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martedì 5 gennaio 2021

Pasolini pedagogo - Gennariello, terza parte

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Gennariello
Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini
Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999
"Come è mutato il linguaggio delle cose" 
1° maggio 1975


Prima di abbandonare il capitolo sul «linguaggio delle cose» (che son sicuro ti avrà lasciato vagamente sconten­to, ostile, e magari un po' «scocciato») voglio darti una serie di esempi che ti faranno capire un po' meglio cosa ho voluto dire con questo mio esordio pedagogico mi­sterioso.
Se io alla tua età (e anche molto dopo) camminavo per la periferia di una città (Bologna, Roma, Napoli...), ciò che quella periferia mi diceva «in suo latino» era: qui abitano i poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli operai sono diversi da voi borghesi. Essi quindi vogliono un futuro diverso. Ma il fu­turo è lento a venire. Perciò il loro domani - vissuto in questa periferia da loro, e da voi contemplato - assomi­glia immensamente all'oggi. È un oggi che si ripete. I fi­gli hanno assicurata un'esistenza simile a quella dei pa­dri. Essi sono anzi destinati a ripetere e reincarnare i padri. La rivoluzione ha la pigrizia del sole che splende sui prati spelacchiati, sulle baracche, sui palazzoni scro­stati. Tutto ciò non ferisce il passato, non lacera i suoi valori e i suoi modelli. L'urbanesimo è ancora contadi­no. Il mondo operaio è fisicamente contadino: e la sua tradizione antropologica recente non è trasgressiva. Il paesaggio può contenere questa nuova forma di vita (bi­donvilles, casupole, palazzoni) perché il suo spirito è identico a quello dei villaggi, dei casolari. E, appunto, la rivoluzione operaia ha questo «spirito».
Se invece tu ora cammini per una periferia, sempre «in suo latino» tale periferia ti dirà: «Qui non c'è più spirito popolare». Contadini e operai sono «altrove», anche se materialmente abitano ancora qui. Le bidon­villes (grazie a Dio, certamente) son quasi sparite. Sono invece enormemente cresciuti i «centri» di palazzoni. Di un loro amalgama col mondo antico o contadino non si può parlare più. Le immondizie sono uno spaventoso corpo estraneo. I fiumiciattoli e i canali sono terrificanti. Il diritto dei poveri a un'esistenza migliore ha una contropartita che ha finito col degradarla. Il futuro è im­minente e apocalittico. I figli sono strappati alla somi­glianza coi padri e proiettati verso un domani che, pur conservando i problemi e la miseria dell'oggi, non può che esserne qualitativamente del tutto diverso. Di rivo­luzione non se ne parla nemmeno: e tanto meno quanto più se ne parla freneticamente (una frenesia che i figli degli operai hanno imparato in un modo umiliante dai figli dei borghesi). Il distacco dal passato e la mancanza di rapporto (sia pur ideale e poetico) col futuro sono ra­dicali.
Io, dunque, dalla realtà fisica della periferia ero educa­to alla certezza, a un amore profondo, sicuro e insostitui­bile. Tu invece sei educato all'incertezza, a una mancanza d'amore fatta di una falsa certezza crudele e impietosa (la coscienza «cristallizzata», convenzionalizzata, ciecamen­te aggressiva dei propri diritti). Mi sono dilungato sul «linguaggio della realtà fisica di una periferia cittadina»; ma discorsi analoghi ti farebbero i centri delle città e le campagne.
I centri delle città, per tutta la vita, hanno sempre as­sicurato il tuo pedagogo di una inalterabilità della tradi­zione umanistica e quindi di una qualità di vita, sia bor­ghese sia popolare, fondamentalmente conservatrice (che la eventuale rivoluzione operaia doveva «rigenera­re», ma non cambiare). A te invece i centri storici delle città parlano di un loro problema particolare riguardan­te la loro conservazione fisica, la loro materiale sopravvivenza; dall'incompatibilità fra la loro struttura e la qua­lità di vita di una massa borghese e operaia consumistica nasce un caos per cui sia la parola «conservazione» sia la parola «rivoluzione» non hanno più senso alcuno.
Quanto alla campagna, la differenza fra ciò che essa ha insegnato a me e ciò che essa sta insegnando a te, è ancora più enorme. Per me essa è stata la certezza di una continuità con le origini del mondo umano, e ha valoriz­zato, fino a dar loro carattere quasi di rito, ogni minimo gesto, ogni parola. Inoltre essa rappresentava ai miei oc­chi lo spettacolo di un mondo perfetto. Per te, al contra­rio, la campagna parla di se stessa come di una spettrale e quasi paurosa sopravvivenza. La sua funzione (tecni­cizzata, industrializzata) ti resta estranea, a meno che tu non voglia occupartene professionalmente. Quanto al resto, essa è un luogo esotico per atroci week-ends e per non meno atroci villette da alternare con l'atroce appar­tamento in città (tutto atroce per me, s'intende).
Capirai piano piano, nel corso di queste lezioni, caro Gennariello, che malgrado l'apparenza questi miei di­scorsi non sono affatto lodi del tempo passato (che io, in quanto presente, non ho del resto mai amato). Sono di­scorsi diversi da tutto ciò che oggi da parte di un uomo della mia età si possa dire: discorsi in cui «conservazio­ne» e «rivoluzione» sono appunto parole che non hanno più senso (come vedi sono, dunque, moderno anch'io).
Mi accorgo tuttavia che anche questa mia pagina di «esempi» continua a mantenersi nel vago e nel generico. Perciò la prossima volta ti parlerò di un esempio concre­to. Ti parlerò, cioè, della città di Bologna.


