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domenica 3 dicembre 2023

Pier Paolo Pasolini, Cara Tuscia, una conversazione con Gideon Bachmann - Sviluppo ma non progresso

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Messaggero 22 settembre 1974


Intervista. Italia, sviluppo ma non progresso
Una conversazione con Gideon Bachmann
Pier Paolo Pasolini


Tu hai scritto un pezzo sul referendum suscitando molte polemiche. Vorrei che lo riassumessi.

Riassumendolo, un po’ lo tradisco e un po’ lo porto avanti... Ho analizzato il referendum italiano e ho detto che ha segnato la grande sconfitta del Vaticano e di Fanfani. Essi hanno perso perché non sono stati in grado di capire che l’Italia era cambiata. Non hanno capito una cosa ovvia: che avrebbero perso in maniera clamorosa, cosa che di fatto è avvenuta. Però a perdere è stato anche il Partito comunista, ed è questa affermazione che ha suscitato tutte le polemiche. Il Pci non ha perso le elezioni; ha perso perché non aveva previsto questa vittoria schiacciante. Non soltanto, ma non avrebbe neanche voluto fare il referendum, il che significa che nemmeno i dirigenti comunisti avevano compreso che l’Italia era enormemente cambiata. Gli sconfitti dunque sono due: le due forze tradizionali che dirigono l’Italia. Entrambe non hanno capito che l’Italia in questi sei-sette anni è andata avanti malgrado loro e al di fuori di loro. È andata avanti troppo rispetto a quello che il Vaticano o Fanfani desideravano. Evidentemente la Dc desiderava che gli italiani avessero un certo tipo di vita, un certo sviluppo; non certamente perché lo volessero loro, ma perché lo voleva il potere industriale che stava alle loro spalle, per cui loro non potevano far altro che appoggiare questo sviluppo. È accaduto però che gli italiani sono andati troppo avanti, hanno valicato il limite, sicché è stata la televisione che di fatto ha convinto gli italiani a votare «No» al referendum. D’altra parte gli italiani sono progrediti – uso questo termine in senso neutro per intendere che sono cambiati – anche al di fuori degli schemi del Partito comunista. Non sono andati avanti sulla via del progresso, ma sulla via dello sviluppo, che i comunisti accettarono illudendosi che esso coincidesse con il progresso. E invece questa identificazione non è avvenuta.

Ma non avviene da nessuna parte!

Nelle grandi nazioni borghesi questo in un certo senso avviene. Lo sviluppo ha una sua tradizione che è coincisa con una forma di progresso sociale. Là dove – come in Francia e in Inghilterra, o in Svezia e in Danimarca – gli ospedali funzionano, le scuole sono dotate di strumenti di studio, i vecchi hanno assicurata la loro vecchiaia, il verde delle città è rispettato e curato, là dove in generale tutte queste cose, che sono problemi dello sviluppo, sono risolte, ebbene lì si può parlare di uno sviluppo che implica anche un progresso. In Italia invece non si è avuto niente di tutto questo: c’è stato uno sviluppo folle, ma gli ospedali sono rimasti identici a quelli che erano prima – con i malati che dormono nei corridoi e nei cessi –, le scuole sono rimaste orrende – senza un gabinetto scientifico, una palestra – e il verde è quello che è. In Italia non si è avuto nessun progresso, ma solo un enorme sviluppo che è consistito nel consumare beni superflui: ora, se i beni necessari rendono necessaria la vita, i beni superflui la rendono superflua. Questo cambiamento introdotto dal referendum è solo parzialmente positivo. In senso profondo io dico che il cambiamento dell’Italia è negativo; e ciò perché è voluto dal potere, non conquistato dal basso. La tolleranza è falsa tolleranza, il benessere è un benessere che si riduce al consumo di beni superflui. Questo tipo di cambiamento ha diffuso tra gli italiani un’ideologia che io prima ho definito dell’edonismo consumistico, un’ideologia laica e razionale, ma stupida, miope, ristretta, edonistica. Questa è la reale ideologia delle masse italiane: per quanto inconscia, non ancora formulata ma comunque esistente, tocca tutti gli italiani, intellettuali compresi. Anch’io vi partecipo senza volerlo, anch’io tendo in un certo senso ai beni superflui perché mi piace avere la macchina o spingere un bottone per avere il riscaldamento. Però poi mi salvo – e in questo sono un privilegiato – attraverso la cultura. L’enorme massa degli italiani invece è caduta in pieno in questo meccanismo: la loro vera ideologia è questa, ed è uguale per tutti. Questo per dire che oggi non è più possibile, di fronte a una folla di gente, fare delle distinzioni, per esempio distinguere un operaio da uno studente. Ma soprattutto non è possibile distinguere più un fascista da un antifascista. Ed è questa la boutade che ha scandalizzato.

