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lunedì 14 dicembre 2020

Medea di Pasolini - di G. B. Cavallaro - 1970

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Medea di Pasolini
di G. B. Cavallaro
Il Dramma,
ANNO 46 - NUMERO 2 
FEBBRAIO 1970

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

In una recente intervista (≪ Il Dramma≫, n. 12) ( L'intervista la trovi QUI ) a Piero Sanavio, Pasolini collocava la Medea sulla strada che lo portava a un prossimo film su San Paolo, un San Paolo visto come uomo di fede ma lacerato profondamente. Alcune parole dette allora, e rilette oggi, ricordano nel film la lunga lezione del centauro Chirone al giovane Giasone. Che cosa e infatti la Medea? E' la rievocazione mitica, nostalgicamente ricomposta, del tempo della religione, cioè, come egli diceva, di ≪ un rapporto di tipo religioso con la realtà, cioè considerare la realtà non naturale ≫. Questo è il tema della prima parte, e stupenda, del film. Qui Pasolini compone con perfetta intuizione l’immagine di un mondo sacrale, riscoperto con la memoria: memoria di affascinate letture,  e di riti d’infanzia, che costruisce immagini uniche e irripetibili, come ha osservato Callisto Cosulich, dal significato assoluto e dal sapore magico. Il racconto ripercorre con attenta passione il mito degli Argonauti, la storia di Giasone e il racconto della spedizione degli argonauti alla conquista del vello d’oro. Sono le nostre letture della prima ginnasiale, che Pasolini è andato a verificare in Anatolia nello stupendo villaggio roccioso della regione di Kayseèri e negli esterni inimmaginabili  della Valle di Urgùp in Cappadocia. Dove tutti si aspetterebbero tuttavia una minuziosa descrizione di fatti, e quindi la spedizione dei cinquanta eroi greci nelle remote lande della Colchide, abbiamo invece soprattutto  una ricostruzione etnografica, figurativamente stupenda, degli usi e della vita dei barbari della Colchide,  dei loro sacrifici umani. Non per estetismo pero Pasolini ha assunto il partito della bellezza a tutti i costi  ottenendo alle singole immagini il valore e la vibrazione  di sacre figurazioni, ma obbedendo a quello che  è il suo intimo stato d’animo, la sua religiosità (≪ tutto, - egli ha detto appunto - mi appare sotto una forma non dico miracolosa nel senso convenzionale, ma quasi, insomma, sacrale ≫).

In Pasolini c’è conflitto fra sacralità e religione istituzionalizzata, o per meglio dire fra religiosità come atteggiamento umano e poetico e giudizio sulla religione vista come fenomeno arcaico, preindustriale, coacervo di elementi irrazionali collegati alle epoche magiche. Da un lato c’è la religione divenuta istituzione e legge, cioè chiesa, in contraddizione con se stessa per conservarsi (come la Medea della tragedia), dall’altra il sentimento che tuttavia la contestazione al  mondo razionalizzato e consumistico, ≪ gruppi di umanità che franano fuori dalla tensione produzione-consumo ≫, può aversi solo dallo spiritualismo e dai grandi fenomeni di eresia, come i beats e gli hippies, eccetera. La religione, certo non una religione di tipo irrazionale come quella del mito, dopo essere stata il prima, può essere il poi del mondo neocapitalistico.

Si capisce per questo che il film di Pasolini appaia quasi bloccato sul piano dinamico del racconto, e che, governato da schemi cosi obbliganti e da tali remore, non possa abbandonarsi al gioco dei fatti e degli svolgimenti o delle psicologie. E ne risente in particolare la seconda parte della narrazione, quella dove è fedelmente trascritta, ma per scorci marginali e quasi di sbieco, l’umanissima tragedia di Euripide. Pero si ergono alcuni grandi momenti, brandelli sublimi di invenzione lirica. Nel conflitto tra un mondo barbarico e istintivo e una civiltà ordinata e riflessiva, laica, la tragica follia di Medea si colma di poesia anche se la costruzione psicologica del personaggio è assente. Ecco la doppia descrizione dell’uccisione di Glauce, figlia del re di Corinto, vista come progettazione è ripetuta poi nella realtà; e la dolce sequenza, pur nella obiettiva crudeltà dei fatti, in cui Medea uccide i due suoi figlioli, più un distacco che un omicidio. In questi momenti Pasolini è dalla parte della protagonista di un mondo barbarico e sacrale e ne comprende intimamente furori, contraddizioni e dolori, soprattutto quel sentirsi abbandonati dalla propria forza e ragion d’essere. E l’impiego originalissimo delle musiche tibetane, persiane e giapponesi sottolinea il processo di sacralizzazione assunto  dal regista.

