Pagine

Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

Pasolini, l'ideologia

Il Friuli di Pier Paolo Pasolini

Guido Alberto Pasolini

Le poesie

La saggistica

La narrativa

Pasolini - docufilm, cortometraggi e collaborazioni varie.

Il teatro di Pasolini

Atti del processo

Omicidio Pasolini - Inchiesta MicroMega

Interrogatorio di Pino Pelosi

Arringa dell'avvocato Guido Calvi

Le Incogruenze

I sei errori della polizia

Omicidio Pasolini, video

martedì 20 gennaio 2015

Pier Paolo Pasolini, tra fame di vita e archetipi di luoghi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
 

Pier Paolo Pasolini, tra fame di vita e archetipi di luoghi

In principio era Pasolini, Pier Paolo Pasolini, poi divenne pasoliniano.
Un po’ come Fellini è, ineluttabilmente, felliniano.
 
L’aggettivazione toglie o aggiunge connotati identitari all’autore? Pasolini il cui pensiero si è spinto a guardare oltre l’immanente si muove su dicotomie proprie esclusivamente del suo tempo oppure ancor oggi valide e attuali? In questi tempi frenetici in cui si twitta e si tagga è facile ridurre la complessità di una persona ad un aggettivo. E’ il caso però di chiedersi se e come Pasolini diventò pasoliniano.
Un tentativo di risposta può essere fornito proprio dall’accostamento con Fellini, per analogia e per contrasto. Entrambi hanno rappresentato il proprio tempo, gli anni in cui l’Italia ha provato a scrollarsi di dosso secoli di miseria culturale e di soggezione a censure, condizionamenti, frustrazioni camuffate da sani e canonici principi. Sia Pasolini che Fellini utilizzano, seppure in modo molto diverso, le armi del pensiero divergente, onirico, e la forza dirompente del sesso, inteso come impulso liberatorio, propedeutico alla conoscenza, mai come mero voyeurismo o surrogato della pornografia. Un mutamento di portata epocale non poteva tuttavia non avere conseguenze, anche e soprattutto a livello psicologico. Fellini si protegge rivestendo le radici della propria terra, geografica e mentale, con l’alone di una visione onirica, un film nel film, pellicola nella pellicola in grado di tramutare un posto in un luogo della memoria e del sogno, al di là di ogni connotazione spaziale e temporale. Pasolini, sul fronte opposto, rende i luoghi così netti, scabri, scavati nei contorni, sottolineati mille volte nella loro dimensione primigenia fino al punto in cui, seppure per vie diversissime, giunge anche lui allo straniamento, alla dissoluzione delle variabili reali e ineluttabilmente mutevoli, le assi della cronologia e della topografia.
I luoghi diventano topos, siti della mente, coordinate del pensiero. Diventano posti che si sottraggono a qualsiasi connotazione concreta, qualsiasi realtà. Vengono inglobati e assimilati nella categoria specifica dei “luoghi pasoliniani”. Luoghi dove la vita brucia come le giornate d’estate. Tra borgate e marane si accendono attimi scarni d’esistenza e lo sguardo del poeta vaga e indaga alla ricerca di quella purezza e forza genuina delle cose, privando i luoghi di ogni monumentalità, di ogni cifra stilistica, attraversando, con la mente e con il cuore, il degrado delle periferie, delle borgate, gli spazi vuoti della campagna desolata e improduttiva, paradigma di autenticità amara.
Pasolini, per coerenza filosofica e ideologica, per rivalsa contro il mondo, forse anche per un impulso a metà tra eroismo e autolesionismo, guarda nell’abisso, lo scruta, e, ineluttabilmente, ne viene attratto.
Il poeta subisce il conflitto tra i residui di una cultura borghese e cattolica assimilata suo malgrado e la volontà di negarla, ristrutturando il suo orizzonte, il mondo artistico e umano che vive. Per questo desiderio di azzeramento e riscrittura, Pasolini sceglie come specchio oscuro e icona ideale il rudere, la casa fatiscente, gli spazi inurbani non raggiunti dal cemento della città. E’ questa la scabra essenza in cui Pasolini fa muovere i suoi personaggi e i suoi racconti. Scriveva Pasolini:
 
Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro”.

E ancora:
 
Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano”.
 
