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giovedì 7 gennaio 2021

Risposta a Pasolini - IL "PROCESSO,, AL CONSUMISMO - di Luigi Firpo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





IL "PROCESSO,, AL CONSUMISMO 
Risposta a Pasolini 
LA STAMPA Anno 109 - Numero 223 
Sabato 27 Settembre 1975 

Ben tre colonne, sul Corriere del 9 settembre, occupano le « risposte » di Pasolini a Leo Valiani, interlocutore invocato, ed a me, contraddittore imprevisto e sgradevole. Non meritavo tanto, per aver semplicemente fatto notare quanto la proposta pasoliniana di sottoporre a processo una dozzina di notabili democristiani fosse paradossale, inconsistente e, se gettata là per scherzo, troppo pubblicitaria, se detta sul serio, puerile. 

Per quanto mi riguarda, la replica è così debole, sconnessa, quasi nevrotica, che non meriterebbe di essere raccolta, se non offrisse il destro per approfondire il discorso su quella che è ormai diventata la bestia nera di Pasolini, l'onta suprema del mondo, e cioè il consumismo. Pel rimanente, egli incomincia con lo spiegare a me, che da anni insegno all'Università Metodologia della ricerca storica, quali sono le nuove discipline ausiliarie dello storico moderno. Il tono è quello del bambino saccente, d'una sprovvedutezza quasi patetica. Segue poi, martellante, l'accusa di non aver letto i suoi Scritti corsari, venendo meno con ciò ai miei doveri, comportandomi « poco onestamente » ed esponendomi all'ingiunzione severa, ripetuta « ossessivamente », di leggerli subito. 

Da tanti anni cerco di leggere in media un libro al giorno, e se mi basterà la vita, se mi reggeranno gli occhi, so che riuscirò a leggerne in tutto un ventimila: quanti se ne pubblicano oggi in Italia in poco più d'un anno, in qualche giorno nel mondo. Perché, fra quei pochi, avrei dovuto leggere obbligatoriamente gli Scritti corsari di Pasolini? Per ricordare a qualcuno che due più due fa quattro, debbo prima chiosare le sue opere complete? Di fronte alla proposta di un processo fanta-politico, mi sono limitato ad osservare che si trattava appunto di fantasie, di una pura divagazione, ma più di altre arrischiata e rischiosa perché camuffata da cosa seria, e perciò fuorviante e mistificatoria, in un momento grave e in un Paese che ha un bisogno tremendo di uscire dal mondo dei sogni e dall'inconcludenza verbosa, per rimettere i piedi sulla terra e riprendere contatto con la dura realtà della storia.

Nel mio tentativo di sdrammatizzare « furbescamente » la furia anti-consumistica di Pasolini io avrei rivelato « tutta la volgarità della classe intellettuale italiana ». Tralascio il rozzo modo di inveire senza aver ben capito di che cosa si parla, né insisto nel sottolineare che la classe intellettuale italiana non è tutta volgare (per chi scriveremmo, se no?), né domando a Pasolini a quale rude ceto di lavoratori del braccio vaneggi di appartenere. Parliamo di consumismi, con calma. 

Condivido appieno la ripugnanza profonda per questo sperpero volgare, per l'oggettivazione triviale d'una presunta e illusoria felicità, per questo dissipare tempo e risorse, lavoro e attenzione in cose inutili e frivole, quando non sono addirittura degradanti o segnate dalla turpitudine ultima e suprema, che è quella dell'idiozia. Ma il consumismo va pure scrutato e notomizzato senza passione, con occhi di scienziato. Pasolini che propone? Tornare alle diligenze a cavallo, al secchio del pozzo, all'olio della lucerna, alla processione del santo patrono? Di lodatori nostalgici del passato non sappiamo che farcene, perché il compito della generazione nostra, di tutte le generazioni, è di guardare avanti, di « progettare » (magari inconsapevolmente) il futuro. 

