che, nel suo significato estremamente astratto, sembra stentare a riproporsi, sul nostro dolce deserto, attraverso un simbolo che lo purifichi. Eppure questo è il concetto che, al di là di ogni chiarificazione critica -forse sopra ogni cosa parte della nostra natura - si è insinuato con più dolente nostalgia nel nostro petto, con un impeto ed una commozione, come è raramente accaduto nella nostra vita. (Forse è il peso del sangue, forse sono le voci che il padre andava dettando alla sorda infanzia e che hanno fruttificato, come certi semi in luoghi incredibili.) 
   Del resto si può credere poeticamente nella patria, come si può credere poeticamente in Dio. E una fede che, imitando la vera, la equivale: ed è forse il più nobile mezzo per conquistarla. Noi siamo orgogliosi di una siffatta fede nella patria.
   Ma le recenti condizioni del tempo e i fatti della guerra, volevano piuttosto avviare il discorso - dopo le necessarie premesse - ad un commento del dolore civile. Non dovrei qui ripetere come questo-nel nostro nuovo senso della vita, l'infinito che ci raccoglie - viene a dispogliarsi dei vecchi ripieghi retorici, di cui l'avevano adornato, sopra gli altri, i nostri padri dell'Ottocento. Non carità, non pietà, non beneficio, non aiuto o lamento, è esso un dolore che si esaurisce nella coscienza della • sua necessità. E un attributo dei popoli nobili, è un frutto di secoli di fratellanza. Dovrò io esortare gli italiani alla storia? Ricordare la loro giovinezza e le loro antichissime origini? Forse non sarebbe del tutto inutile. Ma è accertato che la qualità soverchia in valore il numero: così mi rivolgo - quasi tremando - a coloro che sono coscienti e quindi responsabili. La storia si merita. Il premio è in diretta corrispondenza con la sofferenza del desiderio. Sarà più grande la gioia di chi avrà più disperatamente sperato. Questi sono i termini del dolore civile, ed i suoi fini. Più che le vite offerte - un sacrificio senza nome, che ogni giorno si ripete centinala di volte, il più crudele dei doveri, il più doloroso dei mezzi - verrà a contare davanti alla storia, la possibilità di amore che la patria avrà ottenuto dagli uomini. È perciò che ardentemente mi rivolgo a chi può intendermi, acché egli soffra di amore anche per i troppi che la natura e l'educazione non hanno reso capaci a questa purissima necessità. La patria è chi l'ama: e in questo pensiero la fede non mi acceca. 


Pier Paolo Pasolini







Biblioteca Universitaria di Bologna, collocazione 2118/PER. 10220.

Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).

I documenti digitalizzati appartengono alle raccolte di:
Biblioteca dell'Archiginnasio
Biblioteca Universitaria di Bologna
Centro studi-archivio Pier Paolo Pasolini - Bologna
Archivio storico dell'Università di Bologna
Biblioteca Cantonale di Lugano  



 Fonte:
http://badigit.comune.bologna.it/mostre/pasolini42/index.html 
Creative Commons Attribuzione 3.0.



Curatore, Bruno Esposito

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