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sabato 19 dicembre 2020

Pier Paolo Pasolini - Dino e Biografia ad Ebe, «ll Setaccio» III, 4 febbraio 1943, pag. 11 e 12.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Dino e Biografia ad Ebe


«ll Setaccio», III, 4, febbraio 1943, pag. 11 e 12.
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Terminati - agli effetti di una specie di evoluzione letteraria i cui risultati ultimi sono culturalmente e sentimentalmente i più interessanti - i cicli creativi della generazione di un Papini, di un Soffici, di un Cecchi, e poi di un Bonsanti, di un Gadda Conti, di un Barili, e poi ancora, o quasi, di un Zavattini o di un Vittorini, la narrativa italiana sembra ora continuare il suo moto dalle pagine di giovani e giovanissimi scrittori che «Rivoluzione», «Lettere d'oggi» etc., vanno pubblicando con discreta frequenza. Non avremo la pretesa di definire - cosa del resto ancora inattuabile - il modo di narrazione caratteristico della generazione più vecchia - potremo dire del la generazione della guerra '14-18 -; ad ogni modo tale maniera narrativa ci appare ormai come precisata dentro di noi, se non ancora con rigore critico, tuttavia con una certa buona approssimazione di gusto. Insomma, nessuno può esitare nel giudicare il tempo di un libro come <<Un uomo finito >>, o <<Kobilek >>, o <<Pesci rossi>>, o <<Tre croci>>, etc. fino - oserei dire - a <<Nome e lacrime>> o anche a <<Gli anni perduti>>; libri che, pur nella loro indubbia e geniale originalità, proseguono il filo delle esperienze che li hanno di poco preceduti, e in questo proseguimento trovano la loro immediata «classicità». Insomma, romanzi come i due ultimi citati, appena editi, entrano subito come in una zona di chiarezza e risoluzione critica; e il caso dell'autore- se mai ci debba essere un caso - sarà un caso di genio, non un caso di cultura. 

Ma al di fuori di questo filo della narrativa italiana i cui albori sono da far risalire al tempo della Voce, e il cui crepuscolo non e ancora determinabile - e che può, in poche parole, esser fissato sotto l'etichetta del <<capitolo>> o <<prosa d'arte>> - una nuova maniera sta maturando, anche se non è assolutamente lecito non far più il nome di «capitolo» o «prosa d'arte». Insomma - e ci atteniamo ai termini più semplici ed elementari della questione che ha sollevato tante discussioni e polemiche tra i critici italiani -, non si ha certamente - ora - una reazione ai modi narrativi di un Cecchi o di un Palazzeschi, per es.: anzi per quel che riguarda il modo di scrittura, il modo di mettersi a tavolino, mi pare che nessun mutamento sia intervenuto. La lunghezza quantitativa della narrazione, la ricerca verbale, l'interesse stilistico, sussistono, forse, pressoché immutati nella superficie. Qualcosa è mutato dentro, nell'intimo, nel cuore: quell'interesse stilistico che nei nostri Cecchi, Palazzeschi, Soffici etc., era derivato direttamente dalla loro onestà, dal loro vigore, dalla loro educazione anticontenutistica e antitradizionalistica, dalla loro esperienza parigina (che aveva qualcosa di garibaldino), dal loro entusiasmo che non esiterei a chiamare un po' ingenuo; quell'interesse stilistico che non è stato poi così esclusivo e necessario se ha dato, in una generazione di capitalisti, un Bacchelli, e che non è stato neppure così superficiale e aereo se conta, in quella stessa generazione, un Cardarelli; quell'interesse stilistico, insomma permane senz'altro in questi giovani e giovanissimi narratori; però - dicevo - qualcosa è mutato dentro - qualcosa resta fedele, ad orecchio, per cordialità d'educazione e quindi in un modo esterno di scrittura. Il grande cambiamento risulterà più evidente, evidentissimo, quando si scenda ad un particolare ed accurato confronto tra una vecchia pagina di capitolo (poniamo una pagina di <<Pesci rossi>> o del <<Sole a picco>>), e una modernissima, ancora fresca di stampa (poniamo <<Alla periferia>> e <<La malinconia>>), e si vedrà che se la vecchia etichetta è rimasta appiccicata al barattolo, il contenuto di quel barattolo - se non si può dire che è andato a male - è certamente cambiato. Noi vorremmo qui attenerci semplicemente ai risultati - una sorta di serena cronaca -; e una scorsa alle cause di cambiamento forse ci condurrebbe a considerazioni che esulerebbero da un'argomentazione puramente letteraria, verso profondi, inesatti, e talvolta gratuiti approfondimenti umani; i quali poi, non si limiterebbero a presentarsi o a precisarsi nei loro termini di private esperienze, ma ci richiamerebbero a larghe e sempre più profonde ragioni sociali, fino a porci di fronte all'evoluzione di un'intera «Civiltà». (Così una vita intensa, giovane, e vigorosa - donde quell'entusiasmo un po' ingenuo che dicevo - avrebbe caratterizzato la generazione che ci ha preceduto; al contrario una vita fiacca, inattiva e poco combattuta avrebbe invece dato argomento letterario all'ultima generazione. E a darmi ragione potrebbero intervenire certe proteste contro tale disposizione d'animo, apparse in uno degli ultimi numeri di «Primato».) Così, per tornare in sede di risultati puramente letterari, troveremo nel vecchio capitolo una serenità, che se deriva da una brillante ed agile ricerca di stile, trova le sue più profonde ragioni in una inclinazione d'animo che nella pagina scritta ottiene la sua distanza e il suo orgoglioso superamento e obliamento dei fatti umani. Tutto al contrario, nel nuovo capitolo una profonda e ostile tristezza punge sotto la pagina, un accoramento chiuso e irrisolubile, un rimpianto senza consolazione (e, quasi sempre, come in guarita nostalgia, l'infanzia), a cui la forma non dà sollievo, ma li acuisce, anzi, nello sforzo di rappresentare con un'evidenza traslucida, quasi sensibile o tattile. Ed è in tale sforzo di rappresentare quasi fisicamente gli avvenimenti perduti e tramontati nella vita che è necessario ricorrere piuttosto che alla fantasia, alla memoria. Ed è proprio in questo che cade la differenza tra la vecchia e la presente prosa d'arte: la differenza che corre tra il costruire e il rievocare.

