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mercoledì 24 marzo 2021

Pier Paolo Pasolini, La morte di Amerigo - DA Ragazzi di vita

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


La morte di Amerigo DA
Ragazzi di vita
di Pier Paolo Pasolini Einaudi, Torino 1972
(da Ragazzi di vita, cap. IV "Ragazzi di vita")

   [...] - Amerigo è morto, - disse. Il Riccetto si alzò a sedere puntando i gomiti e lo guardò in faccia. Gli angoli della bocca gli tremavano come per un sorrisetto divertito; era una notizia eccitante, e si sentiva tutto pieno di curiosità. - Ch’hai fatto? - chiese. - È morto, è morto, - ripeté Alduccio, contento di dare quella notizia inaspettata. - È morto ieri ar Poricrinico, - aggiunse. Quel cavolo di sera che il Riccetto aveva tagliato dalla casa di Fileni, il Caciotta e gli altri s’erano fatti beccare, ma non avevano fatto resistenza. Amerigo invece s’era lasciato portar fuori tenuto per le braccia da due carabinieri, ma appena sul terrazzino li aveva sbattuti contro la parete e aveva fatto un zompo di due o tre metri sul cortile;

s’era acciaccato un ginocchio, ma era riuscito lo stesso a trascinarsi avanti lungo il muro del lotto: i carabinieri avevano sparato e l’avevano colto a una spalla, e lui ugualmente ce l’aveva fatta a arrivare fin sulla sponda dell’Aniene lì stavano quasi per acchiapparlo, ma lui sanguinante com’era s’era buttato in acqua per attraversare Il fiume e nascondersi negli orti dell’altra riva, scappare verso Ponte Mammolo o Tor Sapienza. Ma in mezzo al correntino s’era sturbato e i carubba l’avevano acchiappato e portato al commissariato zuppo di sangue e di fanga come una spugna: così che dovettero trasferirlo all’Ospedale e piantonarlo. Dopo una settimana gli era passato Il febbrone, e lui tentò d’ammazzarsi tagliandosi I polsi coi vetri d’un bicchiere, ma anche stavolta lo avevano salvato; allora una decina di giorni appresso, prima che Alduccio e il Riccetto s’incontrassero all’Acqua Santa, s’era gettato giù dalla finestra del secondo piano: per una settimana aveva agonizzato, e finalmente se n’era andato all’alberi pizzuti.


- Domani ce stanno li funerali, - disse Alduccio.

- Li mortacci sua! - scandì impressionato a mezza voce il Riccetto. Il Lanzetta per far vedere che lui non si meravigliava di niente e che la sua massima era: fatte sempre li ... tua, si mise a cantare:

Zoccoletti, zoccoletti...


e si sbragò meglio che poteva sull’erba con le mani intrecciate sotto Il broccoletto fresco della sua capoccia.
   Il Riccetto invece stette a pensarci un po’ sopra poi decise ch’era suo dovere partecipare ai funerali d’Amerigo: è vero che lo conosceva appena, ma Amerigo era amico del Caciotta, e poi insomma la cosa gli andava. - Domani vengo a Pietralata, - disse a Alduccio, - ma nun lo ddì a nissuno, che nun ‘o venisse a sapè mi’ padre.


   Amerigo stava disteso sul letto col vestito blu nuovo, la camicia bianca e le scarpe nere. Gli avevano incrociato le braccia sul petto, anzi sul doppiopetto di cui da un par di domeniche era tanto orgoglioso, andandosene per Pietralata con la camminata cattiva. I soldi se l’era procurati facendo una rapina in via dei Prati Fiscali: aveva scucito al micco una trentina di mila lire, e per levarsi una soddisfazione lo aveva pestato a sangue: e così s’era fatto il vestito blu, e andava in giro con quello con un umore più da bestia del solito. C’era da far bene attenzione a come lo si guardava, e gli amici suoi della borgata, vigliacchi e falsi con lui, sapevano ungerlo senza mostrarlo troppo, ma altri giovani che non lo conoscevano, incontrati nelle sale da ballo del Partito Comunista, o a qualche biliardo, erano tornati a casa con l’occhi gonfi e le gengive sanguinanti: e fortuna per loro che Amerigo era stato diffidato a andare in giro col coltello. Era un vestito coi calzoni a tubo, la giacca corta con le spalle larghe e rotonde: teneva il colletto della camicia bianca sbottonato e i capelli pettinati alla ghigo. Adesso lì, s’era lasciato mettere pazientemente, come una vittima, le mani in croce sul doppiopetto: ma il colletto gli stava ancora sbottonato alla malandrina incorniciandogli il volto che era stato da morto anche quand’era vivo. Tanto che pareva si fosse appena addormito, e faceva ancora paura. Finita la pennichella, quello avrebbe certamente finito di pazientare e avrebbe spaccato il grugno a quelli che s’erano permessi di conciarlo a quel modo. Se ne stava lì cupo e zitto, sul letto ch’era troppo piccolo per lui, con un cesto di capelli ricci, ancora luccicanti di brillantina sul guanciale grigiastro.