Sacro e profano, passato e presente, realtà e sovrastrutture. Sono questi gli estremi tra cui si muove il Pasolini uomo e artista. Se Fellini ha trasformato la sua Rimini in un fondale della memoria e Roma in un set per un film che dichiara costantemente la sua natura fittizia, Pasolini sceglie il tragitto contrario: toglie il velo di retorica, fa a pezzi i dépliant turistici e i cliché creati ad hoc dalla sottocultura dominante, dalle Pro Loco e dagli enti locali e statali che promuovono il moderno come progresso e l’asfalto come via privilegiata del benessere.
Pasolini percorre con la macchina da scrivere e la cinepresa l’Italia e il mondo. Bologna, città colta ma ancora soggetta a compromessi e miserie di stampo “paesano”. Il Friuli contadino, Casarsa, paese natale della madre, Susanna Colussi, così crudo e chiuso, duro di pettegolezzi che annientano tutto ciò che è “diverso”. Terra di solitudine che spinge alla fuga. Matera, città di pietra, così simile ai luoghi della crocifissione, al Golgota sempre presente della miseria vera, spietata, disumanante. Spazio per una verità che vive ogni giorno la dimensione del dolore, l’essenza quasi preistorica che sembra perduta, eppure esiste, ai margini di tutto, perfino della possibilità di concepirla, di immaginarla come esistente.
Il mondo poi, i viaggi in compagnia di Moravia, della Maraini, della Callas, per abbinare la cultura all’asprezza della verità. Lo Yemen, l’Africa, il fascino di un’arte fatta di terra e fango, costruzioni mirabili nella cruda nudità del deserto. L’arte nel silenzio e nello spazio assoluto della riflessione. Al ritorno da ogni viaggio, Roma, la città “madre”. Mamma Roma, così diversa dal suo figlio, così distante eppure imprescindibile. La città che gli dona la gloria e il pane, ma anche, con un patto non scritto ma chiarissimo per tutte le parti in causa, la morte. Quella effettiva, sulla spiaggia di Ostia, in un sudario fatto di granelli di sabbia. Scenario crudelmente reale e allo stesso tempo del tutto simbolico. Metafora di sangue. La Roma di Pasolini è quella delle borgate, degli accattoni, dei personaggi che vivono sul filo di un rasoio affilato. Gente con un fascino atavico e fatale: una fonte inesauribile di inchiostro e di immagini dotate di una crudele, poeticissima fame. Così diversa e così uguale alla sua. Pasolini se ne ciba, se ne sazia, sapendo che si tratta di sostanze estranee al suo corpo, qualcosa di lontano dalla sua natura colta e in fondo aristocratica, nonostante tutto, a dispetto di ogni scelta e volontà. Un avvelenamento deliberato e sistematico, non per rendersi immune, ma, semmai, sperando di morirne in modo adeguato, diventando ciò che ha raccontato, la sostanza delle proprie parole e delle proprie inquadrature.
Per colmare il divario tra la dimensione effettiva e il proprio ideale, Pasolini, come detto, tende a riportare i luoghi della sua esistenza alla dimensione originaria, scevra da tutto ciò che li ha tramutati e standardizzati, resi moderni nell’accezione più becera. Per Pasolini l’artista deve, attraverso la sua opera, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che questo ambiente trasmette. Ciò spiega perché, in un frammento d’autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una “forza del passato”:
 
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopo storia,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età sepolta.
(B, I, 619) 
 
Il primo intreccio tematico che si presenta all’attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio “ufficiale” di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942), poi ampliato come La meglio gioventù, (1954). Casarsa, il paese materno, è una “intatta provincia dell’atlante neolatino”: un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.
 
…Ciasarsa
– coma i pras di rosada –
di timp antic a trima.
 
(…Casarsa
– come i prati di rugiada –
trema di tempo antico.)
(B, I, 17)
 
Imparare a usare il dialetto come “strumento di ricerca” implica un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l’idea di un percorso a ritroso “lungo i gradi dell’essere”. Il dialetto, per Pasolini, coltissimo scrittore dotato di un italiano nitido e ricco, diventa un paradossale quanto significativo atto di riscoperta ma anche di ribellione, quasi un atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch’essa un volto poeticamente provocatorio. Un primo gesto di coscienza politica. In opposizione agli spazi scabri del Friuli, il ricordo di Bologna, gli anni della formazione e della lettura, gli anni in cui assimila bellezza e scrittura, portici magnifici e libri fondamentali:
 
“Il Portico della Morte è il più bel ricordo di Bologna. Mi ricorda l’Idiota di Dostoevskij, mi ricorda il Macbeth di Shakespeare, i primi libri. A quindici anni ho cominciato a comprare lì i miei primi libri, ed è stato bellissimo, perché non si legge mai più, in tutta la vita, con la gioia con cui si leggeva allora”.
 
