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venerdì 18 marzo 2022

Pier Paolo Pasolini - Che fare col "buon selvaggio"?

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Che fare col "buon selvaggio"? 
di Pier Paolo Pasolini

 Scritto nel 1970 e pubblicato postumo su “L’Illustrazione Italiana”, febbraio-marzo 1982 
ora in Saggi sulla Politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999. 


Noi borghesi abbiamo sempre saputo benissimo «che fare» col «buon selvaggio». Prima ne abbiamo negato l'esistenza, deridendo l'inventore della formula.
Un sacrificio in campo romantico trovava risarcimen­to in campo prima illuminista e poi positivista.
In seguito, dal momento in cui non è stato più possibile sostenere la rimozione, abbiamo adottato altre due misu­re: da una parte l'integrazione reciproca tra la cultura per eccellenza (la nostra) e la cultura (ammessa) del «buon selvaggio»; dall'altra parte il riconoscimento oggettivo di quest'ultima cultura come un «insieme» esaustivo una volta per sempre della totalità, in strutture immodificabili (Lévy-Strauss). Il trionfalismo della Negritudine (con Senghor che ne sventolava il vessillo) era il centro della prima soluzione; nella
seconda soluzione si celebrava il nuovo cinismo noetico.
La dignità umana per noi borghesi è la dignità virile; anche la donna, nella sua volontà di emancipazione, ha, per coazione, come scopo quello di fruire per diritto e mimesi della dignità virile (così come un negro america­no medio lotta per essere simile a un executive bianco).
Questa identificazione della dignità umana con la di­gnità virile è il fondamento del razzismo Ciò che il maschio bianco (e per mimesi la sua femmina) trova di schifoso nel maschio di un'altra razza è la sua mancanza di dignità virile, o una dignità virile di tipo diverso. Nel primo caso egli riconosce a se stesso come per carisma il diritto al genocidio delle popolazioni di Raccoglitori nell'America Latina. Tale genocidio è ben più atroce (se ci potessimo fondare su tali scale di valori) di ogni altra strage in Vietnam o in Eritrea: tuttavia anche gli uomini bianchi buoni (dai comunisti tradizionali, agli intellet­tuali di sinistra, agli studenti) non si scandalizzano di fronte alle stragi di Raccoglitori: le sanno, ma le rimuo­vono anch'essi, come cose di minor portata politica e umana.

