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mercoledì 22 dicembre 2021

Intelligenza di Pasolini, di Gianni Scalia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Testo e relazione di Gianni Scalia 
curatela del testo di Guido Monti 
Intelligenza di Pasolini


Il titolo di questo mio intervento può sembrare ovvio ma vorrei intenderlo nel senso del genitivo soggettivo e oggettivo. Intelligenza di Pasolini, la sua capacità di conoscenza e di comprensione della realtà, la nostra intelligenza di lui. Pasolini continua a far questione. Nel senso che è anche una nostra questione. Per pochi come Pasolini, hanno coinciso destini generali e vicenda esistenziale; colui che diceva di aver gettato il corpo nella lotta non solo “con le armi della poesia”, ha vissuto una esistenza aux extremes biografica e conoscitiva. Vorrei azzardare che Pasolini fa questione in quanto è una “nostra” questione aperta, ha indicato che ciò di cui si può o si vuole tacere si deve ancora parlare. È questo il nostro rapporto con Pasolini, di cui sono state pronunciate definizioni diverse: personalità posseduta da una contraddizione insuperabile, da una antinomia insolubile e da una virtuosità solum sperimentale, letteraria?
Per finire: Pasolini “reazionario” o “conservatore” o “regressivo”, con qualche concessione alla virtuosità sperimentale. Se provassimo a dire che Pasolini è stato un testimone? Il termine ha una risonanza religiosa, legata a “martire”. Il senso più proprio è di chi attesta, perché vede con i propri occhi e ascolta con i propri orecchi. Testimone oculare ed auricolare (come direbbe Canetti). Un testimone, dico, nel suo tempo, non soltanto del suo tempo. In questo senso Pasolini è “inattuale”, per gli storicisti che ancora siamo?! Inattuale lo si chiama talora, e non al modo nietzscheano. A me sembra che Pasolini non sia né regressivo né progressivo né trasgressivo. Ricordo di aver ascoltato dalla sua viva voce e di aver letto verso la imminente fine della vita, una sua risposta: “questa società in cui viviamo non produce soltanto merci, ma rapporti sociali in quanto tali prima di ogni specificazione”. E dovremmo ancora meditare sulla nozione di omologazione pasoliniana. Ho detto più sopra testimone pro-fetico. Pasolini ha avuto (l’abbiamo letto in lui) premonizione della sua morte, ha avuto presagi di ciò che sarebbe accaduto, ha anticipato situazioni a venire lungo la sua decifrazione del tempo storico. Profeta come è noto, in senso biblico non è colui che predice il futuro, è colui che apocalitticamente ( nel senso etimologico di disvelamento), rivela appunto nel presente ciò che altri non vedono, o non vogliono vedere, occultati dall’ignoranza delle cause profonde, dall’indifferenza morale o civile: dalla complicità palese o tacita. Alcune delle cose che diceva il Pasolini “corsaro”: il processo alla DC o la scomparsa delle lucciole, non sono delle metafore, non c’è in esse, come dire, una impunità poetica (che lo dicano gli impegnati o i disimpegnati per ragioni contrarie o complementari). Rileggendo Pasolini in vita, sono stato colpito da una sua locuzione percepita come una sorta di evidente legittimazione (auto legittimazione): la volontà di essere poeta. Pasolini diceva di parlare “en poète”, per esempio nel discutere con linguisti e semiologi. Si tratta di comprendere cosa intendesse. Non sosteneva di fronte alla scienza del linguaggio i diritti non-scientifici o meta-scientifici della poesia, quanto piuttosto un atteggiamento del pensare poetico, cioè un atteggiamento en poète. Sia in sede teorica e conoscitiva, sia nella sede dell’operare poetico sperimentale, non affermava il privilegio e il predominio della lingua poetica in termini idealistici di poesia e non poesia, di specificità o di totalità o in termini stilistici di scarto della norma o in termini semiologici di funzione comunicazionale. Piuttosto entreremmo in una teoria generale del linguaggio come sistema di segni, magari con implicazioni nella concezione pasoliniana del cinema come semiologia della realtà. Basterà ricordare tralasciando di entrare nel merito, che c’è piuttosto in Pasolini l’intuizione di una concezione ontologica del linguaggio poetico per cui esso è la realtà, scriveva, detta con la realtà. “Evocare la realtà con la realtà” e ancora il poeta come “mago che non nomina le cose ma le mostra”. Proviamo a pensare una conoscenza e un agire (anche politico) en poète. All’inizio degli Scritti corsari diceva: “non ho alle spalle nessuna autorevolezza, se non quella che proviene paradossalmente dal non averla avuta o dal non averla voluta, dall’essermi messo in condizioni di non aver niente da perdere”. E nella Nuova gioventù: “parla, qui, un misero e impotente Socrate/che sa pensare e non filosofare/il quale ha tuttavia l’orgoglio/non solo d’essere intenditore/ (il più esposto e negletto)/ dei cambiamenti storici, ma anche/di essere direttamente e disperatamente interessato”. È singolare la distinzione tra pensare e filosofare, è quella heideggeriana fra denken e philosophieren. È un pensare en poète? Si potrebbe parlare anche della sua concezione storica e tentare di dissipare alcuni equivoci interpretativi in proposito. C’è una frase dell’ultimo Pasolini fatta di tre parti che vorrei chiamare marxianamente formula trinitaria: “così non si può andare avanti. Bisogna tornare indietro e ricominciare daccapo”. Pasolini sta parlando di ciò che è accaduto e sta accadendo. Proviamo ad interpretare. Pensare che la storia sia una progressione (andare avanti) è una concezione progressista negata dalla prima fase. Se ad essa si dà un senso progressista, Pasolini è allora un pensatore radicale, frainteso per un pensatore antiprogressista, un conservatore o un reazionario. La radicalità pasoliniana consiste non nella negazione o nella fine della storia ma nel fatto che la storia e l’esistenza nella storia si reifica nella autoriproduzione e nella conservazione.

