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lunedì 14 dicembre 2020

Perchè Pasolini - Intervista con Vittorio Gassman

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Perchè Pasolini
Intervista con Vittorio Gassman
Tratto da Il Dramma

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

Un incontro con Gassman è molto stimolante, perché in lui, nella sua esperienza di attore, si sintetizzano gran parte dei motivi dell’esperienza scenica dal nostro dopoguerra ad oggi. Il suo lavoro ha compreso un repertorio vastissimo, ed è stato marcato anche da lunghe assenze dalla scena e una vasta esperienza come attore cinematografico. A Gassman viene voglia di fare un’infinità di domande; personalmente, qui, vorrei riportare un colloquio che comprende qualche appunto-riflessione sull'attore e il suo ultimo lavoro teatrale, « Affabulazione » di Pasolini.





D. Che senso ha, per lei, essere attore: forse essere un mattatore ?


R. E' difficile giudicare se stessi. Mi chiamano « mattatore » da tanto tempo, ma perché ho dimostrato, anche con i fatti, una certa nostalgia per una necessità ad una forte presenza sulla scena. La prima parte della mia carriera è stata marcatamente egocentrica, alla ricerca di una piattaforma molto accentratrice. Ma quello che può avere un minimo di interesse è proprio la nostalgia, che corrisponde ad una mancanza, ad una lacuna, di una concezione più libera, più fantastica dell’attore stesso, rispetto a quella che è la proposta comune, media, nel nostro paese soprattutto. C’è stata — e qui vedo anche una certa responsabilità nell'opinione specializzata italiana — una visione dell'attore in termini di livellamento: troppo razionale, credo. Si è tentato disperatamente di spegnere, così, quelle che rappresentano le radici storiche ed esistenziali del ruolo e l’immagine dell’attore. Io non voglio fare delle « riproposte », perché non credo alla stessa riproposta della religiosità del teatro in una direzione classica: in questo mi trovo d’accordo con Pasolini. Penso al « Manifesto per un nuovo teatro »: se non rappresenta una vera e propria rivoluzione teorica, lì Pasolini dimostra lucidamente che non esiste più quel tipo di religiosità diretta che si ascriveva alla nostra più vicina tradizione, come non esiste più una concezione possibile di teatro, inteso come « culto sociale » o « storico »: perché non esiste più la società per rispecchiare questa realtà. Ma Pasolini stesso insiste sulla permanenza del rituale: altrimenti il teatro perde la sua funzione originaria e non ha più senso. Allora « rituale » vuol dire anche questo, secondo me: un diniego totale del realismo nella scena. Il teatro non è un fenomeno realistico. E’ un fatto simbolico, comunque emblematico: altrimenti non è teatro. In questo senso mi sento un mattatore: amo la visione dell’individualità, liberata anche nella zona dell’irrazionale. E, in questo senso, vedo, anche se da lontano, la piccola radice magica di questo mestiere.

D. Mi viene spontaneo, a questo punto, chiederle se, nel suo lavoro di attore segue un preciso modello. Penso, ad esempio, ai grandi tracciati ascritti all'interpretazione attoriale: da una parte la linea psicologistica di uno Stanislavski, dall’altra quella « straniata » di un Brecht e, infine, la cifra « critica » di Diderot.


R. Per rispondere sinteticamente a questo ampio problema, dirò che mi sento di condividere gli insegnamenti di un Diderot. Mi viene naturale di « non-nuotare » nel personaggio, di non affogarmi totalmente nella mimesi, di non essere prigioniero di quella parte « sentimentale » delle immagini che, per conto loro, esprimono dei sentimenti. Lo stesso Brecht avvertiva, comunque, che le sue regole di teatro non dovevano essere prese alla lettera. Doveva, però, rimanere un necessario distacco col personaggio: può essere l'ironia, l'autocritica, la voglia di comunicare altre idee e non solo gli abbandoni delle passioni e dei sentimenti.Comunque, se dovessi definire il lavoro dell'attore direi, con Camus, che egli è il corpo attraverso il quale si esprimono le storie della grandezza. Attraverso il corpo e, quindi, nell’acme della passione, della tensione vocale, anche. E’ fatale: bisogna « tornare indietro » perché altrimenti tutto si annulla, non si vede. L’urlo protratto, non è più un urlo: è un silenzio. Ecco: in questo sono diderotiano. Certo, per Diderot, c'è poi anche una indicazione costante di ironia, e io credo molto alla distanziazione ironica. E’ uno dei motivi per cui, dopo tanto lavoro sui classici, mi piace, ogni tanto, tuffarm i nella farsa più sfrenata, nella corrida, nella « bagarre ».A questo punto, parliamo del suo debutto nel teatro (1943 con « La Nemica » di Niccodemi). Percorriamo, pian piano, le tappe fondamentali del suo lavoro: le esperienze del teatro popolare e gli anni sessanta. Fino al suo rifiuto per la scena. E poi il « ritorno »: la proposta di « Kean », l’ultimo spettacolo, prima di questo, sotto il tendone romano. Sono tappe di una costante attenzione al teatro per una sua possibile soluzione anche sociale, meglio sociologica. Gassman parla con serenità di tutti quei momenti; riconosce i suoi errori, ritrova, in fette di passato, un entusiasmo quasi adolescenziale che si proietta nell’esperienza di questi giorni.

D. Parliamo di « Affabulazione », di questo dramma che ci indica un « teatro di parola ». Pasolini, da un lato, mi sembra molto chiaro in questa sua definizione; al tempo stesso lascia aperti spazi ad equivoci e ambiguità.


R. In realtà il testo di Pasolini è molto ambiguo, in tutti i sensi. Un testo criptico, misterioso, indecifrabile, credo, anche a lui stesso. E in questo risiede la sua teatralità: una teatralità completamente anomala, diversa, allusiva. La bellezza di « Affabulazione » è tutta contenuta nel linguaggio, nella parola vista non solo come momento di comunicazione razionale, ma anche come espressione totalmente libera. In Pasolini vi è più di un motivo per pensare al teatro di Artaud: come nel grande pensatore e drammaturgo francese, anche in lui la parola teatrale è vista come un germe di infezione; un teatro che è vicino alla pestilenza, con la differenza, squisitamente pasoliniana, di una indomabile vocazione poetica e una incredibile innocenza.

D. Che cosa l'ha interessato, in particolare, del testo di Pasolini ?


R. Credo di essere rimasto affascinato da un'opera che ha, in sé, una vitalità e un senso attivo della morte; di una morte da cui possiamo apprendere i lontani albori che ci spinsero a vivere. Sono sicuro che in me, nella mia personale esperienza, questo spettacolo lascerà una grande traccia. Questa volta sono salito sul palcoscenico non per esibirmi, ma quasi per trovare un ristoro terapeutico. In Pasolini c’è un senso virile della disperazione, accanto al coraggio e la disposizione al sacrificio. E’ il coraggio che ammiro di Pasolini, subito dopo la bellezza e la poesia della sua lingua. Moravia ha detto che « Pier Paolo Pasolini è stato il più grande maestro della lingua vivente, e anche un grande manierista ». Era capace di scriveve di qualunque cosa: era un fabbro della lingua tra i più affascinanti che la cultura italiana del dopoguerra abbia mai conosciuto.

Dante Cappelletti


Curatore, Bruno Esposito

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