So bene che Pasolini non è, e che gli è intollerabile essere definito, un reazionario. Ma cosa importa che non lo sia, se nelle conclusioni ultime, nelle finali proposte (o nel l'assenza di proposte attendibili) il suo atteggiamento è arcaizzante, sanfedista, intinto di falso folclore e di rimpianti d'un passato irrecuperabile? Guardare con occhi impietosi, con orrore e disgusto, il mondo che ci sta d'attorno a poco giova se non si hanno validi modelli alternativi da suggerire, e capacità di analisi seria della realtà e delle sue radici storiche profonde. 

Il circolo vizioso del consumismo (e la parola « vizioso » suona qui nel suo duplice senso di ottusa circolarità ripetitiva e di passiva degradazione), oggi, può essere spezzato soltanto in virtù di una rieducazione di massa, radicale e capillare, cioè attraverso una tirannia moralistica che abbia prestigio e forza bastanti ad instaurare un nuovo monachesimo sociale. Per rieducare ai consumi « buoni » (e che non siano solo visite guidate ai musei, campionati di scacchi e cori campestri) bisogna reprimere radicalmente i consumi in genere, rendere coattiva l'uniformità, diffondere una povertà di Stato austera e idealistica, imporre una dittatura del Bene (presunto), in una parola: incatenare la libertà. 
Ma se gli italiani capissero questo, non so quanti sarebbero disposti a pagarne il prezzo fino in fondo. Quel giorno, un'ipotetica elezione darebbe al partito comunista soltanto qualche migliaio di voti (compreso il mio, magari) e tutti gli altri voterebbero per la motoretta, il frigo-bar, i ponti lunghi, le settimane corte, gli aperitivi, i digestivi, i lassativi, i censori permissivi, i porno-western distensivi, i falsi agonismi sportivi, gli stracci decorativi, gli ebetismi televisivi: tutto ciò, in una parola, che nutre l'illusione di esistere delle anime morte. 

Quando vedo il volto di Berlinguer, così giovanile e pur tanto segnato, cosi triste nel profondo, d'una tristezza che non è solo quella lunga e chiusa della sua Sardegna, penso che soprattutto questo io accori: l'idea di dover educare al comunismo un popolo godereccio, individualista e anarcoide anche più di quello della Georgia, che pur tanto fa penare gli uomini di Mosca, e troppo abituato a credere che la disciplina sociale si esaurisca nei cortei e nelle adunate, dopo di che ogniuno ritorna a farsi allegramente gli affari suoi. E tutti gli intellettuali insicuri, che dopo il 15 giugno fan la coda per staccare la tessera, debbono aver aggiunto a quella tristezza una goccia amara di commiserazione.
Ci sarebbe, dirà qualcuno, un'altra via per estirpare il consumismo: quella dell'educazione aperta e mite, degli esempi edificanti, della spontanea redenzione. Ma è un rimedio che può funzionare, ammesso che funzioni, soltanto a tempi lunghissimi. Se non c'è riuscito in duemila anni il cristianesimo, temo che le tante religioni novelle pullulanti, mistiche o magiche, filosofiche o sociologiche, siano destinate a fallimenti clamorosi. Prima di aver raggiunto qualche risultato, le bombolette spray dei fissatori per capelli o degli insetticidi avranno già distrutto la sfera d'ozono che ci protegge e saremo tutti morti. 

Dunque Pasolini straparla: fra le tante accuse gravi che da più parti si muovono a Fanfani, a Moro, ai loro amici, quella di non aver saputo estirpare il consumismo è solo una freddura: ci vuol altro che qualche notabile democristiano per contenere un fenomeno planetario, una ecumenica follia suicida. Basti un esempio del suo modo impressionistico, frivolo, occasionale, di affrontare problemi di tanta portata: a suo dire, uno sconvolgimento radicale avrebbe squassato l'Italia negli ultimi sei o sette anni, al punto che gli sarebbe toccato di vedere « la più simpatica gioventù d'Italia trasformarsi nella più odiosa ». Si tratta, per chi non lo sapesse, della gioventù romana proletaria e sottoproletaria delle « borgate », quella che un tempo, se ho ben capito, aveva la faccia allegra e sfaticata di Ninetto Davoli e adesso si sarebbe trasmutata in un'accolta di criminali « impietriti in una ferocia da SS ». Con l'emotività propria dell'artista che confonde le parvenze mutevoli con la realtà profonda, l'attimo con l'eterno, Pasolini dimentica che quella gioventù « simpatica » (ma a me ed a molti simpatica non fu mai, anche se merita pietà e soccorso) già nel passato aveva fornito ai suoi film e ai suoi clan un discreto drappello di ceffi patibolari, e ai suoi romanzi copia di non edificanti esempi. 