Ma perché questa distinzione non è chiara neanche nella mente della gente?

Nella loro mente essi si pensano diversi, è chiaro; ma poiché la loro scelta inconscia li accomuna, in pratica qual è la loro ideologia reale? Quella che hanno scelto o quella che vivono inconsciamente? È questo il punto.

Come definisci il cambiamento stesso?

Il cambiamento significa che sono caduti dei valori, dei modelli di comportamento, e ne sono subentrati altri. Questa sostituzione non è stata voluta dalla gente, dal basso, ma dal potere consumistico. La grande industria italiana plurinazionale voleva che gli italiani consumassero un certo tipo di merce, e per consumarla dovevano realizzare un nuovo modello umano. Un contadino un tempo non comprava le sciocchezze reclamizzate dalla televisione. Bisognava trovare il modo di farlo. Un altro esempio di questo cambiamento è la carenza di voti religiosi. Un tempo i figli dei contadini che non avevano mezzi economici per vivere – e magari anche perché ci credevano – andavano in seminario per studiare ed elevarsi socialmente. Altrettanto facevano le figlie, prendendo i voti monacali. Oggi i seminari sono vuoti perché i giovani dei contadini anziché andare in seminario preferiscono emigrare in Germania o a Torino.

E invece le figlie...

Altrettanto facevano le figlie, andavano a fare le monache.

Questo credi sia un regresso?

È un processo che contiene quell’ambiguità che dicevo prima. E che ha dei lati positivi, perché è chiaro che quei preti e quelle monache non erano depositari di valori reali, profondi e vitali, ma di valori codificati, reazionari. Quindi, in un certo senso, meglio che quel tipo di giovane emigri; solo che una volta emigrato cosa ne sarà di lui?

Con queste idee come puoi vedere le cose con un certo ottimismo?

Io non posso vedere le cose con ottimismo, per essere sincero! Posso vedere delle soluzioni: per esempio i democristiani stessi, di fronte al disastro della sconfitta, hanno fatto marcia indietro e più o meno sinceramente dicono che bisogna rifare certe cose: da una parte distruggere il parassitismo politico e il clientelismo, dall’altro ridimensionare l’agricoltura e soprattutto l’industria. Dare pertanto importanza alle industrie primarie e abolire le industrie terziarie, antieconomiche e antisociali, frutto di megalomania.

Per esempio?


Un qualsiasi prodotto inutile. Gli oggetti (gli arredamenti plastici, i regali…) che definiscono il tipo di vita che serve per il weekend e per il picnic. Questa è la soluzione da parte governativa. Poi c’è la soluzione che offrono i comunisti che è tipicamente riformistica, di tipo svedese. Fare veramente delle riforme, socializzare.

Lo stato sociale...

Quando parlano di compromesso storico, i comunisti intendono accettare il dato di fatto che la borghesia ha vinto e che il mondo è «borghesizzato». Marx nel 1848 diceva che la borghesia vuole assimilare tutto a se stessa, e piano piano questo è avvenuto anche nei paesi socialisti. Lì però permangono alcuni dati acquisiti attraverso la rivoluzione. Per cui se cammini in una città sovietica vedi che non c’è differenza di classe. È chiaro che c’è una classe dirigente che approfitta, ma quella non è una classe: è una casta. In Unione Sovietica hai l’impressione positiva di un interclassismo ottenuto attraverso la rivoluzione, un’uguaglianza di tutti i cittadini. Anche in Italia quando cammini vedi interclassismo, non vedi differenza di classe; ma l’interclassismo russo è positivo perché frutto della rivoluzione, e quindi è un dato di fatto acquisito – ci sono dei dati di fatto, sebbene forse ora siano traditi, mistificati, che possono essere un trampolino per il futuro –, mentre quello dell’Italia è un interclassismo concesso dal potere.

