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giovedì 7 gennaio 2021

Quel reazionario di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare



Quel reazionario di Pasolini

Di Luigi Firpo, pubblicato da “La Stampa”
(anno 109 – Numero 200 – Domenica 31 agosto 1975.)




In una lettera aperta pubblicata sul Mondo del 28 agosto e già pubblicata sul Corriere del 24 agosto 1975, Pier Paolo Pasolini lancia una proposta politica radicale. Una distanza ormai incolmabile separa il potere democristiano (il «Palazzo», come egli lo chiama) dal Paese reale. Una visione settoriale degli innumerevoli problemi che ci affliggono e ci illudiamo di poter risolvere uno per uno, viene artificiosamente suggerita da chi ha tutto l'interesse a dissociare le responsabilità e ad evitare una presa di coscienza dell'insieme. Solo la follìa e l'omertà dei commentatori politici e degli intellettuali impedisce agli italiani di capire a qual punto sia giunta la degenerazione del nostro sistema politico.Non si tratta di affrontare questioni specifiche, come il sottogoverno o la delinquenza minorile, Bensi il male ignobile che ci corrode, la nostra peste globale; Pasolini la identifica con la DC, una << mafia oligarchica provenuta dal fondo della provincia più ignorante>>. La risposta vincente, il toccasana, sarebbe un grande processo penale indetto da PSI e PCI, che chiamasse sul banco de gli accusati «Andreotli, Fanfani, Rumor e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche Presidente della Repubblica)».
L'ipotesi, lo confesso, è suggestiva; la tiratura dei rotocalchi aumenterebbe, se ne verrebbero a sapere delle belle. Ma non avrà seguito e resterà come una ipotesi fantapolitica, un sogno poetico. Uno degli interlocutori che Pasolini chiama in causa, l'unico vero «politico», cioè Leo Valiani (gli altri, Moravia a parte, sono giornalisti oppure — chissà perché? — letterati democristiani), ha già risposto col solito garbo, ma respingendo al mittente: i poeti facciano i poeti e non escano dai boschi di Elicona. Né giova a Pasolini mescolare ai propri interventi la sua sensitiva carica esistenziale, diluire il discorso con richiami alla propria ascetica e provvisoria solitudine campestre, preludio certo di nuovi ciak e di nuovi comizi.
Pure il discorso ha un risvolto serio, che merita di essere analizzalo. Quali dovrebbero essere i capi d'imputazione nel grande processo ai notabili DC? Pasolini getta nel calderone, alla rinfusa, «una quantità sterminata di reati». Si va da voci generiche e mal definibili, come l'«indegnità» o il «disprezzo per i cittadini», al plateale «allo tradimento a favore di una nazione straniera », che sarebbe poi l'adesione italiana alla Nato, cioè un capo d'accusa che presuppone totale assenza di senso della realtà storica e, semmai, chiamerebbe sul banco degli accusati anche Moro (che Pasolini considera invece «rispettabile») e lo stesso De Gasperi.
Fra le accuse più concrete bisognerebbe poi distinguere quelle di inettitudine politica dalle altre, che implicano gravi responsabilità morali e non di rado anche penali. Tra le prime stanno la colpevole incapacità di reprimere il neofascismo, la distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, il caos nella scuola, negli ospedali, nei pubblici servizi, l'esodo «selvaggio» dalle campagne, «la stupidità delittuosa della televisione», in una parola l'insufficienza, il provincialismo, il venir meno dell'efficienza che è lecito esigere da chiunque abbia posto la propria candidatura alla gestione del potere democratico. In questo senso, e in quanto portatori di questi valori, Pasolini dice che i comunisti sarebbero i veri democristiani, gli eredi di questa vocazione tradita.
Al secondo gruppo di accuse sono da ascrivere le manipolazioni del denaro pubblico, gli intrallazzi con petrolieri e industriali (a torto Pasolini aggrega anche i banchieri, perché questi sono democristiani di nomina governativa), le connivenze con la mafia, la collaborazione col servizio segreto americano e gli illeciti impieghi di quello italiano, la «distribuzione borbonica delle cariche pubbliche ad adulatori », in sostanza, la -abe del sottogoverno e del privilegio corporativo.
Resta infine una triade di accuse enigmatiche sinché non se ne sia decifralo il significato pasoliniano, esoterico o gergale che sia. Si tratta delle responsabilità democristiane nella «degradazione antropologica degli italiani, nell'esplosione (anche questa selvaggia) della cultura di massa e dei suoi mezzi di comunicazione, infine — nientedimeno — nel «decadimento della Chiesa».
Quando parla di degradazione antropologica, Pasolini allude alla civiltà dei consumi, alla vorticosa produzione del superfluo, che distrugge al tempo stesso la natura e i valori umani. Qui un fenomeno mondiale, collegalo all'incremento del reddito pro capite, all'identificazione incolta del benessere con lo spreco e con i vani simboli di promozione sociale, viene addebitalo alla DC, come se davvero il suo potere giungesse a tanto e senza riflettere sul fatto che un'inversione di tendenza sarà possibile solo mediante una profonda quanto improbabile rivoluzione (o rieducazione) culturale, oppure mediante una drastica repressione dei consumi...