Un film come questo giunge quasi inaspettato e fuori posto, nella sua castità, e il suo silenzio (è un film quasi muto, documento di un sentimento, pagina di lettura: come un appunto gramsciano, greve di riferimenti e connessioni ma sempre restituzione lucida e moderna di una sublime opera di poesia) sembra stridere in tempi di opere chiassose e volgari, di film da  cassetta, o stupidi e rumorosi anche se dotati di qualche intenzione, e di breve respiro. Pasolini continua a comportarsi da figlio caotico e disubbidiente del mondo borghese (il caos come programma polemico, come rivolta) e la sua disobbedienza assoluta si verifica nello stile anche di questo film; un’altra opera che è impossibile
annettere, consumare, esaurire nei significati facili  e nel bello delle immagini, ma che anzi volutamente  sconnette delle abitudini, invita allo sgradevole (teste  mozze, fratricidi, matricidi, dialoghi gettati in scena come oggetti superflui o come pure didascalie, il primato  dato al momento plastico e figurativo, tanto da scandalizzare i critici fini e da far dire che in fondo Pasolini non è ancora entrato in vera dimestichezza col cinema e le sue immagini). La verità è che Pasolini
ha costruito ancora una volta il racconto (non diversamente dal solito, ma con più maturazione e convinzione)  sul filo delle sue immagini interne e dei suoi ritmi, delle sue ragioni poetiche e dei significati che quella lettura ha evocato in lui. E fra stile e autore si crea un rapporto di unicità e di novità, di invenzione nell’apparente rinuncia alla costruzione narrativa e al  disegno dei caratteri e delle situazioni. Pasolini è esploratore di universi e non un suscitatore di ripetizioni teatrali o di melodrammi, e i mezzi da lui impiegati, se cosi li vogliamo chiamare, pur cosi lontani dagli standards narrativi, non potevano essere diversi. Anche se  sembra di vedere delle vignette colorate dalle immagini fisse, anche se la tragedia di Medea e esposta, come scrive un critico, en raccourci e, come suggerisce un secondo, in ≪ brandelli ≫ difficili da decifrare.

Per mettere d’accordo tutti, ci sono sempre le vedute  del paesaggio lagunare di Grado, e la piazza dei Miracoli di Pisa, e i costumi favolosi inventati da Piero Tosi, e le limpide architetture della immaginata Corinto.

E' che, sia pure non di facile lettura e discutibile come ogni cosa al mondo, da una parte ci sono film come Medea e come Antonio das Mortes di Glauber Rocha (seguito e sviluppo dei motivi dell’altro Deus e  o Diabo na terra do sol) allegorizzante e misticheggiante più dell’altro, ma di una truce quanto affascinante vena popolare, dall’altra ci sono invece Il giovane normale
di Dino Risi, o Lovemaker (≪ L ’uomo per fare l’amore ≫) di Ugo Liberatore, o La mia notte con Mauri di Erich Rohmer, il regista ex critico già autore di un divertente quanto inosservato La collectioneuse. Film che per un verso o per l’altro qualche cosa da dire l’avrebbero, certo sempre di più dei campioni d’incasso come Un maggiolino tutto matto o Il prof. doti. Guido Tersilli o Agente 007 al servizio segreto di Sua Maestà con la sua inutile orgia di inseguimenti e inverosimiglianze, ma che si fermano alla superficie di un gioco caricaturale, o sfiorano il paradosso con timida mano, o si perdono in un mare di parole senza porsi questioni impopolari come quella del rapporto contenuto-forma, come si diceva una volta, o del linguaggio, dei segni, come diciamo oggi.