E’ ironico, comunque, notare, in questo frammento autobiografico, un’ironia amara nei nomi: perfino negli anni in cui il poeta respira serenità, la Morte, da quel Portico, sembra inviargli un monito, un appuntamento per un futuro prossimo.
Roma, dunque, il terzo grande polo dell’esistenza di Pasolini. Il luogo che gli fece conoscere il cinema di Renoir e Clair, che gli consentì di avvicinarsi all’arte di Giotto e Masaccio e di avviare fondamentali esperienze letterarie come la rivista “Officina”.
Il mondo di Pasolini diventa Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L’ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un’operazione determinante per inquadrare e “fotografare” un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l’icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un “Gesù corrotto nei salotti vaticani”, una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo.

Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull’Italia, che gli permettono la “continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio”. Qui però torna, ineludibile, la domanda da cui siamo partiti: si tratta di quadri realistici o astratti, in qualche modo filosofici? La seconda opzione prevale, alla luce di quanto si è detto e osservato in questa breve escursione sulle tracce di uno dei più complessi e irrequieti artisti italiani del Novecento. Pasolini, nei suoi libri e nei suoi film, ritrae sempre il suo paesaggio interiore, l’idea del mondo che avrebbe voluto, che amava, e che lo inorridiva, ma che sentiva essere la sola fonte di autenticità a cui attingere. A costo di annegare nel pozzo delle verità scomode e taglienti come i coltelli e le urla e le vitalissime pazzie dei ragazzi di strada. Pasolini diventa se stesso nel momento esatto in cui si nega, nega ciò che davvero era. Si accosta al contrario di sé, copula con il lato opposto della sua natura intrinseca, per esprimere ciò che concepiva come la sola arte degna di tale nome: quella scabra, giottesca, lontana da qualsiasi elaborazione inessenziale.
Il paradosso, è che in questa sua ricerca di un’Italia come era, come autenticamente fu in un passato distante e incontaminato, ha finito per parlare con un’accuratezza documentaria di un’Italia attuale, di una parte del paese che si tendeva e in fondo si tende a nascondere, a ignorare, rimuovendola dalla coscienza e dai manifesti pubblicitari.
L’Italia “pasoliniana”, cruda, essenziale, così vicina alla dimensione primigenia, ha fatto intravedere, per contrasto, come in una fotografia sovraesposta, ciò che realmente esiste, al di là dei confini della rispettabile patina accattivante cara ai turisti.
Pasolini ha avuto in sorte il compito di narrare una dimensione tanto pura e ideale, così connotata secondo il suo modo di vedere e di pensare, da poter apparire incorporea, astratta, filosofica. Eppure, alla fine, il suo mondo primigenio, sognato, creato, recuperato, mondato da ogni orpello, ha fatto apparire appena dietro l’orizzonte delle palazzine una realtà più vera del vero, forte e disperata come la sua sete e la sua fame di vita. Quella stessa vita, che, guardata dritta negli occhi, lo ha condotto ad una morte, che è stata ed è, emblematicamente, assolutamente reale e tuttavia già mitica, avvolta in mistero di urla e silenzi, risa e ghigni ottusi e crudeli. Tanto vera da sembrare immaginaria. Assolutamente “pasoliniana”.
 
Ivano Mugnaini
IL CARTELLO
http://www.ilquorum.it/pier-paolo-pasolini-tra-fame-di-vita-e-archetipi-di-luoghi/#prettyPhoto


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog
 
 

Pasolini, Una vita violenta - Di Gambaro Stefano e Maggiore Analia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
 