Pensi che la dialettica tra utilitarismo economico e mancanza di gusto per salvaguardare le cose che hanno un valore, esclusivamente estetico o storico, sia un tratto specificamente italiano?

No, secondo me la tragedia che sta vivendo adesso l’Italia, nazioni come l’Inghilterra e la Francia l’hanno già attraversata il secolo scorso.

Perché si sono industrializzate un secolo prima.

Appunto. E l’Inghilterra infatti è distrutta. [...] Tutte le città inglesi sono nate dall’industrializzazione violenta. In più, c’è un altro aspetto. Gli inglesi hanno costruito con più gusto, perché erano una nazione veramente ricca. Fin dal Seicento l’Inghilterra è una nazione ricca e potente, e quello che è stato fatto in quel periodo era guidato da un certo criterio e dal buon gusto, pur comportando la distruzione di quel che c’era prima, le aree medievali e rinascimentali.

Oggi sono molto coscienziosi: se volessi costruire senza un permesso un tetto, o cambiare la forma della casa, non potresti.

Certo. In Italia invece la trasformazione avviene in maniera brutale. Il neocapitalismo è ancora più brutale del primo capitalismo, anche per ragioni tecniche ed economiche, e si esercita su più grande scala, multinazionale, passando sopra tutto come un carro armato, molto più di quanto facesse il paleocapitalismo, che in fondo era rimasto a livello nazionale o provinciale. Il neocapitalismo sta facendo ora in Italia quello che il paleocapitalismo ha fatto in Inghilterra un secolo fa, ma con soluzioni peggiori. Inoltre i nuovi edifici costruiti in Italia, salvo rare eccezioni, sono miserabili. Edifici brutti, palazzine disgustose: quindi il nuovo non è neanche un bel nuovo.

In più ci sono sempre intrallazzi...

L’intrallazzo è un dato tipicamente italiano e latino. In Inghilterra forse non sarà andata così, però c’è stato il progressismo, la rivoluzione borghese, che forse ha prodotto esiti simili in buona fede: ha risanato e distrutto le vecchie case feudali e ha costruito quella che si credeva una nuova civiltà rivoluzionaria.

Però a fine Ottocento in Italia, oltre a Garibaldi, non c’è stata una figura assimilabile a William Morris.

Questo aspetto è incontestabile: l’Italia fino a dieci anni fa era una nazione ottocentesca.

Anche nell’accezione migliore?

Sia migliore che peggiore. L’Inghilterra, essendo una civiltà di livello molto più alto, non ha avuto rispetto per gli antichi monumenti poveri come l’ha avuto per quelli ricchi, che invece si sono salvati. Per esempio, il problema nello Yemen non sarebbe salvare le quattro moschee o i quattro palazzi più belli della città. Il problema è salvare l’intera figura della città. La città nella natura.

Forse il problema è il mantenimento di un equilibrio con la natura che viene distrutto inevitabilmente dal progresso.

Basterebbe che il progresso si ponesse il problema. Ti assicuro che se in Inghilterra ci fosse stata una regione esclusa dall’industrializzazione come l’alto Lazio – forse in Scozia c’è qualcosa di simile – il problema oggi verrebbe risolto in modo stupendo. Probabilmente una cittadina come Viterbo, con tutti questi villaggi e paesetti intorno, sarebbe rispettata proprio nel suo rapporto con la natura, e se dovessero fare qualcosa di nuovo lo farebbero distaccato. Non lo farebbero a ridosso.

Venendo quassù, Deborah diceva: «Se hanno bisogno di costruire tutte queste brutture, perché non le mettono in un unico posto, altrove?».

Una soluzione complicata, perché se uno possedesse un campo evidentemente costruirebbe la casa lì. Basterebbe un minimo di programmazione e interesse culturale da parte dei Comuni e si potrebbe ovviare. Viterbo può ancora fare questa proposta, i beni si possono ancora salvare come farebbero in Inghilterra.

Ci sono le leggi?

Ci sono ma non le conosco direttamente. Mi sembra che non si tratti di leggi che proteggano la città nel paesaggio, penso proteggano i monumenti.