Ma lasciamo interrotto per un momento tale esame, e ritorniamo sui nostri passi, a notare la presenza di un altro modo narrativo: la prosa - dirò subito - che proviene direttamente dai testi poetici, e critici, dell'ermetismo. Anche per questa maniera, non è ancora attuabile una definizione critica; ma anche per questa troveremo in noi un'approssimazione di gusto che ce la disegna; (basta pensare a certe pagine di «Prospettive», dove il surrealismo si è raffreddato, concentrato e tornito in una concinnitas quasi classica,  e dove certe prose di campaniana memoria si sono pacificate in un frasario che sconfina spesso con una distanza ed una aridità proprie della critica). È una prosa che «importa l'impegno di mettere irrimediabilmente l'eterno contro il quotidiano, di drammatizzare al'estremo ogni possibile connivenza col senso delle occasioni vissute» (M. Luzi, <<Un'illusione platonica>>). Così, in un certo senso, questa prosa «come affermazione media della propria presenza in un mondo morale nel quale si elabori» (M. Luzi, op. cit.), verrebbe ad essere come complementare ad una poesia, la quale, pur restando <<Storia del cuore non può essere attuale e neppure ha da essere risolta in chiaro o narrazione» (L. Anceschi, introduzione a Lirici nuovi); e insomma, non più la risoluzione suprema della vicissitudine - cioè forma -, e neanche più - per vanità e per eccessivo approfondimento critico - semplicemente diario o narrazione, ma, se mai, confessione, o, meglio ancora ricostruzione della vicissitudine stessa appunto nell' «impegno di drammatizzare all'estremo ogni possibile connivenza col senso delle occasioni vissute>>.