 
Pasolini, Una vita violenta
Di Gambaro Stefano e Maggiore Analia

Il 5 marzo 1922 nasce a Bologna Pier Paolo Pasolini, dal tenente di fanteria Carlo Pasolini e dall' insegnante di Casarsa (Friuli) Susanna Colussi. Nel 1925, a Belluno, dove la famiglia Pasolini si era trasferita, nasce il secondo figlio Guido Alberto.
Sin dall'età di sette anni inizia la vocazione letteraria di Pier Paolo, con le poesie infantili scritte a Sacile, dove frequenta le scuole elementari.
Gli studi proseguono per il poeta a Reggio Emilia, dove si iscrive al ginnasio per poi trasferirsi al "Liceo Galvani" di Bologna e quindi, nella stessa citta', iscriversi alla Facoltà di Lettere dell'ateneo bolognese, dove si laurea con una tesi su Pascoli.
Risale al 1942 la prima raccolta di poesie, pubblicata a sue spese, "Poesie a Casarsa" in dialetto friulano; l'opera viene subito recensita positivamente da Gianfranco Contini sul Corriere di Lugano.
Nel 1945 muore appena diciannovenne il fratello Guido, partigiano nella brigata "Osoppo", ucciso dai partigiani jugoslavi, in una delle pagine più controverse della Resistenza. E' un evento che segna profondamente il poeta, che nelle sue opere più volte rievocherà con dolore il trauma per la prematura scomparsa del fratello.
Tra il'45 ed il '49, Pasolini insegna nelle scuole medie di Valvasone, un paese vicino a Casarsa. Questi sono anche gli anni delle poesie, raccolte nel 1958 ne "L'Usignolo della Chiesa Cattolica" che segnano la svolta politica in senso marxista del giovane scrittore.
Negli anni '50 si trasferisce con la madre a Roma, dove trascorre anni duri, abitando in borgata fino ad ottenere un impiego come insegnate a Ciampino e a lavorare a qualche sceneggiatura cinematografica che gli permette di prendere casa con la famiglia in via Fonteiana, nel quartiere di Monteverde.
E' del 1954 la raccolta di poesie friulane "La meglio gioventù" e nel 1955 inizia la collaborazione alla rivista "Officina", da cui poi verranno le opere "Passione e ideologia" del '60 e "La religione del mio tempo" del '61.
Nel 1955 esce il primo romanzo, grande successo letterario, "Ragazzi di Vita", per il quale Pasolini subisce un assurdo processo per "oscenità", accusa dalla quale verrà assolto. Stessa sorte ( anche se questa volta la denuncia verrà archiviata), quattro anni più tardi, per il secondo romanzo "Una vita violenta" che raggiunge fama internazionale, con undici traduzioni e continue ristampe.
E' del 1957 una delle più belle e significative opere poetiche di Pasolini, "Le ceneri di Gramsci", che gli vale il Premio Viareggio; è l'inizio di una nuova poesia di impegno civile, con l'utilizzo di una metrica desueta e cantilenante, al tempo stesso rottura e citazione.
Dal 1961 inizia l'esperienza cinematografica pasoliniana con "Accatone" concludendosi con "Salò o le 120 giornate di Sodoma" del 1975, passando attraverso (solo per citarne alcuni) i bellissimi "Il Vangelo secondo Matteo" (1964), "Uccellacci e uccellini" (1966) e "Il Decameron" (1971).
Non va tralasciato che l'impegno del Pasolini intellettuale è comunque a tutto campo, dalle liriche di "Poesia in forma di rosa" (1964) e " Trasumanar e organizzar" (1971), alla prosa de "Il sogno di una cosa" (1962), "Alì dagli occhi azzurri" (1964) e "Teorema"(1968), alle collaborazioni con la rivista "Nuovi Argomenti" e con il quotidiano "Il Corriere della Sera", fino ad arrivare alla saggistica di "Empirismo eretico"(1972) e degli stupendi "Scritti corsari" (1975), senza dimenticare i lavori teatrali e di critica letteraria.
E' l'alba del 2 novembre 1975 quando il corpo di Pier Paolo Pasolini viene ritrovato martirizzato e senza vita in un largo sterrato all'Idroscalo di Ostia, nei pressi di un campetto sportivo non lontano dal mare. Le autorità stabiliranno che si tratta di un omicidio per il quale viene arrestato l'allora minorenne Pino Pelosi, ma tutto lascia presupporre il concorso con altri individui, anche se le indagini non verranno mai proseguite. Tutto come in uno di quei tanti "buchi neri" della storia della nostra Repubblica che lo stesso Pasolini aveva più volte, nel corso della sua vita, sottolineato con forza.
 