Uomini la cui dignità coincide con la dignità virile più o meno come per noi bianchi, cioè i musulmani (a qual­siasi razza essi appartengano) non sono oggetto di odio razziale se non secondario.
Un esercito di tali uomini, precisamente quello dell'ora destituito Abboud, hanno compiuto nel basso Sudan un atroce genocidio: hanno praticamente elimi­nato dalla faccia della terra il popolo dei Denka: nessu­no si è accorto di tale genocidio, se ne è parlato come di una fiaba.
Non si vede, del resto, perché un borghese avanzato non debba aver paura di essere mangiato da maschi dal­la dignità virile diversa dalla sua (e presumibilmente - dato l'infantilismo clinico di tale terrore - più forte); op­pure non debba aver desiderio di mangiare maschi dalla dignità virile inconsistente, che si offrono come vittime, come agnellini pasquali.
La dignità virile bianca e non bianca si fonda su reli­gioni monoteiste, cioè contadine. Tutti coloro che cre­dono in un unico Dio analogo (personale) hanno una analoga idea della dignità virile: che è una imitazione di quel personaggio chiave che è il padre.
Non c'è studente o intellettuale, per quanto ribelle o rivoluzionario, che non ricrei attraverso la dignità del suo corpo e del suo comportamento, la dignità del padre.
Un indù non ha la dignità virile di un europeo o di un musulmano: i modelli a cui egli si adegua sono altri da quelli forniti dal prepotente e ottuso Dio Genitore.
Il «buon selvaggio» esiste; esiste oggettivamente; esi­ste una felicità selvaggia; e un vero e proprio stato di fe­licità selvaggia. I Denka che fanno una vita comunitaria, non conoscono il denaro (usano il baratto), non cono­scono i vestiti (vanno nudi, con un filino di perle al col­lo), non conoscono un Dio unico (sono animisti): sono una popolazione felice. L'ho visto io, con i miei occhi. Ora i monoteisti li hanno distrutti, incapaci di sopporta­re forse quello stato di felicità «inintegrabile». (Il prete­sto è stata una guerra di religione: infatti degli ingenui e caparbi missionari, per lo più veneti, stavano follemente catechizzando il popolo Denka.)
Anche i Masai vivono una felicità «selvaggia»: ogget­tiva, reale, sperimentabile. Sono animisti nomadi pasto­ri. Se vengono imprigionati, muoiono, come certe razze di uccelli o come quel ragazzo del Boccaccio che decide di morire di dolore «tirando a sé tutti i fiati». I Masai ci ringraziano tanto, ma rifiutano la nostra cultura. Si ten­gono la loro, di cui del resto anche noi non sapremmo che farcene (altro che integrazione reciproca! altro che ottimistiche sintesi idealistiche e marxiste!). Un bellissi­mo giovane maschio Masai, alto, forte, barbaricamente coperto di collane, braccialetti, anelli, è totalmente privo di quella che noi chiamiamo la «dignità virile»: egli è giocherellone, scioccherello, ridanciano, vezzoso e cre­dulo come una bambina.
L'idea dell'uomo maturo vestito di grigio, efficiente, pulito, forte, o del giovanotto ben tosato, con sobrie ca­micie, calzoni meticolosamente casti se puritano (e tutto di un grado economicamente più basso e meno asettico se cattolico del sud), non trova applicabilità alcuna nei maschi, del resto dotati di tutte le migliori qualità ma­schili, del popolo Masai: un tipo clerico-fascista è im­pensabile calato nel corpo di un Masai.
Non tutte le civiltà contadine hanno prodotto regimi faraonici, attraverso il modulo del monoteismo. La degenerazione è avvenuta in seguito. La città greca è infat­ti impensabile fuori dal politeismo: la sua pluralità aveva nella specializzazione degli Dei una specie di archetipo. Alcibiade si vestiva come un Masai.
San Paolo e Maometto hanno reso monoteista il mon­do contadino storico: personaggi come Alcibiade hanno cominciato a divenire dei «diversi», incapaci di raggiun­gere e poi difendere la dignità virile mimata dal padre; e i poveri popoli rimasti a un grado anteriore dell'evolu­zione religiosa (!) sono cominciati ad apparire razzisticamente inferiori. Il monoteismo ebraico aveva prefigura­to tutto questo.
I Raccoglitori e i contadini animisti o politeisti hanno così cominciato a formare un «mondo inferiore»: anche nel Terzo Mondo ci sono delle Gerarchie!
Contadini monoteisti divenuti piccolo-borghesi, i re­visionisti russi frequentano il Terzo Mondo e contattano il «buon selvaggio» con la stessa sicumera virile dell'exe­cutive americano.
Ho visto a Hodeida nella pista dell'aeroporto abban­donata nel deserto giungere una macchina nera, enor­me, con le tendine: non vi era contenuto né un vescovo né un generale, ma un buon Padre russo, vestito di gri­gio: autorità dalla solida struttura paterna tra i gracili ye­meniti segaioli e mezzi froci, pieni di grazia e di stracci.
Per i Cinesi il discorso forse è più patetico. Anch'essi frequentatori apprendisti del Terzo Mondo, vi ci arriva­no carismatici e dissociati; si mettono a fare i fratelli mag­giori o le mamme - per lo più invisibili e inavvicinabili.
Fanciulli sono i somali, che vengono dalla loro bosca­glia, se sono animisti (già un po' foschi e «difesi» se musulmani): inurbati a Mogadiscio trovano il papà di Casa­le Monferrato o di Forlimpopoli, che, le sue membra, le ha sepolte chissà dove: in lui c'è la dignità virile che le difende.
Accanto a questo papà c'è oggi quello sovietico, an­che lui con un pietrone sopra il cazzo, sposato, pieno di dignità, protettore, compassionevole e severo, ma del tutto incapace di «parlare» col buon selvaggio.
Il governo somalo, socialista, cosa fa? Cerca di impor­re ai cittadini il modello della dignità virile del mondo monoteista contadino piccolo-borghese occidentale (e orientale): chi riconoscerebbe un somalo, una somala e un somaletto, se non dalla tinta, nelle figure di quegli enormi cartelloni che reclamizzano il regime e la mono­gamia, con la scritta inaudita: «FAMIGLIA SANA PER UNA SOCIETÀ SANA»? Siamo in pieno Terzo Mondo.
Il buon selvaggio inurbato ha come ideale quello di servire da bravo figlio: fare il servitore, il facchino, il sol­datino, l'autista: riservandosi una privacy, in cui com­portarsi senza alcuna dignità (cui si adegua pubblica­mente come un automa, obbediente).

Certo le piccole tribù sparse per la foresta (ottanta circa solo nella Costa d'Avorio, ognuna con una cultura e una lingua radicalmente diverse) rendono i propri vil­laggi dei piccoli Lager, dove autotorturarsi nell'obbe­dienza di tabù millenari: essi non sono certo in possesso di una nozione liberatrice di libero amore: ma offrirgli in cambio il perbenismo di una famigliola sana...
Ho pianto di vere lacrime, davanti a un idoletto della tribù Baule, fatto di legno e filamenti vegetali; ho pianto perché quello era il piccolo nume contadino del Lazio di Turno. Lacrime su un mondo perduto anche nelle sue ultime propaggini: infatti il monoteismo contadino do­po essere stato per tanto tempo modulo e strumento di potere viene buttato a mare dal potere industriale.
Strano! Il modello di un «consumatore» non può più essere un modello di dignità paterna! Il consumatore dev'essere un uomo leggero, infantile, volubile, curioso, giocherellone, credulo. Il compratore è sostanzialmente una fanciulla. S'infrange il monoteismo, col Padre che dà, non prende; s'infrange con i suoi domini storici della piccola borghesia occidentale e rossa, lasciando il posto a un politeismo di Beni donati da un Padre che non vuo­le farsi imitare?
Del resto, nel cuore della civiltà europea e americana, chi dissente dalle sue regole, istintivamente precorre i tempi, rinunciando per prima cosa alla dignità virile, cioè dissociandosi dal padre: tutta la gioventù dissen­ziente si veste, si muove, si comporta in modo che, pri­ma di tutto, si distingue dal modo di vivere fascista, o potenzialmente fascista, nei paesi imperialisti: la man­canza di dignità nel vestire, anzi la scelta ben determina­ta di vestiti da buffoni, la debolezza muscolare, i capelli lunghi come le donne, il pacifismo, l'indegna ansia di accattonaggio, l'aspirazione a dormire in grotte, in piccio­naie, in cantine, o sotto i ponti. Un giovane dissenziente è privo di dignità virile come un Raccoglitore dell'Ame­rica Latina che vaga per la foresta, e caca dove si trova, come le adorabili bestie.


1970, P.P.Pasolini

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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