   Il Riccetto entrò dentro la piccola stanzetta a pianterreno del lotto, con alcuni amici suoi di Tiburtino, per vederlo. Davanti all’ingresso del lotto, ch’era senza porta, e aveva a destra e a sinistra due scalette, c’era una piccola folla di gente vestita di scuro: tutti i Lucchetti, venuti a compiere il loro dovere di parenti, e di protagonisti della giornata, con gli abiti da festa, che erano a vivaci colori, quelli dei magazzini e dei giovincelli, e da ballo più che da funerale quelli dei giovani. I vicini di casa, che stavano a abitare nello stesso lotto, in dieci o dodici per ogni stanza - cosi che ce n’era quasi un quartiere - se ne stavano più in disparte, e più in là ancora gli amici di Amerigo, tutti acchittati: Arduino col naso e un occhio strappati da una bomba a mano quand’era ragazzino, il ragazzo tisico che abitava al lotto dodici, er Carogna, er Napoletano, er Capece, er fijo de sor’Anita, che suonava la ghitarra e cantava, specialmente le notti che tornavano in borgata da qualche impresa e stavano su fin tardi a spartirsi i soldi, a litigare o a farsi una passeggiata sulla fanga sotto la luna infuocata sulle casette degli sfrattati. C’era anche qualche ragazzo più giovane, che se ne stava appoggiato pigramente al muro della casa, chiacchierando a voce bassa coi compagni, o guardando i pischelletti che giocavano al pallone, più in là, in una radura in mezzo a Pietralata.

   Il Riccetto e gli altri manco erano entrati nella stanza dove stava il morto che già avevano voglia di spesare: c’era umidità e buio come in inverno, e le zie e le sorelle d’Amerigo, grasse com’erano, la empivano che non ci si poteva neppure muovere: diedero un’occhiata al morto, e, vergognandosi, perché era dal giorno della prima comunione che non lo facevano, si fecero il segno della croce, e riuscirono in strada dove gli uomini stavano a parlare. Al centro, ma distratto, come uno che fa gli affari suoi, stava Alfio Lucchetti, lo zio più giovane, bruno come Amerigo, con gli zigomi e i ricci come lui, ma più alto e secco: era quello che tre anni prima aveva dato una baionettata nella pancia al padrone del bar li alla fermata, e adesso dicevano che si stava a rovinare per una prostituta che manteneva a Testaccio. Veramente, più che chiacchierare cogli altri diceva due o tre parole ogni tanto, ma con un’espressione chiusa e allusiva, scuotendo la testa. E subito lasciava cadere il discorso, come non volesse far sapere i fatti suoi a troppe persone che stavano ascoltando lì attorno. Guardava al di là di tutte le teste che facevano cerchio, con le mani sprofondate nei calzoni a righini grigi sotto la giacca nera, stringendo i molari sotto le mascelle così forte da farle gonfiare e sgonfiare, come faceva Amerigo, alto che se alzava una mano toccava i fili della luce.
   Stava calmo e risentito, covando, in fronte a tutti, il segreto che tutti più o meno avevano svagato, in borgata: c’era, dietro la morte d’Amerigo, tutto un insieme di cose la cui luce minacciosa si rifletteva su ogni faccia lì attorno. N’era schiarita la faccia di Alfìo, grigia di barba, e nera sotto le radici dei capelli bassi sulla fronte, con la nuca di ragazzo sul colletto bianco rovesciato, le facce degli altri zii e cugini, compresi nel senso del dovere e nel silenzioso rancore che li faceva le figure più importanti di Pietralata, decisi a non parlare, a serbare tra loro, in famiglia, i commenti sullo stato di cose che s’era formato con la morte di Amerigo, o al massimo farne qualche mezza rivelazione con delle parolette allusive e piene di minaccia. C’era poi, tra le altre sornione, la faccia di Arduino, con la pezza nera che nascondeva il buco cicatrizzato dell’occhio, ma non i resti del naso, e quella del figlio di sora Anita, del Carogna, del Capece, con negli occhi obliqui la loro espressione di rapaci, e, in fondo alla serietà, un guizzare di beatitudine grassa come quella dei soldati sotto la doccia. Alduccio afferrò a volo le mezze parole pronunciate tra Alfio e gli altri uomini. Il suo viso fu inondato da una espressione edificata, e mormorò, stirando la bocca e accennando a riparare la testa tra le spalle:
- So’ c... sua, so’.
- De chi? - fece attento il Riccetto, con una curiosità finalmente un poco ingenua. Alduccio non gli rispondeva.
- De chi, Ardù? A Ardù! - rifece il Riccetto.
- De quello ch’ha parlato, - disse, gentile, dandogli distrattamente retta Alduccio. Il Riccetto pensò subito al lotto nove e alla sua bisca, e non rifiatò. Guardava Alfo Lucchetti con supremo rispetto. Quello aveva fatto intanto due passi in là, scostandosi dal gruppo, e se ne stava li zitto e sicuro, con le mani affondate nelle saccocce dei calzoni.