Non sarebbe il caso di istituire delle leggi precise sulla salvaguardia su scala nazionale? […]

Con chi bruciasse una foresta io non avrei pietà. Se uno uccide un altro uomo in fondo lo si può capire, perché magari è mosso dalla passione: chissà cosa lo può aver condotto a quella scelta, una malattia o un trauma infantile... Non oserei giudicarlo. Ma uno che distruggesse una foresta sì, lo giudicherei. Per tornare al nostro discorso, occorrono leggi che proteggano in un modo più totale le antichità. Orte dovrebbe essere tutelata in quanto città, non solo per i singoli monumenti. Esiste una gerarchia. Un grande palazzo o una grande chiesa dovrebbero valere un muretto, un capitello, un tabernacolo, una loggia. Andrebbero tutelati anche questi. Un casale di contadini andrebbe difeso come se fosse una chiesa.

Ci saranno degli interessi economici. Per esempio, ho visto che ieri a Genova hanno confiscato un monastero edificato sopra una roccia protesa verso il porto: qualcuno aveva capito che sarebbe stato possibile costruire un albergo. All’ultimo momento, rendendosi conto dell’intento, il Comune ha agito. Quella situazione è particolare, perché il monastero è molto esposto, ma tutti i siti in campagna sono in balia delle speculazioni.

Certo. È per questo che io mi do da fare per la creazione di un’università di Viterbo, intesa come centro culturale. La città è piccola e quindi sorvegliabile.

Quindi sarebbe un avamposto economico.

L’industrializzazione non si è fatta, e almeno nei prossimi anni non si potrà ipotizzare. La fonte di ricchezza è l’agricoltura, che andrebbe ridimensionata e riprogrammata in tutt’Italia. L’ha detto anche Fanfani, quindi la classe politica se n’è resa conto. [...] Si daranno da fare per ristrutturare il settore agricolo. È un problema difficilissimo perché la piccola proprietà è indifesa. [...]

C’è una cosa di cui non si è mai parlato in Italia: uno dei motivi per cui i turisti stranieri non visitano il nostro paese è il chiasso. Il rumore è insopportabile per uno straniero. Il turismo potrebbe essere rimesso in funzionamento se gli italiani fossero più silenziosi. Ma sono argomenti difficili da affrontare: l’italiano si sente sempre aggredito quando si fanno queste osservazioni. Se io, in un ristorante, protestassi per il troppo rumore, sarei subito zittito: «Se non ti piace l’Italia, vai via!» mi direbbero. L’italiano non difende mai l’Italia se non quando è toccato direttamente. Dalle sei alle undici di sera, poi, da tutte le finestre arriva la voce della televisione tenuta ad alto volume. La tv è la principale causa di un altro male nazionale: «il pappagallismo».

Quelli che tocchi non sono mica argomenti turistici, sono argomenti di «politica interna». La tendenza a imitare i comportamenti e i gesti altrui senza comprenderli, il cosiddetto «pappagallismo», è il frutto della tolleranza e della permissività concesse dall’alto a un popolo che non se le è conquistate. Il pappagallismo è allora diventato una forma orribile e nevrotica di essere. Allo stesso modo il chiasso e la maleducazione sono esito di un benessere di cui una popolazione beneficia senza peraltro averlo conquistato. Il potere consumistico in Italia è un potere concesso dall’alto, in una misura che in Inghilterra, in Francia o in Germania non si potrebbe concepire. Il benessere in Italia è stato una «Befana» che è arrivata all’improvviso e ha concesso tutto.

L’industrializzazione «a scatto»?

L’industrializzazione improvvisa, con interessi non solo nazionali ma plurinazionali o transnazionali. E inoltre la furia di avere proventi immediati, tipica dei piccoli industriali. Tutto questo ha fatto sì che il potere consumistico sia stato donato come un sacco della Befana, soprattutto nel Centrosud. Ciò ha dato luogo a un’euforia che si manifesta in forme arcaiche e rozze di maleducazione. Questa mentalità va cambiata, non tanto in vista dello sviluppo turistico, quanto in funzione di una politica interna italiana, ma è un problema di difficile risoluzione. Lo stesso discorso vale per la questione del pappagallismo. Non si può dire: «Vi abbiamo concesso questa permissività ma voi dovete essere educati», perché la permissività li ha nevrotizzati; un giovane italiano, trovandosi improvvisamente a poter fare di tutto – mentre fino a poco tempo fa le ragazze erano tenute chiuse in casa come monache –, diventa nevrotizzato. Quando c’era la repressione gli italiani erano sessualmente molto equilibrati, mentre con la tolleranza sono diventati nevrotici. Prendo un esempio che conosco da vicino, quello di Viterbo: il fatto che nell’alto Lazio «la Befana» non sia passata ha fatto sì che il mondo sia rimasto abbastanza simile all’Italia che amavano i turisti stranieri. Qui c’è una profonda pace, e la gente è molto mite.