I professionisti del box-office, che hanno dovuto già arrendersi ai contenuti rivoluzionari e ai registi giovani e hanno visto che alla fine gli uni e gli altri possono rivelarsi produttivi, non intendono rinunciare pero alla garanzia prestata dagli standards spettacolari. I film, essi dicono, devono rispondere alle ≪ regole che rendono  interessante una pellicola ≫, sia questa Indianapolis pista infernale o Fellini Satyricon o II commissario Pepe. Il pubblico e in grado di digerire opere diversissime, purchè sian tutte legate al denominatore comune ≪ della validità e dell’interesse ≫. Ma quali sono i requisiti della validità? L ’intelligenza, si afferma, la carica poetica, la personalità drammatica, la cultura possono trasformarsi in successo commerciale, senza compromessi,purchè
evitino i tentativi sperimentali per essere applicate secondo le costanti e ormai ≪ consacrate ≫ regole del gioco scenico. Un discorso che suona quasi irriverente quando lo si applica, come e in questo caso, a registi come Fellini e Visconti. Si insiste nel voler puntare sui grandi incassi, sui film d’alto costo, sul cinema di consumo e sulle sue regole evidentemente sconfitte in tutto il mondo, sul gigantismo cinematografico, gridando al lupo nei confronti dello sperimentalismo.


E' evidente, tutti ormai lo stanno sostenendo, che la pura prova di virtuosismo tecnico, lo sperimentalismo e l’ermetismo, l ’underground per partito preso hanno mostrato i loro limiti come fatto culturale e come risposta di pubblico; un film che e visto da pochi non può diventare ne un fatto industriale ne soprattutto culturale in tempi di mass-media. Ma fra il kolossal e l’underground  c’è
 tutto uno spazio da concedere all’invenzione linguistica e al discorso dell’autore, se non vogliamo che il cinema muoia nella stanca ripetizione del Modello  Unico. Questo spavento che ha preso tutti, registi  grandi e produttori piccoli, e l’ultimo segno di disperazione del nostro cinema, costretto all’innaturalezza  dalle sue abnormi strutture. Tutti, o quasi, non escluso il pur bravo e impegnato Pontecorvo, si danno alla prosa facile e all’alta divulgazione per assicurare la massima circolazione al loro cosiddetto Messaggio. Ecco la fuga dal montaggio, ecco l’attesa del grande attore,  ecco la necessita del grande schermo, della storia intreccio, dei luoghi comuni teatrali più deleteri.

Ma e possibile in queste condizioni trasmettere un qualsiasi messaggio che non sia uno stereotipo vestito  di buone intenzioni, in realtà segnato da un linguaggio  di classe che contraddice ai suoi significati? Morandini ha impostato acutamente la questione su ≪ Il Tempo ≫,  settimanale, negando la priorità del contenuto rispetto  alla forma e la stessa validità del compromesso cosi pressantemente chiesto dal mondo economico. Ciò che  l’artista ha da dire, corrisponde esattamente alla forma che assumerà la sua opera, non c’e un discorso che si  possa pronunciare in molti modi, adottando quasi uno sperimentalismo a rovescio: ≪ L’errore, anzi, il peccato di Pontecorvo e di credere che il fine giustifichi i mezzi... è l’errore tipico di chi crede che il contenuto sia qualcosa che sta “ dentro ” e che lo stile sia qualcosa che sta “ fuori ” ... Il modo di apparire e il modo  di essere, cioè la maschera e il volto ≫. Siamo perfettamente d’accordo, contro tutti i terroristi delle sante regole che stanno strozzando il cinema over ground-,se non si corre ai ripari.

G. B. Cavallaro
Il Dramma, ANNO 46 - NUMERO 2 - FEBBRAIO 1970

(Trascrizione dal cartaceo di B. Esposito)





Curatore, Bruno Esposito

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