   Dentro si sentivano i pianti delle donne. I maschi, invece, non davano segni d’esser commossi, e anzi, semmai, avevano, incarnata nei lineamenti di giovinottelli imberbi o di vecchi paraguli, una vaga espressione di divertimento. A Pietralata, per educazione, non c’era nessuno che provasse pietà per i vivi, figurarsi cosa ... provavano per i morti.

   Il prete venne di fretta, senza guardare in faccia nessuno. Dietro gli trottavano due creature secche come gattini, pescate in qualcuna delle case, rimaste qua e là per la campagna bruciata e gl’immondezzai, di vecchi burini, ai margini di Pietralata. Trottavano dentro la cotta smucinando col turibolo, tra la gente che nel gran sole a picco se ne stava qua e là tra i lotti e le casette, o camminava, o giocava, o gridava. I ragazzini che calciavano il pallone correndogli dietro come uno sciame di vespe, con addosso i loro stracci d’accattoni, continuavano a stridere in lontananza, nella luce violetta, e nel bar alla fermata c’era il solito via vai degli scioperati di quell’ora. Chiacchieravano urlando come cani nel locale semivuoto, o stavano appoggiati chi agli alberelli secchi chi agli stipiti della porta, con una faccia carica d’ironia, e i pollici cacciati dentro i calzoni senza cinta, spingendoli in giù col cavallo alle ginocchia: altri se ne stavano dentro i cortili, sotto le finestrine luride, presso i resti dei cessi venduti durante la guerra ai burini mattone per mattone: adesso tutti erano occupati a guardare, da lontano, il funerale. Il prete entrò dentro in casa, fece quello che doveva fare, e poco dopo riuscì lui, con dietro i suoi due cuccioletti, tutta la folla delle donne e la cassa portata fuori a braccia. Questa fu caricata sull’auto nera, e la fila scalpicciando s’avviò piano piano per la via di Pietralata; passò davanti al bar, impedendo a un autobus, ch’era alla fermata, di riprendere la sua corsa, poi davanti allo spiazzo di terra con sulle gobbe due o tre caroselli, all’ambulatorio nudo come una prigione, ai prati carbonizzati, alle casette rosa, ai tuguri, a qualche fabbrica così in disordine che pareva appena bombardata; e arrivò alle falde del Monte del Pecoraro, presso la Tiburtina, in quel punto tutto slabbrato di vecchie cave dirute.

   - Mo che famo? - disse il Riccetto a Alduccio, a voce bassa, tra la gente che camminava scomposta, chi indietro chi avanti, di conserva all’automobile e al prete. - Boh che ne so, - fece Alduccio ciondolone con le mani ficcate nelle saccocce sotto le falde ondeggianti della camiciola. Se ne venivano lemme lemme in coda alla processione, che andava giù piano; ma essi andavano più piano ancora, e dovevano ogni tanto affrettarsi per riprenderla; camminavano piegati in avanti, preoccupati, come se gli facessero male i piedi. - Mica ‘o sapevo sa’, - fece il Riccetto con aria afflitta, - che li funerali te stufaveno tanto, ma proprio tanto ssa’. - Ennò - fece Alduccio dandogli un’occhiata. Incontrandosi con lo sguardo, e osservando le loro sagome, in tutto quel silenzio del funerale, gli venne da ridere, e torsero gli occhi intorno, tirando le corde del collo per trattenersi e non fare una magra. Con quell’aria tenera come l’olio, i contorni limpidi delle cose, la tiepidità del venticello in cui c’era come una sonnolenza d’aprile, si aveva l’impressione che fosse un giorno di festa: una delle prime domeniche della bella stagione, subito dopo Pasqua, in cui si comincia a andare a Ostia. Perfino il traffico della Tiburtina pareva non far rumore, pareva che fosse attutito e come in una campana di vetro, sotto il sole, che, scolorito sui muriccioli e un gregge grigio di sporcizia, biondeggiava ardente sui bordi del Monte del Pecoraro. Dentro il Forte, allegramente, la tromba dei bersaglieri suonava l’ora del rancio.

   Davanti al bar dell’angolo con la Tiburtina. dopo una breve sosta, nel solito disordine, la piccola processione si disperse. Il carro funebre ingranò la marcia, e seguito dal tassi coi principali Lucchetti, si diresse a tutta velocità verso il Verano.


Pier Paolo Pasolini




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@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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