Diceva: “bisogna tornare indietro”, anche questa frase può essere interpretata ingannevolmente come il ritorno a ciò che non è più, è perduto e di cui si abbia nostalgia. Anche il termine regressione deve essere compreso non in termini storicistici. C’è un passo pasoliniano in cui si parla di regressione “nei piani dell’essere”: siamo ancora tanto obbligatoriamente storicisti da non riconoscere un’altra accezione, non dico solo psicoanalitica ma ontologica, della regressione? L’indietro di cui parla Pasolini vuol dire che in una epoca determinata della storia, la presente, di storia non c’è né più, è perduta e non può tornare? Si tratta del passato, della tradizione di una’ epoca esaurita e per questo da superare? Pasolini, anche qui è radicale: tornare indietro è rivolgersi al “punto in cui il mondo si rinnova” per cui la storia non sia più una nostra rappresentazione storicistica…

La terza frase dice: “ ricominciare daccapo”. Tra il “daccapo” che sembrerebbe il futuro (l’a-venire) e “l’indietro”, che sembrerebbe il passato, la storia è un destino di anteriorità, che gli faceva dire che non è la vita al servizio della storia ma la storia al servizio della vita, non solo come vissuto ma come ‘ciò che da origine’. In un’altra frase è detto: “non successività: prima e dopo, nella mia storiografia sono categorie poetiche”.

Non posso esimermi, avendo parlato dell’origine, dal parlare della fine. Pasolini pensa e parla a partire dalla fine. Partire dalla fine è la radicalità del suo pensare poetico? Pasolini ha sempre pensato l’esistenza singolare e storica come coappartenenza di vita e morte: è la dimensione se vogliamo, religiosa di Pasolini, nel senso non tanto di una religione rivelata, confessionale, istituzionale, bensì la presenza del sacro, l’indissolubilità reciproca di nascita e morte che ha nella morte il senso della sua espressione: “o esprimersi e morire o restare inespressi e immortali”. La stessa natura “non ha alcuna naturalezza”. Del resto diceva, semplicemente, di essere “sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei suoi contemporanei”.