Non credi che sviluppandosi economicamente anche qui si riprodurrebbe la stessa situazione lamentata nel resto dell’Italia?

È per questo che io, forse utopisticamente, punto sull’edificazione di un’università a Viterbo. Essa dovrebbe consentire uno sviluppo che vada al passo col progresso. Tutti i miei articoli si possono riassumere nella questione della lacerazione avvenuta in Italia per il fatto che c’è stato uno sviluppo ma non un progresso.

Io penso che in precedenza la gente vivesse le proprie emozioni sulla base di una tradizione e del passaggio da generazione a generazione. Le persone avevano una certa fede – in una famiglia o nella religione – mentre oggi, caduti questi miti, tutti hanno bisogno, per conservare un’identità, di concentrare la loro azione nel presente. Non pensano più al futuro, al passato, agli altri. Sembra quasi un cambiamento culturale che ha alterato il dato biologico. In fondo è come la gara tra Achille e la tartaruga: non è recuperabile. Mi sembra una tragedia senza soluzione.

In Inghilterra o in Francia lo sviluppo è stato meno tragico, perché vi sono state due precedenti acculturazioni o centralizzazioni: prima quella monarchica a carattere aristocratico-feudale, una centralizzazione politica e culturale; poi la grande centralizzazione della rivoluzione borghese, decantata dallo stesso Marx. In Italia questi due momenti non si sono prodotti: quella attuale è la prima acculturazione conosciuta.

Cioè la distruzione dei valori?

Sì, la prima distruzione di quei valori tradizionali che si erano tramandati di padre in figlio, in un rapporto ormai fissato in codici millenari. È stato un colpo di spugna così traumatico che i risultati sono necessariamente atroci. Io sono arrivato a dire che forse l’Italia di questo momento somiglia alla Germania di trent’anni fa, quando è arrivato Hitler. Forse... Non lo so...

Anche a livello politico?

Sì, perché tutte e due le nazioni non hanno una tradizione nazionale ma regionale; ma mentre in Germania l’unificazione industriale su scala nazionale è avvenuta allora, in Italia sta avvenendo solo ora. In Germania l’industrializzazione ha strappato il popolo dei lavoratori e degli umili dalle sue tradizioni antiche, dai suoi valori particolari e reali, avviandolo a essere un popolo di piccoli borghesi. Proprio nel momento in cui il popolo non aveva più i suoi valori tradizionali a proteggerlo – perché offrivano un modello da realizzare – e in cui tuttavia non aveva ancora raggiunto i valori borghesi proposti dall’industrializzazione, si è sviluppato il nazismo.

Sono arrivati perfino a odiare i valori tradizionali, perché non corrispondevano al cosiddetto progresso...

Hanno abiurato. È l’abiura che sta avvenendo in tutto il Terzo mondo, dove molte tradizioni vengono calpestate e disprezzate, cosa che sta avvenendo adesso anche in Italia. Quei tedeschi di allora non erano ancora in grado di essere dei veri borghesi. Forse è una costruzione un po’ romanzesca quella che sto facendo... Questa enorme massa fluttuante del popolo strappato alle sue tradizioni ha fornito le truppe alle SS. Ecco, forse i capi no, ma la truppa... A questo punto devo fare un mea culpa: sono stato razzista. Di fronte ai tedeschi ho sempre avuto un atteggiamento razzistico. Avendo visto da ragazzo le SS, le ho identificate con l’intera nazione tedesca. Ma le SS non sono un prodotto tedesco, non si inseriscono in un modello germanico, ma in un modello borghese.

Era un gregge che cercava un manipolatore...