Titolo

Una Vita Violenta. Il titolo venne scelto da Pasolini con l’intento di sottolineare la caratteristica dominante della vita di Tommaso, un ragazzo della Roma degli anni Cinquanta: per lui, come per gli altri componenti della sua combriccola di delinquenti, la violenza è all’ordine del giorno; e non può che essere altrimenti, date le difficili condizioni di vita che chiaramente emergono nel romanzo.
 
Anno di Pubblicazione

Il romanzo apparve al pubblico nel 1959.
 
Edizione consultata

X edizione, aprile 1999, Garzanti-Gli Elefanti
 
Genere Letterario

L’opera si ascrive a più generi letterari:
  • è anzitutto un romanzo verista, fedele a quel filone letterario il cui più importante esponente fu Verga. Come lui, anche Pasolini mette in scena scorci di vita reale, che anche se non sono stati veramente vissuti da un personaggio reale, non sono per questo meno realistici o veritieri. La loro forte carica espressiva deriva dunque dal fatto che gli episodi descritti sono tratti dalla vita di tutti i giorni di un gruppo di delinquenti degli anni Cinquanta: del resto già il lettore si rende conto che la narrazione non è solo realistica o verosimile, ma è vera.
  • è un romanzo che vuole essere in un certo senso didascalico, per il fatto che si propone di informare il lettore delle difficili condizioni di vita in cui molti ragazzi sono costretti a vivere. Ha cioè qualcosa da insegnare, un qualcosa che tutti dovrebbero, secondo l’autore, sapere.
  • è un romanzo di formazione, che ha cioè l’intento di mostrare una precisa crescita interiore del personaggio principale. Tommaso percorre nel corso delle pagine una maturazione non indifferente, che lo porta ad essere, dal piccolo delinquente delle Piccola Shangai, il ragazzo molto più maturo e responsabile dell’Ina-case.
  • è un romanzo in un certo senso anche autobiografico, perchè tratto dalla viva esperienza dell’autore. Pasolini veramente è vissuto con quelle brigate di delinquenti che sono al centro del suo romanzo: ha quindi potuto conoscere le problematiche di quei ragazzi in prima persona, rimanendone fortemente coinvolto.
 
Narratore

Nel pieno rispetto dello stile verista, Pasolini lascia che siano i personaggi a parlare, senza intervenire con commenti o giudizi espliciti, ma sempre celandosi dietro ai personaggi. Ne risulta perciò una narrazione a focalizzazione interna multipla, in quanto l’azione viene filtrata dagli stessi personaggi, e in particolare da Tommaso.
 
Fabula

Ambientato fra il sottoproletariato romano degli anni Cinquanta il romanzo delinea un vasto affresco realistico in cui emerge la vicenda esemplare di Tommaso Puzzilli, un "ragazzo di vita" che arriva attraverso le sue esperienze ad acquisire consapevolezza umana e politica.
Nato fra le baracche dell’estrema periferia, da una famiglia miserabile, Tommaso, violento e amorale, vive di sordidi espedienti e partecipa anche a spedizioni teppistiche. Per una rissa in cui ha accoltellato un altro giovane, Tommaso viene condannato a due anni di carcere e, uscendo di prigione, trova la famiglia insediata in un appartamentino dell’Ina case, finalmente ottenuto dopo tante richieste.
A Tommaso, affascinato dal "lusso" quasi "borghese" della sua nuova abitazione, sembra di poter ora intraprendere una vita nuova e rispettabile, ma il suo sogno di elevazione sociale è destinato a fallire. Alla visita militare, Tommaso risulta ammalato di tubercolosi ed è perciò costretto a un lungo ricovero che vanifica ogni possibilità di lavoro e di guadagno. Entrerà in un ospedale. Proprio all’interno del tubercolosario, però, a contatto con un gruppo di degenti politicizzati, comincia per Tommaso un processo di maturazione che lo porta a prendere coscienza della sua condizione individuale e sociale.
Una volta dimesso dall’ospedale Tommaso dà la sua adesione al Partito comunista e, quando l’Aniene inonda un quartiere di baraccati, egli accoglie prontamente l’invito dei compagni della sezione gettandosi fra l’acqua e il fango per aiutare i pompieri impegnati nei soccorsi.
Questo gesto generoso è però fatale a Tommaso, in quanto gli procura un nuovo, violento attacco della sua malattia polmonare. Poche, dimesse parole, a conclusione del romanzo, annunciano la sua morte.