Luigi Firpo 


(Continua a pagina 2 in quarta colonna)


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Quel reazionario di Pasolini

(Segue dalla 1" pagina) 


...imposta dalla crisi mondiale o da una dittatura, sia pure moralistica.
Lamentare l'esplosione «selvaggia» della cultura di massa, proprio mentre si denuncia il servilismo della pseudo-cultura televisiva, è non solo contraddittorio, ma, nell'intimo, reazionario. Una cultura non selvaggia è una cultura pianificata, una cultura asservita; anche l'ultimo settimanale languoroso, scandalistico, pornografico, è pure un progresso per chi non leggeva altro che didascalie di santini e cartoline precetto. Meglio una cultura di massa selvaggia ma libera, che una cultura « civilizzata » dai ministeri e dalle censure.
Infine è del tutto grossolano l'equivoco che imputa alla DC il decadimento della Chiesa. Pasolini non ha mai celato le sue nostalgie con l'antico mondo rurale, con le sue masse <<ignoranti>>, le sue tradizioni suggestive, i suoi valori schietti ed elementari. Di quel mondo la Chiesa era il centro, ma è un mondo tramontato per sempre, travolto dall'istruzione elementare, dai trattori, dalla nuova realtà sociale. Credere che la DC abbia danneggiato la Chiesa significa non comprendere che in realtà so è ridotta a rilevarne in modo inconscio ma palese, talvolta impudico, il decadimento: ne ha rappresentato la parte nuda ed esposta, la parte più compromessa col mondo, la fornicazione con gli idoli di Mammona.
Se qualche volta i notabili DC rinfrescano le loro aure in Vaticano e ne traggono suggestioni o divieti, ben più spesso sì vedono le anticamere dei ministeri, degli stessi Parlamenti, formicolale di tonache in cerca di esenzioni, elargizioni, deroghe, privilegi. Se per Chiesa si intende quella che Cristo fondò sulla roccia, non dovrebbero bastare quattro untorelli a scalzarla: Non praevalebunt! Quella che è finita invece, o sta finendo, in Italia, è la Controriforma, il paternalismo di una gerarchia che una fedeltà ottusa e una cultura arretrata hanno dissociato da tempo dalla comunità degli uomini vivi e pensanti. La DC, arrogandosi temerariamente il nome di «cristiana>> così arduo da reggere per chi non sia disposto a portare con esso anche il peso della Croce, non ha fatto che mettere a nudo tale progressione irreversibile.
Questo processo dunque non si farà, e ingenua mi pare anche la fiducia di Pasolini, che da esso spererebbe di veder balzare alla luce, sotto gli occhi del cittadino ignaro, la <<Verità storica inconfutabile>>. Da Socrate a Dreyfus l'esperienza insegna che i verdetti processuali sono, tra le verità storiche, le più confutabili. E poi, quale il tribunale, quali i giudici? Processi del genere possono essere soltanto postumi, cioè legittimazioni a posteriori di un nuovo regime. Se il paragone con il processo a Papadopulos calza, è perché si tratta, per l'appunto, di un processo a un dittatore caduto. Come si può processare chi ancora detiene il potere?
Ebbene, questo mezzo c'è, ed è molto più silenzioso, radicale, implacabile, definitivo, di quello astratto e metaforico che Pasolini vagheggia: è il processo quotidiano, lento, sofferto, che si celebra nel profondo delle coscienze oneste, nel segreto di ciascuno di noi, là dove l'esperienza dell'oltraggio, del mule, della vergogna, matura in indignazione crescente, si assoda nel consapevole rifiuto, assume la durezza irrevocabile della condanna. Finché c'è libera stampa e libera discussione, non occorrono giudici togati: sempre se ne trovano per stilare sentenze di morte contro i dittatori caduti e petizioni servili ai nuovi padroni. Verona insegni. Non occorrono gabbie né manette, carabinieri né giurati: bastano le poche assi di una cabina elettorale, una piccola scheda. Basta la presa di coscienza di tutti gli uomini di buona volontà.

Luigi Firpo 



Luigi Firpo in quest'articolo del 31 agosto 1975 risponde in modo polemico a due articoli scritti da Pasolini e pubblicati uno sul settimanale Mondo il 28 agosto del 1975 ( "lettera aperta di Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi DC" ) e l'altro apparso sul Corriere il 24 agosto 1975 ( Il Processo ), nel quale Pasolini dice che è necessario fare un Processo alla DC elencando dei veri e propri capi d'imputazione


Una cosa che non trova una chiara risposta, è il fatto che sia apparso prima l'articolo numero 2, cioè “ Il processo “ ( il 24 agosto 1975 sul Corriere ) e successivamente ( il 28 agosto 1975 su Il Mondo), l'ipotesi di “processo” avanzata da Pasolini nella sua lettera aperta al direttore Ghirelli - Sembra lecito presupporre che Pasolini abbia inviato prima l'ipotesi di processo alla Dc al direttore Ghierelli per farla pubblicare in anticipo rispetto alla pubblicazione apparsa sul Corriere.

All'articolo di Luigi Firpo del del 31 agosto 1975, Pasolini risponde il 9 settembre del 1975 dalle pagine del Corriere, con un articolo titolato “ Risposte”, e 28 settembre 1975, sempre dalle pagine del Corriere, risponde ad un articolo di fondo apparso sul quotidiano La Stampa il 14 settembre 1975 ( il Processo: e poi? ), affermando che “ I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” ( Perchè il processo ).

Luigi Firpo riprende a polemizzare con Pasolini il 27 settembre 1975, sempre dalle pagine del quotidiano La Stampa, con un articolo dal titolo “ Il “processo al consumismo, Risposta a Pasolini” nel quale sferra un attacco deciso e determinato, Pasolini replica il 16 ottobre 1975, dalle pagine di «Il Mondo», con un articolo titolato “Come sono le persone serie?”.


Circa due settimane dopo, Pasolini verrà assassinato All' idroscalo di Ostia in circostanze ancora da accertare e quindi il Processo da lui ipotizzato non ha avuto un seguito.

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Curatore, Bruno Esposito

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