La stessa cosa sta succedendo oggi in Italia. Mi sto accorgendo che l’odio razzistico che provavo per la Germania lo sto provando oggi in eguale misura per l’Italia. Ciò significa che non è una questione di razzismo, ma è un fatto politico e sociale. Se per caso oggi dovessimo assistere a una recessione come avvenne nel 1929, e questa recessione portasse con sé un arcaico colpo di mano della destra, l’Italia sarebbe adesso matura per fornire le truppe alle SS.

Ho incontrato a Parma Bernardo Bertolucci: si è mostrato positivo e fiducioso. Si parlava del referendum: ma tu sai che alle elezioni tedesche, prima dell’avvento di Hitler, il 40 per cento della popolazione aveva posizioni di sinistra? Bertolucci mi ha opposto che il contadino oggi è preparato, ha letto e capisce...

Bernardo è ottimista e fiducioso perché non ama i contadini. Ottimisti sono quelli che non amano. Solo una persona che ama vede una persona che cambia e sta in pena per il suo cambiamento. Uno che non ama se ne frega e tende a essere ottimista per non avere problemi. Io dico che il risultato del referendum sul divorzio non è un segno del tutto positivo. C’è un lato fortemente negativo perché il «No» è stato suggerito non tanto dalle sinistre quanto dalla televisione. È la televisione che ha reso il cittadino italiano consumista e laico, e quindi irreligioso. La televisione è assolutamente e completamente irreligiosa. Non c’è una sola parola che sottenda una spiritualità religiosa: mostrano delle cerimonie religiose, il papa che benedice a destra e a sinistra, ma quella è ufficialità... È la televisione che ha spinto gli italiani al «No», perché un consumatore deve essere divorzista. Così la famiglia non è abolita ma rilanciata in un altro modo. Quando io dico queste cose sono guardato come un disfattista; io invece le dico perché amavo quegli italiani. Allo stesso modo la società ha rilanciato la coppia, ma è una coppia insincera. L’improvviso romanticismo che si riscontra per strada vedendo le giovani coppie che si tengono per mano, magari andando alla Rinascente o all’Upim a comprare, testimonia di questa tendenza e omologazione consumistica.

C’è una cosa che penso da molto tempo. Tutti i poteri arrivati all’apice non hanno mai avuto una gioventù. Hitler aveva una gioventù. Gli italiani hanno avuto i Balilla. Gli israeliani prima di diventare completamente borghesi avevano il pionierismo. La Chiesa una volta aveva i boyscout. Quando una cultura è giovane ha sempre una gioventù attiva. Nel momento in cui il potere si stabilizza non ci sono più movimenti di gioventù. Come nel socialismo. Oggi non ci sono più movimenti di gioventù come negli anni Cinquanta, quando si andava un po’ dappertutto, si cantava, si agitavano le bandiere... Tutto ciò che è capitalismo – individuale, borghese – non ha un movimento di gioventù. Come e perché queste cose non esistono più?

Si dice che il neocapitalismo non abbia un movimento di gioventù, ma non è vero. Non è una gioventù organizzata, non si chiameranno boyscout, Balilla o gioventù nazista, ma il neocapitalismo è totalmente fondato su questo movimento informale e autocreantesi di gioventù. È tutto fondato sui ragazzi.

Ma non c’è un ideale...

L’ideale è quello del consumismo.

Sì, ma non è un vero ideale, ci sono solo motivazioni individualistiche, non di gruppo.

Nei giovani non ci sono solo motivazioni individualistiche ma anche di un gruppo enormemente esteso, che va da Milano a Bologna, arriva fino a Roma e serpeggia al Sud. Non c’è più spazio per piccoli gruppi in divisa dal momento che la società è omologatrice, rende tutto uguale. L’intera gioventù in Italia è un unico gruppo che ha come ideologia quella consumistica.

Senza nessuna ideologia?

Come senza ideologia? Perché l’edonismo consumistico non è un’ideologia?

Ma non è una cosa che si possa scrivere su una bandiera!

Certo, non è una cosa che si può «scrivere su una bandiera», ma invece che issare un vessillo che li rappresenti in maniera univoca, piuttosto i giovani si mettono un vestito che fa da bandiera. Sono cambiati alcuni mezzi, alcuni strumenti esterni, ma in pratica, se pur in modo aberrante, avviene tutto come prima.

Quindi secondo te i giovani esistono nel capitalismo laico ma non nella Chiesa?