 
Struttura interna

L’opera è divisa in due parti, a loro vo0lta suddivise in cinque capitoli ciascuna. Il romanzo è inoltre corredato da un’Avvertenza  e da un Glossarietto, in cui vengono spiegati i principali termini tratti dal dialetto romano e utilizzati nel testo.
 
Tempo

La narrazione è ambientata nella Roma degli anni Cinquanta, in una realtà sociale formatasi dopo le distruzioni imposte alla città dai bombardamenti subiti durante la seconda guerra mondiale e alimentata anche dalle grandi ondate migratorie dell’immediato dopoguerra. La scelta di questa collocazione temporale non è del resto casuale. Primo perchè è proprio in quel periodo, siamo nel 1950, che Pasolini si trasferì a Roma con la madre; risale a questi anni il contatto dell’autore con l’ambiente di borgata, un ambiente difficile, che Pasolini arrivò a conoscere molto bene: gli risultò quindi inevitabile ambientare Una vita violenta, come già prima Ragazzi di vita, nello stesso periodo e luogo in cui toccò a lui vivere in un ambiente simile. Secondo perchè proprio gli anni Cinquanta furono tra i più difficili per l’Italia, appena uscita dalla guerra e non ancora completamente rimessa; gli effetti disastrosi della sconfitta bellica si possono ancora scorgere tra le pagine del romanzo, i cui protagonisti vivono in un villaggetto di baracche in mezzo all’immondizia, e vedono la concessione di un alloggio in una palazzina popolare come una manna dal cielo.
 
Tempo storia e tempo racconto

Le vicende coprono un arco di tempo pari a circa sette anni: all’inizio del romanzo, infatti, Tommaso afferma di non avere ancora tredici anni compiuti, mentre negli ultimi capitoli, durante l’incontro con un prete, confessa di doverne compiere venti a novembre. L’azione non procede però i maniera del tutto lineare: frequenti sono infatti gli scarti temporali, soprattutto in corrispondenza dei cambi di capitoli e tra le due parti in cui è diviso il romanzo. In particolare si osserva che l’azione subisce una forte accelerazione cronologica nelle prime parti, con un conseguente progressivo rallentamento: nei primi capitoli infatti, le vicende narrate si collocano negli anni della prima adolescenza di Tommaso, che ha appena tredici anni. Successivamente  invece si hanno dei bruschi salti temporali, non sempre ben specificati, che ci proiettano attorno ai diciotto-vent’anni del protagonista. È bene evidenziare che nel romanzo sono presenti molte ellissi, come il periodo trascorso in carcere, ben due anni, di cui non viene mai detto nulla. La narrazione delle varie vicende ha inoltre un carattere frammentario, in quanto non viene sempre condotta in maniera continua, ma spezzettata in tanti piccoli episodi di vita. Deriva dunque un’evidente sfasatura della fabula e dell’intreccio, un’alterazione profonda dell’ordine in cui vengono presentati gli eventi.
Il ritmo narrativo scorre invece abbastanza lineare: non si hanno lunghe scene descrittive o riflessive che appesantiscono la narrazione. Si ha invece una discreta abbondanza di dialoghi e, nei casi di sequenze descrittive, la narrazione procede abbastanza veloce, senza intoppi.
 
Luoghi

Il romanzo è ambientato nella periferia di Roma e in particolare nella piccolo paese di Pietralata, sulle rive dell’Aniene. Nella prima parte del romanzo le vicende hanno come sfondo la “Piccola Shangai”, il villaggetto di baracche dove vivevano Tommasino e i suoi amici. Successivamente l’azione si allarga fino a comprendere alcuni quartieri periferici romani. Negli ultimi capitoli l’azione viene condivisa tra il nuovo caseggiato popolare delle INA-case, nuova abitazione della famiglia di Tommaso, e l’ospedale Forlanini dove il protagonista viene più volte ricoverato a causa della sua tubercolosi.
Nella descrizione degli spazi, Pasolini non mostra un’attenzione eccessiva: spesso i luoghi sono del tutto impersonali, vuoti, la loro presenza è quasi “assente”: mancano infatti descrizioni dettagliate della cornice in cui avvengono le sequenze narrative. Pochi sono i particolari spaziali presenti nel romanzo, e la loro presenza è eventualmente dovuta a un’utilità pratica: ad esempio, la vecchia baracca dove viveva Tommaso sottolineava la povertà e la difficile vita a cui la sua famiglia, come molte altre altre, era soggetta a vivere. Il nuovo alloggiamento all’INA-case, invece mette in risalto il lusso, la ricchezza del nuovo mondo che si stava venendo a costruire. Probabilmente la scelta dell’autore di non dare una descrizione spaziale definita è da spiegarsi con la volontà di fare di Una vita violenta un racconto esemplare, indicativo di uno stile di vita e di un periodo storico che va al di là delle definizioni e dei limiti spaziali: il romanzo può così adattarsi perfettamente ad ogni altra esperienza simile, perchè i ragazzi di vita non sono solo quelli che aveva conosciuto Pasolini.
 