La verità è che la triste e trista gioventù delle baracche cresce, ora come allora, alla scuola della miseria e del vizio precoce, ma le sue radici di cinismo, violenza, avidità sono cosi profonde, che risalgono al paganesimo latente nel mondo contadino, alla tracotanza romanesco-papalina, pronta al coltello e usa ad insultare anche i morti,  cioè ad uno dei più grevi impasti di materialismo, sensualità e indolenza della nostra storia. E sono secoli ch'esso fermenta, non sette anni. E solo una sciagurata retorica patriottarda ha fatto sì che d'una tale argilla si foggiasse il crogiolo e il modello di quello sterminato aggregato composito che è oggi Roma. 

Non voglio continuare. Ma questa è, in ultima istanza, la contraddizione suprema: nel mondo che Pasolini vagheggia non ci sarebbe posto per lui, per il suo modo di vivere, per i suoi film lirici e scatologici, per i suoi ragazzi di vita, per la sua sconfinata libertà di egocentrico complessato che sentenzia a diritta ed a manca, su tutto e su tutti, pasticciando, contraddicendosi, ma anche stimolandoci con la sua tensione poetica, il suo impegno ringhioso, l'indignazione confusa ma sincera. Si goda, fin che può, questo poco di libertà che ci resta e che altri difende, anche per lui.  Non si creda onnisciente e infallibile. Misuri il senso delle parole. E rimedi, di questo suo ultimo articolo, una frase in cui afferma, parlando di se stesso: 


<< Si è ironizzato, si è riso, si è anche accusato. Ciò che dico è indegno di altro: io non sono una persona seria>>. 

Bene, è già qualcosa. Forse, finalmente, gli sta sorgendo il dubbio.

Luigi Firpo

* * * * *

Luigi Firpo nell'articolo del 31 agosto 1975 risponde in modo polemico a due articoli scritti da Pasolini e pubblicati uno sul settimanale Mondo il 28 agosto del 1975 ( "lettera aperta di Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi DC" ) e l'altro apparso sul Corriere il 24 agosto 1975 ( Il Processo ), nel quale Pasolini dice che è necessario fare un Processo alla DC elencando dei veri e propri capi d'imputazione


Una cosa che non trova una chiara risposta, è il fatto che sia apparso prima l'articolo numero 2, cioè “ Il processo “ ( il 24 agosto 1975 sul Corriere ) e successivamente ( il 28 agosto 1975 su Il Mondo), l'ipotesi di “processo” avanzata da Pasolini nella sua lettera aperta al direttore Ghirelli - Sembra lecito presupporre che Pasolini abbia inviato prima l'ipotesi di processo alla Dc al direttore Ghierelli per farla pubblicare in anticipo rispetto alla pubblicazione apparsa sul Corriere.

All'articolo di Luigi Firpo del del 31 agosto 1975, Pasolini risponde il 9 settembre del 1975 dalle pagine del Corriere, con un articolo titolato “ Risposte”, e 28 settembre 1975, sempre dalle pagine del Corriere, risponde ad un articolo di fondo apparso sul quotidiano La Stampa il 14 settembre 1975 ( il Processo: e poi? ), affermando che “ I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” ( Perchè il processo ).

Luigi Firpo riprende a polemizzare con Pasolini il 27 settembre 1975, sempre dalle pagine del quotidiano La Stampa, con questo articolo dal titolo “ Il “processo al consumismo, Risposta a Pasolini” nel quale sferra il suo attacco contro il Poeta-Intellettuale. Pasolini replica il 16 ottobre 1975, dalle pagine di «Il Mondo», con un articolo titolato “Come sono le persone serie?”.


Circa due settimane dopo, Pasolini verrà assassinato All' idroscalo di Ostia in circostanze ancora da accertare e quindi il Processo da lui ipotizzato non ha avuto un seguito.


Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

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