I giovani esistono nel capitalismo laico. Non appartengono alla Chiesa per la ragione espressa da Paolo VI. La Chiesa non serve più, è stata superata dagli avvenimenti, e la gioventù va con la storia. Questa gioventù è un gruppo enorme, informalmente organizzato perché in accordo «di apparenza» comportamentale: parlano allo stesso modo, ridono allo stesso modo, fanno gli stessi gesti, amano le stesse cose. Io ho visto delle vere divise perché ho visto i Balilla; però non ho mai avuto la sensazione di vedere la gente in divisa come succede oggi.

È la psicosi del gruppo degli uguali.

... Solo che ha dimensioni gigantesche, che riguardano tutta una nazione. Ognuno vuole essere rappresentante e campione del gruppo. È una depauperazione dell’individualità che si maschera da sua valorizzazione. [...]

In passato, hai detto che se avessi un figlio ti spaventeresti. Io per questo non ne ho.

Alle volte mi vengono le lacrime agli occhi quando vedo il figlio di Ninetto. Piango per la pietà che provo in previsione del suo futuro.

È già da tre-quattro generazioni che si va avanti senza criteri...

I padri di questi orribili figli (poi come singoli ci sono un’infinità di eccezioni) che cosa hanno fatto perché questi figli non fossero così?

Non avevano un bagaglio culturale. Poi, probabilmente più che altro non hanno trovato modo di trasferire la sapienza da una generazione all’altra.

Il problema è proprio qui. Bisognerebbe tornare a una certa repressione, non avere paura della repressione.

Ho fatto questo discorso anche con Bernardo Bertolucci: la disciplina è paragonabile all’equilibrio tra il contadino e il padrone, che era basato sull’equilibrio della natura, con le sue regole stagionali. Rotto questo equilibrio si è rotto tutto.

È vero. I padri che adesso hanno dei figli di quindici-vent’anni ormai oggettivamente non possono più insegnare niente perché la vita dei loro figli è diversa dalla loro, non hanno fatto le stesse esperienze; non hanno perciò voce in capitolo per dare consigli. I padri da giovani avevano il problema del pane, mentre i figli oggi hanno il problema della motocicletta. La situazione è così diversa che i padri non hanno alcun diritto di insegnare. Di chi è la colpa di questo? Qual è stata la generazione che ha creato le condizioni perché i figli vivessero così? Sono stati sempre loro. Nei rapporti coi figli i padri sono impotenti e si può capire lo sconcerto che provano, però sono essi stessi i responsabili di questa situazione. I loro nonni in Italia erano fascisti; nelle grandi nazioni europee erano imperialisti.

Poi, molto dipende da come si risponde ai figli... Sono coperti costantemente dall’alibi: «Non è colpa loro»...

[…] Il problema è che tutto il mondo giornalistico e tutta la borghesia italiana sono convinti che i giovani siano finalmente liberi. Anche tutta la sinistra. E questo perché non li amano. Chi non ama i contadini non capisce la loro tragedia; chi non ama i giovani se ne frega di loro e dice che sono contenti. Non avendo amato quelli di prima, non si accorge che quelli di adesso sono cambiati: per lui sono sempre gli stessi. Per me, avendoli sempre amati, questa è una catastrofe. Non solo Accattone ma anche Le mille e una notte riguarda i giovani del Terzo mondo. È tutta una dichiarazione d’amore; tutti i miei libri e le mie opere narrative parlano di giovani. Li amavo e li rappresentavo. Adesso non potrei fare un film su questi imbecilli che ci circondano, a meno che prendessi in considerazione delle eccezioni, non facessi un dramma su un nevrotico, un tipo sensibile. Strano, mentre una volta le eccezioni, almeno nelle città, erano costituite dai figli del popolo, oggi le eccezioni le trovo tra gli studenti.

Chia (Viterbo), 13 settembre 1974

Stralci di questa conversazione sono stati pubblicati in forma di intervista col titolo Cara Tuscia su «Il Messaggero», 22 settembre 1974.

Il libro: Pier Paolo Pasolini, Polemica Politica Potere. Conversazioni con Gideon Bachman, a cura di Riccardo Costantini, Chiarelettere 2015.
Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.


Fonte: Doppiozero
http://www.doppiozero.com/materiali/ppp/italia-stralci-ma-non-progresso#_ftn2




Curatore, Bruno Esposito

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