Personaggi
Tommaso Puzzilli


Tommaso è il personaggio principale del romanzo, che Pasolini introduce nel tessuto narrativo con una descrizione iniziale diretta. Tuttavia l’autore preferisce non presentasse il personaggio tramite un ritratto preciso: preferisce lasciare al lettore il compito di crearsi un’immagine del protagonista. Anche in questo caso  si esprime l’intento dell’autore di fare di Tommaso un individuo-tipo, la figura del ragazzo di vita, del ragazzo che non sa ottenere dalla vita ciò di cui ha bisogno se non con l’aiuto della violenza, se non sfruttando la delinquenza. Quando finalmente capirà cosa vuol dire vivere, quando sarà deciso a mettere la testa a posto, a cercare un lavoro, a fidanzarsi con Irene, sarà troppo tardi: la violenza e la difficile vita degli anni trascorsi in gioventù gli hanno ormai segnato l’esistenza e si esprimono con la violenza della tubercolosi, che gli fa sputare quello stesso sangue che aveva sprecato per restare al mondo. Pasolini fa di Tommaso un ragazzo generico, violento e delinquente come tanti altri; lo lascia volutamente privo di una caratterizzazione, perlomeno fisica, definita, così che in lui rivive tutta una generazione, quella appunto dei ragazzi di vita con cui lo stesso autore aveva convissuto per anni.
Ma Tommaso, col passare delle pagine, subisce anche una maturazione interiore, segue un itinerario psicologico che lo porta a familiarizzare con il mondo, a comprendere che la vita non dev’essere fatta solo di violenza e delinquenza. Probabilmente questo messaggio era destinato a quegli “amici” di Tommaso che Pasolini aveva strettamente conosciuto: con questo testo, e in particolare con la maturazione del protagonista, avrebbe potuto voler insegnare loro delle regole di vita diverse a quelle cui erano soliti, delle parole diverse da violenza e delinquenza. Perchè se è vero che uno dei temi conduttori del libro è proprio la violenza, è anche vero che alla fine Tommaso non ne farà più uso, e preferirà colmare il vuoto interiore con un atto di eroismo.
Ciò che però il protagonista non riesce a eliminare completamente è, a mio avviso, una certa superficialità e semplicità con cui affronta la vita. Per lui la violenza è sempre stato un divertimento, la delinquenza un modo facile per guadagnare qualche spicciolo, il rapporto con Irene una soddisfazione personale, più che emotiva; e soprattutto ha sempre guardato alla vita con una leggerezza disarmante, l’ha sempre creduta un gioco in cui non conta né vincere né perdere: basta solo stare al mondo. Ma questa filosofia di vita si dimostrerà presto sbagliata: quando gli verrà diagnosticata la tubercolosi, Tommaso non darà alcuna importanza alla malattia, continuerà per la sua strada. Sarà un errore: la malattia non lo lascerà e lo porterà via con sè.

Irene

La fidanzata di Tommaso, a cui il ragazzo è molto più attaccato per le sue doti fisiche piuttosto che per il suo spessore psicologico. La ragazza invece si dimostra molto affezionata a lui, tanto da obbedirgli in più di una situazione. Non per questo però cede facilmente alle provocazioni del fidanzato: cerca di rispettare i suoi valori e principi, concedendo e concedendosi solo nella misura che ritiene più opportuna.

Lello, il Zimmìo, Ugo, il Cagone, il Budda, Carletto, il Zucabbo, il Matto...

Tutti compagni della brigata di piccoli delinquenti di cui faceva parte anche Tommaso.