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


"Bologna, città consumista e comunista"
8 maggio 1975


Perché prendo come esempio del «discorso» non verba­le - e proprio per questo fornito di una forza di persuasione che nessuna verbalità possiede - la città di Bologna? Semplicemente perché Bologna non è una città «tipica» dell'Italia. Essa è un caso unico. Ma nel tempo stesso essa si presenta anche come uno specimen molto avanzato per una eventuale e improbabile città italiana futura. La sua anomalia è dovuta al fatto che essa si è «sviluppata» in questi ultimi anni secondo le norme ormai sacramentali dello sviluppo consumistico: ma, insieme, essa è una città comunista. Dunque gli amministratori comunisti hanno dovuto affrontare i problemi che imponeva loro lo sviluppo capitalistico della città... Tu abiti a Napoli: e tutto ciò ti riesce quasi incomprensibile, naturalmente. A Napoli il povero e caotico sviluppo consumistico è nelle mani di amministratori che gli sono solidali. E così in quasi tutte le altre città italiane. (Quindi, per te, gli amministratori regionali e provinciali sono semplicemente degli antichi corrotti spregevoli viceré. Il «Re» è altrove, e altrove sta cambiando radicalmente forme e modalità. I viceré lo intuiscono, ma la loro torpida coscienza non ne sa nulla. Si comportano perfettamente, invece, per quanto riguarda la transizione: sono ritardati d'aspetto e di mentalità, molto avanzati nell'accettazione cinica del nuovo corso del potere, cioè dei suoi nuovi modi di produzione...).
Ma veniamo al discorso - riassunto - della città di Bologna. A te essa dice: «Caro Gennariello, ammira. Io sono una opulenta città del Nord che lo sviluppo ha reso ancor più opulenta: opulenta al punto da sembrare una città francese o tedesca. Se tu dovessi emigrare qui, la tua coscienza non potrebbe non essere ininterrottamente ammirata di questo fatto. Inoltre, qui siamo comunisti, e quindi puliti e onesti. Anche questo è un privilegio, rispetto al mondo da cui tu provieni. Naturalmente, se tu dovessi emigrare qui, non potresti che votare comunista. Queste due "grazie" - la ricchezza e l'amministrazione comunista - creano un ottimismo democratico che non potrà non gettarti in uno stato di estatica prostrazione, prima, e poi renderti un catecumeno del resto neanche troppo fanatico...».A me la città di Bologna dice: «Io mi confronto con la Bologna che tu hai lasciato una trentina di anni fa. So che mi ammiri e che mi consideri ancora la migliore città d'Italia, seconda solo a Venezia anche per quanto ri­guarda la bellezza. Ma so anche che qualcosa di me ti delude o ti divide. Non è il rimpianto per quella città di trent'anni fa che ormai non c'è più, pur conservando in­tatta la sua forma: ciò che ti delude e ti divide è la con­statazione di ciò che io sono nel presente. È attraverso il tuo carattere e la tua cultura, che qui infatti ti parlo. La mia oggettiva realtà non avrebbe parole per te. La prima e unica proposizione del mio silenzio sarebbe: "Io ti so­no estranea e incomprensibile". Se, attraverso il tuo ca­rattere e la tua cultura, posso ancora parlarti, ciò è meri­to della funzione conservatrice che qui ha avuto il Partito comunista. Sei perciò tentato di stabilirti qui, di lavorare qui, di abitare magari nella casa di via Zamboni dove sei nato o in quella di via Nosadella dove hai passa­to l'adolescenza e scritto i tuoi primi versi. Ma lo stesso fenomeno - cioè il fatto che io dia una terra separata, un'isola - che tende a trattenerti qui, ti respinge quasi spaventato nei luoghi non privilegiati dalla mia felicità. L'estraneità di un centro urbano e di una zona indu­striale praticamente estesa a tutta la campagna - ormai presi nel giro che porta a un futuro sostanzialmente diverso da ogni passato che tu conosci - naturalmente ti traumatizza. Vedere il sabato sera una baraonda che ri­corda il Quartiere Latino, col trionfo della coppia e la presenza del teppismo, ti sconvolge. Il vantato gioco de­mocratico (come dice il tuo amico Scalia) con assem­blee, partecipazioni, autogestioni, ti mette a disagio. Ma io so che ciò che più di ogni altra cosa ti rende ansioso e quasi angosciato per quanto riguarda il mio fenomeno, è il fatto che io ponga problemi riguardanti lo sviluppo consumistico transnazionale a una giunta comunista re­gionale. La quale nel risolvere quei problemi li accetta. E accettando quei problemi - nella pratica, che è sem­pre una teoria ancora non detta - essa accetta anche l'universo che li pone: cioè l'universo della seconda e definitiva rivoluzione borghese. Ciò che una città italia­na è diventata - sia bene o sia male - è qui accettato, as­similato, codificato. Nel momento in cui sono, insieme, una città sviluppata e una città comunista, non solo sono una città dove non c'è alternativa, ma sono una città do­ve addirittura non c'è alterità. Prefiguro cioè l'eventuale Italia del compromesso storico: in cui nel migliore dei casi, cioè nel caso di un effettivo potere amministrativo comunista, la popolazione sarebbe tutta di piccoli bor­ghesi, essendo stati antropologicamente eliminati dalla borghesia gli operai...».
Ma su questo punto, Gennariello, ci fermeremo più a lungo quando ti parlerò dei tuoi coetanei: in cui riscon­treremo, insieme all'imborghesimento psicologico, an­che fenomeni di regresso a quella specie di barbarie che è stata sempre considerata la cultura popolare, e quindi fenomeni di differenziazione - storicamente inedita - dalla norma...


