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giovedì 25 febbraio 2021

Un‘intervista di Renzo Paris ad Alberto Moravia - L‘ESPERIENZA DELL’INDIA

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





L‘ESPERIENZA DELL’INDIA

Un‘intervista di Renzo Paris ad Alberto Moravia

Tratta da PIER PAOLO PASOLINI, L‘ODORE DELL’INDIA

© 1990 Ugo Guanda Editore S. p. A. , Viale Solferino 28, Parma
Prima edizione Le Fenici Tascabili aprile 2000


Terza ristampa gennaio 2002



R. P. — Nel ’61, dopo aver pubblicato La noia, insieme a Pasolini e a Elsa Morante hai fatto «l’esperienza dell’India» , come la definisci in Un’idea dell’India. La rifaresti?


A. M. — Probabilmente sì. L‘India è inesauribile. Ci si va sempre per la prima volta. O per l’ultima. E in tutti i casi, chiunque voglia farsi un’idea di ciò che è «veramente» il fenomeno religioso, deve andare in India. Ci sono stato troppo poco per farmi quest’idea. Per questo, ci tornerei.

R. P. — Le tue polemiche con Pasolini fanno ormai parte della storia culturale del nostro paese. L‘Italia è cambiata in meglio o in peggio? Davate risposte diametralmente opposte. Anche nei vostri due libri sull’India, uno non a caso basato sull’odore e l’altro su un’idea, esprimevate due concezioni occidentali, una razionale e una viscerale, che sembravano destinate a non incontrarsi mai. È ancora così?


A. M. -— Tra Pasolini e me c’era divergenza sul Terzo Mondo. Lui sosteneva che era rovinato dalla rivoluzione industriale e dal consumismo, io pensavo e penso ancora che il Terzo Mondo scomparirà e che non è abbastanza industrializzato e consumistico.
Dalla cultura contadina non c’è da aspettarsi ormai più nulla di buono, dunque è meglio farla finita e fare davvero la rivoluzione industriale.

R. P. — Gli indiani, secondo Pasolini, professano una religione coatta, a sfondo pratico. Sono esseri «favolosi, senza radici, senza senso» ma in qualche modo ignoranti di cose di religione proprio come i nostri ragazzi. Del resto Henri Michaux nel bellissimo Un barbaro in Asia aveva già detto che «nel senso più profondo della parola, l‘indiano è pratico. Nell’ordine spirituale vuole un buon rendimento. La bellezza non lo interessa.» Per te l’India è la Religione, come un medioevo che si fosse prolungato fino ai giorni nostri. Che vuol dire?


A. M. — Pasolini secondo me ha insieme ragione e torto. È vero, la religione degli indiani sembra essere soprattutto pratica. Infatti è pagana come tutte le religioni dell‘antichità, cioè propone piuttosto una teogonia che dei modi di comportamento e per il resto lascia che l’individuo sia libero di contraddirsi secondo natura. Ma al tempo stesso, la religione indiana è spirituale proprio per il fatto di anteporre se stessa alla società.
Quanto a me non penso affatto che la religione indiana sia «un medioevo prolungato fino ai giorni nostri». Penso appunto che sia pagana, cioè molto più antica del Medioevo monoteista.

R. P. — Ne L‘odore dell’India Pasolini ti descrive affettuosamente come un viaggiatore all’inglese, documentatissimo, obiettivo, che ci tiene a mantenere la distanza dovuta con il mondo che osserva. Ti ci sei riconosciuto?


A. M. — Non ho mai saputo che cosa pensasse veramente Pasolini di me. Credo che apprezzasse soprattutto la mia vitalità, parola generica che forse comprendeva anche la mia letteratura. Nella vitalità era inclusa anche «la distanza».
Insomma, per lui ero un tipo di viaggiatore, come tu dici, all’inglese, cioè in sostanza non terzomondista e sentimentale.
Per conto mio, vorrei aggiungere che i miei modelli erano e sono Stendhal e Sterne, il primo per il suo invaghimento per i Paesi e la loro cultura, il secondo per l‘attenzione al particolare anche minimo. Pasolini era invece portato a sottolineare l’esperienza personale, privata, intima, non necessariamente culturale.

R. P. — Pasolini si mostra sentimentale anche in India. Prova subito pietà per l’immensa povertà che ha modo di conoscere, al punto da soccorrere un mite ragazzo di nome Revi, aiutato in questo da Elsa Morante. Era come pescare un ago nel pagliaio.
Mi sono chiesto se la tua indifferenza non fosse, in quel caso, paradossalmente, più indiana della carità di Pasolini.


A. M. — L’indifferenza è certamente frequente in India. Gli indiani sono il popolo più indifferente di fronte alla sofferenza che io conosca al mondo.
Ma Gli indifferenti io l‘ho scritto contro l’indifferenza. Sì, Pasolini poteva anche sembrare sentimentale in certe circostanze. Ma era salvato dal sentimentalismo proprio dalla sua ambiguità intellettuale.