Pasolini che ha contestato e denunciato la modernità storica, lo si può allineare fra i critici novecenteschi del “moderno attuale”? è questa l’interpretazione quasi vulgata? Ha parlato di “dopo storia” e di “nuova preistoria”, formule enigmatiche da adoperare con “l’acutezza” interpretativa non abituale in molte considerazioni della sua opera. L’omologazione, provocata dalla modernità, non è da intendersi come la relazione, in varie forme di analisi, fra arcaico e moderno cioè come la perdita o la sostituzione dell’arcaico e del primitivo e la vittoria finale della modernità o (post-modernità come anche si dice). Piuttosto che la contraddizione antinomica dei due termini evocata in questo incontro dal titolo Inattualità di Pasolini, Pasolini ha pensato “l’omologazione” come il riprodursi dell’auto-dissoluzione dell’unità (nella nuova modernità del “dopo storia”) di arcaico e moderno, di compimento ed esaurimento, in cui è quella che si dice la “maturità” della storia, ossia la perdita totale della memoria. Un pensiero dominante di Pasolini, dicevo, è la coappartenenza di nascita e di morte: alludeva al vangelo di Giovanni (in esergo a un suo testo in dialetto, Il giorno della mia morte), alla parabola del chicco di grano “ se il chicco di grano non muore, non fa frutto”. Così è da sottrarre al testimone martire ogni ipotesi martirologica, come è da sottrarre alla morte una significazione sacrificale. È ciò che indica la citazione giovannea.

Possiamo continuare ad interpretare Pasolini come il difensore storicizzante del passato, della tradizione, delle tracce scomparse di ciò che è perduto, affermandosi lui stesso una “forza del passato più moderno di ogni moderno”? naturalmente non post moderno. Il passato, la tradizione non significa ciò che è superato, confutato, abolito dal presente-futuro: è ciò che non ritorna nel senso che non sorge il punto in cui il mondo si rinnova cioè ritorna vivente.

Il passato non è ciò che è stato, è l’essente stato che appartiene all’essere di cui abbiamo perduto memoria nella nostra presente dimenticanza e smemoratezza. Il pensiero di Pasolini è sempre un pensiero rammemorante non storicizzante. Ci sono dei versi splendidi in friulano che cito in italiano: “non piango perché quel mondo non torna più/ma piango perché il suo tornare è finito”. Se vogliamo andare avanti si deve tornare indietro, “anche se occorre un coraggio/ che chi va avanti non conosce”. E di seguito in contrappunto: “piango un mondo morto ma non sono morto io che lo piango”.
Piangere: l’etimologia insegna che significa percuotere, colpire. Tutto Pasolini nel suo percorso è forse in quell’essere percosso e percuotere, scandalizzato e scandaloso nella, diceva, “bestemmia, preghiera sacra”. Il suo planctus non è di nostalgia o di commemorazione, ma di protesta. Mi sia concessa una ultima etimologia: pro-testari significa attestare pubblicamente, davanti a tutti, e tectis. È la vocazione pedagogica di chi ha predicato l’eresia (vissuta e praticata come haeresis), scelta, distinta dalle attribuzioni a Pasolini di predicatore laico o religioso. Ripeteva: “l’eresia richiede una grande pazienza:/ bisogna ripetere mille volte la stessa cosa,/ per predicare una predica che veramente distrugga”. La radicalità, meglio direi, che inattualità di Pasolini, sfugge alle interpretazioni reciprocamente estremistiche ossia conservatrici o progressiste. Lui si dichiarava un “folle moderato”, un “ribelle paziente”. Si tratta di intendere una pazienza ribelle e una ribellione paziente. Pasolini è “ancora” sempre da leggere sono persuaso. A questo figlio della terra friulana, e alla sua vita vissuta intensamente in amicizia e in conoscenza, ha sorriso la poesia più intensa e attiva e combattiva e a un tempo una volontà assidua di comprensione storica ed umana; a questo figlio è stato assegnato un destino crudele che ancora piangiamo.

Fonte:
http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/6008123AEF2F26D4C1257B1000557E14?opendocument



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Curatore, Bruno Esposito

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