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

I ragazzi sono conformisti due volte
15 maggio 1975


Cominciamo oggi il secondo capitolo del nostro trattato. Dopo il linguaggio pedagogico delle cose, che tanta e così definitiva influenza ha avuto nel farti come sei, pas­siamo al linguaggio pedagogico dei tuoi coetanei: i quali, in questo momento della tua vita (quindici anni) sono i tuoi più importanti educatori. Essi esautorano ai tuoi occhi sia la famiglia che la scuola. Riducono a ombre boccheggianti padri e maestri. E non hanno affatto biso­gno di un grande sforzo per ottenere questo risultato. Anzi, non ne sono nemmeno coscienti. È sufficiente per loro - per distruggere il valore di ogni altra fonte educa­tiva - semplicemente esserci: esserci così come sono.

Essi hanno in mano un'arma potentissima: l'intimida­zione e il ricatto. Cosa, questa, antica come il mondo. Il conformismo degli adulti è tra i ragazzi già maturo, fero­ce, completo. Essi sanno raffinatamente come far soffri­re i loro coetanei: e lo sanno molto meglio degli adulti perché la loro volontà di far soffrire è gratuita: è una violenza allo stato puro. Scoprono tale volontà come un diritto. Vi investono tutta la loro vitalità intatta, e anche, naturalmente, la loro innocenza. La loro pressione peda­gogica su te non conosce né persuasione, né compren­sione, né alcuna forma di pietà, o di umanità. Solo nel momento in cui i tuoi compagni divengono amici sco­prono forse persuasione, comprensione, pietà, umanità: ma gli amici sono quattro o cinque, al massimo. Gli altri sono lupi: e adoperano te come cavia su cui sperimenta­re la loro violenza e nei cui confronti verificare la bontà del loro conformismo. 
Il loro conformismo è acquisito di peso dal mondo degli adulti. Lo schema è identico. Ma tuttavia essi han­no sempre qualcosa di nuovo, rispetto agli adulti. Essi, cioè, vivono esistenzialmente valori nuovi rispetto a quelli vissuti, e codificati, dagli adulti. È in ciò che con­siste la loro forza. È attraverso quel qualcosa di nuovo che essi, col loro modo di essere e di comportarsi (poi­ché si tratta di puro «vissuto»), vanificano il conformi­smo pedagogico degli adulti e si impongono come i veri reciproci maestri. La loro «novità» non detta, e neanche pensata, ma solo vissuta, andando oltre il mondo degli adulti, lo contesta anche quando lo accetta totalmente come accade nelle società repressive o addirittura fasci­ste). Tu sei schiacciato da tale «novità»: ed è questa «no­vità» - che tu temi di vivere imperfettamente, mentre la vedi vissuta perfettamente dai tuoi compagni - che co­stituisce il nucleo della tua ansia di apprendere. Essa non può esserti insegnata dagli adulti (me compreso), e quindi tu, pur ascoltando gli adulti, pur mettendoci tut­ta la buona volontà ad assimilare il sapere dei padri - in realtà hai in cuore una sola assillante avidità: quella di condividere con i tuoi compagni, apprendendola da lo­ro ossessivamente ogni giorno, questa novità. Insomma i tuoi compagni sono i depositati e i portatori di quei va­lori che sono gli unici che ti interessano. Anche se essi non sono che leggerissime, quasi impercettibili varianti dei valori dei padri.
Ci sono dei momenti storici - come quello che stiamo vivendo - in cui però i ragazzi credono anche di sapere quali sono i nuovi valori che essi vivono, oppure credo­no di sapere qual è il nuovo modo con cui essi vivono valori già istituiti. In questi momenti la forza di intimi­dazione e di ricatto dei giovani coetanei è ancora più violenta. Essi aggiungono, dentro lo schema del confor­mismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione.
Il caso di una società esplicitamente repressiva o fa­scista non è dunque il nostro. Noi viviamo almeno no­minalmente un periodo di democrazia parlamentare, di benessere e di tolleranza. Il «più» che vivono i ragazzi non è dunque un «più» fascista, un «più» di dedizione all'autorità: o almeno non è solo questo: c'è anche un «più» di disobbedienza, di anarchia, o di dedizione alla rivoluzione operaia. Al tempo del fascismo, quando ero adolescente io, i miei compagni mi davano quotidiana­mente lezione non solo di come essere virili e volgari, ma anche di come essere teppisticamente lealisti all'au­torità fascista. Oggi a te, i tuoi compagni impartiscono «repressive» lezioni non solo di attaccamento all'auto­rità, non solo di attaccamento all'autorità nel suo aspet­to eversivo (fascista), ma anche - e certo soprattutto - di spirito rivoluzionario, comunista o extraparlamentare.
Contemporaneamente, tutti quanti, ti danno ogni giorno una tremenda lezione di come comportarsi e pensare in una società consumistica.
Come vedi siamo nella fossa dei serpenti. I casi sono infiniti e sempre ambigui. Non è facile aiutarti nella tua lotta di complessato e di debole contro tutti gli altri, for­ti in quanto singolarmente campioni della maggioranza. Tuttavia io cercherò, appunto, di aiutarti, anche se la via che ti indicherò sarà più difficile. Naturalmente dovre­mo restare per molto tempo su questo capitolo che ri­guarda i ragazzi tuoi coetanei, cercando di riordinare il groviglio in cui essi si affollano intorno a te, e da cui tu tuttavia deduci un unico e ben chiaro modo di essere.

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Vivono, ma dovrebbero essere morti 
22 maggio 1975