Se quindi avremo accolto, con una certa approssimazione critica, il capitolo della vecchia generazione (es. <<Pesci rossi>>) come una costruzione della fantasia, in cui l'interesse stilistico è un fine che non esclude affatto la frescura di affetti e premure e interessi umani, ritroveremo, ora, nella più recente prosa italiana, da una parte una maniera di scrittura come costruzione non tanto della fantasia quanto della memoria, cioè come rievocazione (es. <<Dino>>), in cui ogni affetto umano e virile sembra arrendersi in un cieco affidarsi al ricordo, consumandosi tutto nell'ultimo e unico sopravvivere della sua presenza, la forma; e ritroveremo dall'altra parte - infine - un modo di scrittura non costruttivo né rievocativo, ma ricostruttivo (es. <<Biografia ad Ebe>>).

Non vorremmo ora venire ad un giudizio più o meno polemico; certo, ad ogni modo, che il debole sia di una scrittura rievocativa, sia di una scrittura ricostruttiva, è facilmente reperibile, né mi sembra il caso di soffermarmici. (Del resto è un fatto che la poesia è raggiungibile attraverso qualsiasi mezzo o precedente teorico: vedi Bilenchi stesso, nel <<Conservatorio di Santa Teresa.)


Quello che, per concludere, mi interessa è un più diretto confronto fra i due testi (Dino e Biografia ad Ebe) che vengono a rappresentare in modo molto significativo i due più moderni modi di scrittura in prosa. Del resto basta riportare da ciascuno dei due libretti un passo caratteristico, e l'accorto lettore potrà da se stesso condurre a fondo il confronto, a conferma di quanto ho qui sopra analizzato e cercato di definire. Ecco un passo da Luzi: «Al piede dei meli la luce si era consumata e un serpe strisciava nell'interno di un rovo. Mia madre mi prese per mano e mi condusse via lungo il sentiero. Seguimmo il muro liscio come una traversa ideale dentro il cielo; poi essa aprì il portello dell'orto. La valle sottostante era prossima al golfo e ancora assai chiara. Crudamente le tamerici apparivano senza alcuna distanza, nello spiazzo vicino alla riva il tufo aveva uno splendore freddo e sotterraneo. Una barca era ferma e il mare animato da un immobile fermento. "Là" disse. Seguendo l'indice della mano, soltanto la luce rimandata dal mare batteva nel cielo silenzioso. Nel profondo un'impercettibile piaga luminosa scalfiva la tenebra ancora immatura, dietro la testa appena ingrossata la casa umida svaniva. Le guerci imbrunivano assorte in un cupo affanno e nell'aria l'odor dell'ozono saliva acremente». Qui l'avvenimento non ritorna - è chiaro - attraverso uno sforzo della memoria, e non è nemmeno un puro gioco della fantasia; piuttosto la fantasia vi è sollecitata dalla volontà, che va alla ricerca di alcune ragioni, quasi logiche, dell'esistenza o dei fatti umani, interpretandoli, e si riferisce a quel lontano evento dell'infanzia come a un necessario simbolo.

Per Bilenchi la scelta del passo è meno agevole, il tono rievocativo provenendo da un continuo e regolare sforzo della scrittura, più che da un luogo isolato, che si presenterà poco significante; tuttavia nelle seguenti righe: «Però non aveva pensato mai come in quel giorno al grano e all'erba verdi e teneri, e all'agnellino che li brucava e al babbo morto. Vagò per le strade piene di gente, per la strada solitaria, arrivò fino all'inizio dei campi. Era dicembre e il grano copriva leggermente la terra rossa», è avvertibile l'eco di quell'atmosfera crepuscolare e pungente; dove ogni parola («verdi», «teneri», «agnellino», «vagò», «inizio dei campi», «dicembre», «grano», «leggermente», «terra rossa»), corrisponde a un senso morto nella vita e non nella memoria, che la fa carica di una scottante e acerba nostalgia.

Pier Paolo Pasolini.
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Biblioteca Universitaria di Bologna, collocazione 2118/PER. 10220.

Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).

I documenti digitalizzati appartengono alle raccolte di:
Biblioteca dell'Archiginnasio
Biblioteca Universitaria di Bologna
Centro studi-archivio Pier Paolo Pasolini - Bologna
Archivio storico dell'Università di Bologna
Biblioteca Cantonale di Lugano  



 Fonte:
http://badigit.comune.bologna.it/mostre/pasolini42/index.html 
Creative Commons Attribuzione 3.0.



Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi



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