R. P. — Mi hai raccontato che nel vostro viaggio a un certo punto vi sentiste inseguiti nella notte da qualcosa che poi si rivelò essere uno sciacallo che brucava le calcagna di Pasolini. Altrove ti sentisti perseguitato da uno che voleva a tutti i costi liberarti da calli inesistenti. Non hai, tra i tuoi ricordi, un altro episodio di quel leggendario viaggio?


A. M. — A un certo punto, non ricordo più dove, Pasolini incontra un ragazzo bellissimo, dai lineamenti perfetti. Vuole subito conoscerlo. Dopo un po‘ scopriamo che si tratta di un attore. Era veramente perfetto, ma aveva un difetto. All’inizio della bocca, sulla parte destra, gli si formava una pallina di saliva bianca che contrastava in maniera sgradevole con il suo incarnato scuro.
Insomma aveva questa imperfezione. Ci porta a casa sua dove ci fa conoscere suo padre, un uomo con una gran barba. La casa era il solito tugurio indiano, con un letto in mezzo. Noi eravamo seduti con Elsa ai bordi del letto, quando il padre dell‘attore si mette a leggere la Bibbia in arabo. Fine dell’ospitalità. Il ragazzo smania con Pasolini, vuole venire in Europa, ma Pier Paolo gli dice di no. Torniamo a Roma. Pier Paolo va a lavorare a Cinecittà e io me ne vado a Sabaudia. La cameriera mi telefona allarmata. C’era un indiano davanti alla mia porta che pretendeva di dormire a casa mia.
Non potendomi vedere si appostò a Cinecittà, dove sperava di incontrare Pasolini. Mi ricordo di aver visto la testa di questo indiano che appariva e scompariva tra le macchine parcheggiate davanti a Cinecittà. Non è ancora finita. Due anni fa a Parigi, in un ristorante di lusso, vedo un indiano attempato che suona qualcosa per i clienti. Lo riconosco. Era l‘indiano attratto dal miraggio dell’Europa, dal cinema e da Pasolini, finalmente europeizzato.

R. P. — Ne L‘odore dell’India si ha l’impressione che Pasolini voglia dialogare con le tue analisi in presa diretta, diversificandosene. È un libro di marca autobiografica, eccitatissimo, di chi dichiara subito di non saper dominare «la bestia assetata chiusa dentro di me, come in una gabbia» , di vivere in «uno stato penoso». Leggendo Un’idea dell’India si ha l’impressione che Pasolini sia stato insomma una fonte di ispirazione, sia pure negativa, per i tuoi argomenti. Tu scrivi che l’India e l’Inghilterra sono vissute in simbiosi, che il colonialismo inglese non è stato come quello francese, olandese, portoghese, un po’ troppo pirateschi. Anche fra te e Pasolini, in quel viaggio, si può parlare di una certa simbiosi?


A. M. — In realtà si trattava piuttosto di una complementarità che di una simbiosi. Pasolini aveva certi caratteri e qualità che io non avevo e viceversa.
La differenza maggiore si vedeva nel suo approccio a un marxismo assolutamente non scientifico ma curiosamente cristiano, come si può vedere nel suo mito del sottoproletariato simile ai poveri del tempo di Gesù. Per me il marxismo è una particolare forma di sociologia utopistica e rivoluzionaria.

R. P. — Curiosamente L‘odore dell’India è povero di odori; mi sembra invece molto visivo. Vi predomina l’occhio smagato del regista di Accattone.
Per Pasolini l‘India è carica di potenza espressiva e il viaggiatore si trova in uno stato di eccitazione continua, dinanzi a un mondo totalmente vergine. Assomiglia per caso al rimbaudiano abbandono dell’Occidente o no?


A. M. — No, Pasolini non somiglia a Rimbaud, se non altro perché non ha cessato di scrivere fino all‘ultimo giorno della sua vita. Del resto Pasolini non rifiutava affatto l’Europa, tanto è vero che era già scrittore europeo prim’ancora di essere mai uscito dall’Italia. Quanto agli odori dell’India si tratta di un titolo che forse non trova corrispondenza nel testo ma definisce bene l’India, che è un Paese in cui gli odori sono predominanti e caratteristici.
E poi l’olfatto è il più animalesco dei nostri sensi e questo conferma il neo-primitivismo di Pasolini.

R. P. — Il viaggio di Pasolini termina con i roghi di Benares, con le fiamme che scaldano i corpi degli spettatori nella notte indiana.
Il tuo finisce con le statue di Kajurao, che svuotano il mondo storico, che lo riducono a nulla.
Pasolini sembra andato in India autobiograficamente per ritrovarsi, sia pure nel calore momentaneo che sprigiona un rogo, tu invece illuministicamente per negarti e in qualche modo riaffermare la superiorità dell’intelligenza sulla materia. È così?


A. M. — Veramente siamo ambedue andati in India senza programmi. È l’India in realtà ad essere «programmata» , cioè ad essere un Paese di una violenta originalità che costringe il viaggiatore a «prendere posizione».
La mia posizione è quella di accettare ma non di identificarmi, quella di Pasolini, come del resto in tutta la sua vita, di identificarsi senza veramente accettare.





Curatore, Bruno Esposito

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