Ti faccio un piccolo elenco dei tipi di tuoi coetanei che ti descriverò in questa sezione della nostra «Pedagogia»: è un elenco incompleto (ma se sarà necessario, lo aggior­neremo in qualsiasi momento ci sembri opportuno). Ti descriverò prima i ragazzi che si possono approssimati­vamente chiamare «obbedienti» (il fatto che qualche volta si atteggino a contestatori, ribelli, estremisti ecc. non ha alcuna importanza: come non hanno importanza i loro capelli lunghi, cristallizzati ormai nelle ridicole e un po' schifose acconciature di un'iniziazione totalmen­te conformista). Poi ti descriverò i ragazzi che si posso­no approssimativamente chiamare «disobbedienti», cioè i pochi veri estremisti sopravvissuti, i disadattati, i de­vianti e infine - questi rarissimi - i «colti».
L'elenco dei tipi del primo gruppo, da cui comincere­mo, è pressappoco il seguente: i «destinati a esser morti», gli «sportivi», i «futuri executives», i «comunisti orto­dossi», i «repressi non nevrotici», i «teppisti», i «fasci­sti», i «cattolici attivisti», e, infine, i «puri medi»: natural­mente, terrò sempre presenti, nel descriverli, le due varianti italiane ancora fondamentali: i ragazzi borghesi e i ragazzi operai, i ragazzi del Nord e i ragazzi del Sud.
Mi è molto difficile descriverti i primi tipi del primo gruppo, cioè i «destinati a esser morti». Per te si tratta di una categoria normale, che hai trovato, nascendo, già ben inserita nell'ordine sociale, nel grande teatro dell'esistenza. Quindi non li hai «realizzati», ossia oggettivati, staccati da te, contemplati. Quanto a me, essi mi appaiono invece come una categoria nuova, impensatamente comparsa in Italia da una dozzina d'anni: quindi l'ho realizzata, oggettivata ecc.: mi è però diffici­le descriverla appunto perché nessuno l'ha mai fatto, e io non ho dunque precedenti linguistici o meglio terminologici.
Chi sono questi «destinati a essere morti»? Sono co­loro che fino appunto a una dozzina o a una ventina d'anni fa (in Italia, e soprattutto nel Sud e tra le classi povere) sarebbero morti nella primissima infanzia, in quel periodo che si chiama di «mortalità infantile». La scienza è intervenuta (ma a proposito della «medicina» leggiti almeno le prime pagine de La convivialità di Ivan Illich), e li ha salvati dalla morte fisica. Essi sono dunque dei sopravvissuti, e nella loro vita c'è qualcosa di artifi­ciale, di «contro natura». Lo so bene che dico delle cose terribili, e anche apparentemente un po' reazionarie. Ma su questo punto ti ho raccomandato più volte caldamen­te di non meravigliarti, e tantomeno scandalizzarti (co­me faranno molti lettori delle nostre lezioni). Trovare qualcosa di «artificiale» o di «contro natura» in coloro che da bambini sono stati salvati dalla morte dalla tecni­ca medica, avrebbe avuto qualcosa di atroce e di reazio­nario in un mondo dove uno dei valori fondamentali fosse realmente la conservazione della specie: e dove tale conservazione si concretasse, appunto, in una prevalen­za delle nascite sulle morti. Ma in un universo come il nostro, in cui tale valore fondamentale si va rovesciando (bisogna evitare, perché l'umanità si salvi, l'eccessivo prevalere delle nascite sulle morti), non hanno più senso le gratificazioni morali di un tempo. Quindi non scanda­lizzarti: i figli che nascono oggi non sono più aprioristi­camente «benedetti». Il giudizio tra benedizione e male­dizione è sospeso. Sono però decisamente maledetti coloro che nascono «in più» .

Quali sono coloro che nascono «in più»? Non si può evidentemente dirlo. Questo è certo: un bambino intuisce subito - solo dopo pochi giorni di vita - se la sua venuta al mondo è veramente desiderata o no. Se intuisce di non essere veramente desiderato o, peggio, se intuisce di essere indesiderato, si ammala. Le nevrosi che causano le «regressioni» più terribili e incurabili sono dovute proprio a questo sentimento primo, di non essere accol­ti nel mondo con amore. Ora, oggettivamente, nessun fi­glio è ormai più accolto nel mondo con l'amore di un tempo, quando egli era appunto per definizione «bene­detto». Tutti sanno - anche se non ne sono coscienti - che la distruzione dell'umanità dipende dal suo aumen­to demografico. Se tutti i «figli», dunque, sentono que­sta mancanza di benedizione alla loro nascita - cosa che poi li rende così tristi e infelici per tutta l'infanzia e la giovinezza - coloro che per di più sono stati «strappati» alla morte innocente dell'infanzia sentono con ancora maggiore violenza la loro colpevolezza di essere al mon­do, di pretendere di essere sfamati e curati.
C'è stata una certa illusione alcuni anni fa - una delle tante stupide illusioni di alcuni anni fa - che la «razza» umana - appunto attraverso la scienza medica e il miglior nutrimento - migliorasse: che i ragazzi fossero più forti, più alti ecc. Breve illusione. La nuova generazione è infinitamente più debole, brutta, triste, pallida, malata di tutte le precedenti generazioni che si ricordino. Le cause di ciò sono molte (e cercherò di analizzarle tutte nel corso delle nostre lezioni): una di queste cause è la presenza, tra i giovani, di coloro che avrebbero dovuto morire: che sono molti; in certi casi (Sud e classi povere) la percentuale è altissima. Tutti costoro o sono depressi o sono aggressivi: ma sempre in modo o penoso o sgra­devole. Niente può cancellare l'ombra che una anorma­lità sconosciuta getta sulla loro vita.

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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