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domenica 11 aprile 2021

Pasolini - Un po' di ostrogoto - Tempo, n. 37 a. XXXI, 13 settembre 1969 

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Un po' di ostrogoto
Tempo, n. 37 a. XXXI, 13 settembre 1969 


L'intera conversazione tra Pasolini e Moravia - Vedi anche:

 




Anche Moravia si è occupato del "Satyricon", con un articolo grande come un lenzuolo steso ad asciugare. Vi fa le sue consuete osservazioni acute, vive, intelligenti e convincenti.
"L'Espresso" dice, annunciando l'articolo, che Moravia ha visto in "anteprima mondiale" il film: in realtà, come egli mi ha detto, si è trattato semplicemente di una delle solite visioni private (di cui Fellini è maestro), e d'una copia ancora non doppiata in cui gli attori, come mi diceva appunto Moravia, parlano in romanesco, in svedese, in ostrogoto.
Ora, io sostengo e ho sempre sostenuto che il cinema è una "tecnica audiovisiva".

Per spiegarmi, la prendo un po' alla larga.
A dimostrare che il linguaggio del cinema è autonomo e ha una sua convenzione, o codice, un ricercatore riportava l'esempio di un film fatto vedere a un pubblico di selvaggi o quasi (non ricordo se esquimesi o bantú): ebbene, questi selvaggi non avrebbero capito il film - secondo quel ricercatore - perché essi non sarebbero stati in possesso delle chiavi del codice cinematografico.
Ma io ricordo anche una prima pagina di Beltrame della "Domenica del Corriere", di quando ero ragazzo, in cui si vedeva una platea sconvolta dal terrore, perché una locomotiva, sullo schermo, era rappresentata in modo che pareva dovesse investire gli spettatori, che erano appunto dei semplici, dei quasi selvaggi.
Se costoro erano così atterriti da una locomotiva che, da uno schermo, si precipitava su di essi, vuoi dire che qualcosa, di quella rappresentazione, capivano: solo che confondevano il codice di interpretazione della realtà col codice di interpretazione del cinema: cinema e realtà si identificavano come uno stesso sistema.
Ora, se un selvaggio ha un suo codice per "leggere" la realtà che gli passa davanti agli occhi - mettiamo una donna che allatta un bambino - ha naturalmente anche un codice per leggere la realtà cinematografica: ossia la stessa donna "che allatta un bambino" ripresa dalla camera e proiettata. Egli non può che pensare, appunto, :in tutti e due i casi: "Ecco una mamma che allatta suo figlio: è un fatto che cade naturalmente nel dominio della mia esperienza". Probabilmente i selvaggi di quel ricercatore erano stati posti di fronte a un film girato in Europa, nel nostro fortunato mondo civile, e quindi rappresentava una realtà che essi non conoscevano: essi erano privi dunque del codice per interpretare quella realtà, non del codice per interpretare quel film!
Se fosse stato proiettato loro un film che avesse rappresentato la loro realtà, quella del loro villaggio e del loro rapporto con le cose, essi l'avrebbero capito. Ecco il punto: l'avrebbero capito certamente di meno (o addirittura per niente) se quel film fosse stato muto (o parlato in ostrogoto).
Voglio dire questo: che il cinema, a livello linguistico, è audiovisivo: in quanto il codice di interpretazione della realtà (che è appunto audiovisivo) e il codice di interpretazione del cinema, in gran parte, coincidono.
A livello estetico (si sa che le convenzioni estetiche sono sempre restrittive e selettive) si possono fare dei film muti: e fare dei capolavori assoluti (Dreyer, e più ancora Murnau, o Buster Keaton). 
Se un uomo si presenta ai nostri occhi e tace, noi lo interpretiamo in un modo (secondo la nostra esperienza); se un uomo si presenta ai nostri occhi e parla in una lingua ignota, noi lo interpretiamo in un secondo modo; se un uomo si presenta ai nostri occhi e parla nella nostra lingua, noi lo interpretiamo in un terzo modo. Questo terzo modo può essere totalmente diverso dal primo e dal secondo: perché il momento "parlato" può alterare totalmente il momento "visivo". Quante, dolorose o gioiose sorprese abbiamo avuto, non appena una creatura, dopo aver taciuto per un po', ha aperto bocca!
In conclusione: il mio carissimo Alberto ha compiuto un errore critico sostanziale, parlando di un film senza capire quel che i personaggi dicevano: errore fondato sulla persuasione, retorica, che il cinema sia immagine. Fellini che è un mago come Herrera, sa benissimo tutto questo.

Tempo, n. 37 a. XXXI, 13 settembre 1969 
  


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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