Torquato,  Maria, Tito e Toto

Rispettivamente il padre, la madre, ei due fratelli minori di Tommaso; a loro si aggiunge un fratello maggiore, di cui però non sappiamo nulla. Per Tommaso però la famiglia non ha molta importanza: lo dimostra lo scarso ruolo che riveste nel romanzo. Questo perchè la vera famiglia sono per il protagonista gli amici, i compagni di brigata, con cui trascorre tutto il suo tempo.
 
Lingua

Curiosa è la scelta linguistica di Pasolini, che conduce tutta la narrazione con il dialetto romanesco, tanto che quasi tutte le battute di dialogo sono costituite da una fedele e spesso cruda trascrizione del gergo delle borgate.
 
Temi

Attraverso l’analisi del romanzo Una vita violenta emergono diverse tematiche che l’autore ha desiderato evidenziare.
 
il tema principale, motivo conduttore di tutto il libro, è quello della violenza, spesso associata alla delinquenza.
 
importante è anche il divario tra ricchi e poveri, tra i “figli di papà” e i delinquenti costretti ad usare la violenza per avere di che vivere.
 
una certa superficialità, rintracciabile soprattutto nella leggerezza con cui viene affrontata la vita, vista più come un gioco che come una battaglia da vincere.
 
Gambaro Stefano
 
Navigando in Internet, alla ricerca di qualcosa di interessante da scrivere proprio in questo paragrafo della mia relazione, la mia attenzione è stata colpita da un breve stralcio di un’intervista a Pier Paolo Pasolini, pubblicata ne “Le belle bandiere” (Editori Riuniti, Roma 1996). Il brano racconta di come sia nato il progetto di “Una vita violenta”:
"La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del '53 o '54, quando stavo finendo di scrivere Ragazzi di vita. C'è un punto della Tiburtina, all'altezza di Pietralata, e poco prima di Tiburtino III e Ponte Mammolo (dove allora abitavo), che si chiama il "Forte". Vi si vedono una caserma, un bar, una fabbrica, un deposito di pullman, delle baracche, e, dietro, un'altura, un montarozzo spelacchiato e infernale, il "Monte del Pecoraro" (che ho tante volte descritto nei miei libri, e che ridescriverò nel primo Canto del mio nuovo romanzo, un Inferno, appunto, che si chiama La mortaccia).                                                                                                             
Pioveva, o era appena cessato di piovere. C'era un'aria fradicia e dolente, con quell'azzurro cupo, funereo, troppo lucido che si scopre in fondo all'orizzonte quando il tempo si rasserena verso sera, ed è ormai troppo tardi.
Camminavo nel fango. E lì, alla fermata dell'autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso. Non si chiamava Tommaso: ma era identico, di faccia, a come poi l'ho dipinto ripetutamente nelle pagine di Una vita violenta, e vestiva, anche, nello stesso modo: un abituccio sbrindellato, ma "serio", con la camicia bianca magari sporca, e la cravattina, violacea e lisa. Come spesso usano fare i giovani romani, prese subito confidenza: e, in pochi minuti mi raccontò tutta la sua storia: l'episodio che ho poi raccontato nel primo capitolo, e la sua malattia al Forlanini. 
Poi sparì. Non l'ho più rivisto. Né a Pietralata, né a Tiburtino; in nessuna di quelle misere strade che circondano la Città di Dite.
Quando sono giunto al capitolo del Forlanini, ho dovuto documentarmi, perché in tutta la mia vita non avevo visto un ospedale se non per qualche visita.
Ho parlato con due ex ricoverati - che sarebbero poi diventati due personaggi del romanzo - ho parlato con uno dei medici (fratello di un uomo politico comunista mio amico), e ho parlato, infine, con alcuni malati anonimi. Cinque o sei giorni di lavoro. Tutto qui."
 
Infatti nell’avvertenza alla fine del romanzo, Pasolini scrive:
I riferimenti a singole persone, fatti e luoghi reali qui descritti sono frutto di invenzione: tuttavia vorrei che fosse ben chiaro al lettore che quanto ha letto in questo romanzo e, nella sostanza, accaduto realmente e continua realmente a accadere.
Ringrazio i «ragazzi di vita» che, direttamente o indirettamente, mi hanno aiutato a scrivere questo libro, e in particolare, con vera gratitudine, Sergio Cittì.

Fonte: http://www.atuttascuola.it/scuola/relazioni/pierpaolopasolini.htm



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog