"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Traduzione e
svelamento poetico
nella lingua
di Pasolini
Sarah
Tardino
In poesia tutto è
traducibile. Una riflessione
sulla poesia di Pasolini può forse partire da questa considerazione, e porre il
problema del passaggio da lingua a lingua quale tema fondante della riflessione
sul linguaggio e sulla possibilità etica e storica che l’appropriarsi di una
lingua poetica dischiude. Tale asserzione non è mero rovesciamento: appare
invece necessità di approccio, se si pensa che l’autore di Poesie a
Casarsa scrive «non siamo più a un cromatismo dialettale, ma siamo ancora in
un ambito di fisicità, ossia di intraducibilità»
[1]. La scelta della
lingua dialettale, per Pasolini, è giustificata da una necessità di traduzione
come assunzione di un’alterità biografica e linguistica: dunque di una alterità
biografica perché linguistica.
Questa tensione
costitutrice di una lingua emerge dal primo approccio di Pasolini al lessico e
alla psicologia di Pascoli, che diventerà – com’è noto – oggetto della sua tesi
di laurea.
Il Pascoli latino, in
primo luogo, colpirà il giovane studioso in quanto autore di un linguaggio di
confine o, secondo l’insuperata definizione di Contini, di una «sensibilità del
limite», laddove il limite fra dialetto e non dialetto diventa la ricerca di un
«volgare illustre»[2].
Per Pasolini, la
ricerca di tale «nuovo volgare» è sinonimo del riscatto di una lingua madre, il
friulano, autonoma dall’italiano per struttura e grammatica, e dunque
foneticamente e morfologicamente viva, non contaminata, al punto da destare un
mero interesse glottologico e archeologico, ma anche da divenire strumento di
espressione purificato dagli schemi letterari di una consumata lingua
nazionale.
L’interesse di
Pasolini è infatti quello di uno storico delle cose ultime come testimoni e
costruttrici di un passato: «Ma ència se la storia del nustri paìs
a è la pì ùmila, la pì puareta dal mond, in stes i no vin di dismintiàsi di ic.
Parsè che suvignìsi di vei na storia, a vuol disicrodi in un passat»[3].
La storia (in
grassetto nel testo) è il fulcro della ricerca linguistica e il punto d’approdo
del mestiere di poeta-traduttore: è un sogno che istituisce una memoria sulla
quale fondare una coscienza popolare, funzionale al confronto fra passato
e presente. L’unica reazione possibile del presente è attingere a una forma
archetipica, un movimento avanguardista verso un classico nella sua forma
di retroguardia linguistica. Pasolini rintraccia tale archetipo di lingua comune
in quella dei trovatori cividalesi, che è ad un tempo lingua primitiva (lingua
mitica) ed elevata, poiché scritta e dunque fissata al di fuori dell’uso
vernacolare e della tradizione folkrorica.
«Quand che un dialèt
al vent lenga, ogni scritour al dopra che lenga a conforma da li so ideis dal so
carater, da li so bramis. Insoma ogni scritour al scrif e al coupon in maniera
diversa e ognun al à il so “stil”. Chel stil al è alc di interior, platàt,
privat e massime individual. Un stil a no’l è né italian e né todesc e né
furlan, al è di chel poeta e basta»[4].
La
ricostruzione di una lingua che chiamerò «mitica» – per indicare il punto di
passaggio da un’oralità illustre ad una trascritta e fissata, che Pasolini
sembra ricercare – conduce all’appropriazione di un idioletto poetico, che
partendo da una lingua non contaminata culturalmente, ed assunta come «lingua
elevata», può ristabilire una dimensione primordiale della parola poetica, nella
sua genuinità metaforica, e palesa, così, l’immediatezza fra percezione e
riproduzione, ossia una cognizione estetica pura che la pratica di uno stile
aulico, quello delle lingue nazionali, e specialmente della lingua italiana,
nata come lingua letteraria, mortifica o annulla.
Ci troviamo così
dinanzi a un dialetto divenuto «lingua» nell’uso singolare da parte di un poeta,
che lo assume come sua lingua poetica e trasforma il dialetto-lingua in
lingua letteraria con la potenza di manifestazione linguistica aurorale. Ma
questa lingua di scavo non è da intendersi come reperto museale: è destinata ad
una pratica e, perché questa pratica sia possibile, è necessario fissare la
lingua stilisticamente. Solo in tale operazione, che strappa il suono di
quella lingua alla preistoria dell’oralità, risiede il farsi di una
lingua storica in grado di riscattare il passato costituendolo in un luogo
diverso da quello della tradizione «vernacola». Secondo Pasolini, questa
tradizione si trova nella lingua del Trecento, non per assimilazione sintattica,
il che condurrebbe ad un procedimento genealogicamente inverso rispetto a quello
della spoliazione di una lingua dalle contaminazioni, e sarebbe solo filologico,
bensì per contenuto culturale; ciò permette di proseguire la tradizione romanza
dove è stata interrotta, non sulle tracce delle ormai sterili letterature
francese ed italiana bensì nel solco dell’interrotta tradizione della lingua
friulana che «può contare su tutta la sua rustica e cristiana purezza»[5].
Questo processo
d’emancipazione estetica in funzione storica della lingua diventa rivendicazione
civile. Secondo Pasolini, lingua poetica, invenzione linguistica e posizione
politica sono una rivendicazione arcadica progressiva sostenuta con il metro
della superata modernità.
In tale contesto,
prendono forma le traduzioni letterarie di Pasolini: Alla Dalmazia di
Tommaseo (che assieme a Pascoli, soprattutto nelle letture di Contini,
rappresenta il continuo riscontro psicologico speculare del poeta),
Enfance di Rimbaud, Luna di Ungaretti: traduzioni né letterali né
letterarie, ma operazioni di ricerca di topoi che offrano spunti per un
confronto (lotta politica) sulle tematiche del presente, e diventano, così, un
manierismo induttivo, un’ appropriazione tecnica di una lingua nella quale
ricostruire una civiltà.
L’operazione
d’avanguardia di Pasolini è allora una decostruzione del modello di classico
immediatamente precedente e rappresentato dagli zoruttiani e l’istituzione di un
neo-classicismo che, come ogni avanguardia, tende ad imporsi quale nuovo modello
riferendosi ad un sostrato più arcaico.
A questa
ricostruzione si procede, ovviamente, con metodo filologico.
La poesia delle
lingue ufficiali è, per Pasolini, compromessa da una ricerca di purezza
stilistica che esaspera la ricerca linguistica sino a trasformarla in un’
esigenza formale. Il mestiere di poeta traduttore di Pasolini è dunque quello di
una restituzione della parola per analogia a una dimensione di più immediata
corrispondenza con l’interiorità primigenia del sentimento.
In questo senso, la
traduzione di un poeta ermetico come Ungaretti, che Pasolini praticava in quegli
anni, non è funzionale all’affermazione del friulano come lingua nella quale è
possibile operare traduzioni, è semmai una ricerca di confronto fra lingua e
linguaggio poetico. Da una parte la lingua letteraria italiana di
Ungaretti rispetto al linguaggio poetico friulano e l’ assoluto
letterario della lingua letteraria, rispetto alla possibilità strumentale della
sua lingua poetica in una mediazione culturale del contenuto.
Quello che Pasolini
evidenzia, nell’analisi di un simile processo, è il dissidio fra il poeta e la
lingua poetica. La lingua poetica aulica porta il poeta alla contemplazione di
una cifra stilistica riassunta in poche parole-chiave, tanto svuotate
d’originarietà fonetica e cristallizzate in una immobilità stilistica e
semantica da impedire la comunicazione dell’interiorità del poeta e annullare,
di conseguenza, la libertà d’ispirazione e d’immaginazione
produttiva.
Per Pasolini la
conquista della lingua deve avvenire al di fuori dello stile, e ogni problema
stilistico è un vuoto impegno d’abilità tecniche che coglie «un poeta quando è
stanco e ragiona spinto dai sensi e dall’intelligenza, che ha, per natura,
straordinariamente acuta».
Il poeta è uno
strumento dalla sensibilità «acuta», che riesce a trovare una corrispondenza fra
il molteplice delle sensazioni e le parole e le immagini che
consuetamente servono a descriverle. Tale procedimento potrebbe
facilmente indurre alla creazione di mondi metafisici, assoluti ed equivalenti,
ma la sfida della poesia non è descrivere un mondo possibile o simile fra un
uomo e l’altro, ma la più verosimile aderenza all’hic et nunc del poeta
nella sua condizione e verifica storica.
Il problema di
Pasolini non è trovare una lingua poetica, ma costruire una lingua adatta a
sintetizzare il pensiero poetico, meglio una lingua da cui il pensiero possa
scaturire e cioè una lingua poetica preceduta dal pensiero e scaturigine di
pensiero.
In questo impeto
teoretico continuo, quanto in Baudelaire ci appare simbolo, in Pasolini si
trasforma in sensazione, e il fine della poesia non è allora più quello di
ideare un mondo alternativo a quello reale, ma di ricodificare, dopo averla
decostruita, la realtà, rafforzando il legame della poesia col mondo, un legame
di cui il poeta più di ogni altro conosce le sfumature sensibili.
La più acuta
sensibilità del poeta, che in preda a una continua extasis si proietta
oltre se stesso, non è costruire una realtà omologante, ma garantire la
molteplicità delle differenze di sensibilità fra un individuo e
l’altro.
Il poeta è il
«sismografo che registra» la molteplicità del reale dal quale nasce
l’ispirazione. Il valore della poesia, la sua «grandezza» è quella di
normalizzare, cioè codificare in un canone di «serenità» il tumulto della
sensazione. Siamo innanzi ad un tentativo di classico senza tratti retorici, che
per Pasolini sono propri, più che della poesia francese, la quale per tradizione
opera un esercizio di coscienza poetica, di quella italiana per la sua più
intrinseca letterarietà.
In questo richiamarsi
ai francesi è contenuta una dichiarazione poetica, che Pasolini aveva
implicitamente già pronunziato nel suo lavoro di tesi su Pascoli. L’impostazione
metodica della tesi, in primo luogo, propone un’analisi diretta dei testi e,
dunque, un rapporto frontale con la parola di un poeta che Pasolini sente vicino
su un piano umano e per una capacità di resa formale del sentimento; da un lato
Pascoli è, per Pasolini, un canone di studio di una tecnica poetica, dall’altro
il campo delle proprie affermazioni teoriche.
Il primo aspetto che
Pasolini nota nella poesia di Pascoli è la predilezione per un’oggettività
gestuale piuttosto che per una parola speculativa: c’è una messa a fuoco della
singola parola, che lascia la singola parola al suo suono e senso e alla sua
oscurità arcaica che concede solo una parte del senso della parola e la
riconsegna aulica e persistente più che in un significato univoco in continue
evocazioni.
Pasolini vede
riflesso nel sentimento arcaico della lirica pascoliana il suo stesso amore per
la verginità del suono della parola dialettale. Operano in questo poeta due
istanze contrapposte, e cioè una mancanza di volontà poetica in antitesi ad un
esercizio formale. Da questa tensione emerge una poesia incrinata, che non
riesce ad essere sempre alta: fra la purezza della poesia e l’applicazione
formale dell’esperienza ed intenzione poetica per Pasolini risiede l’esito
migliore di Pascoli, ossia un approdo alla poesia pura. La scelta antologica che
il giovane poeta compie è basata su questa considerazione.
Nonostante
l’inconsapevole emergere della poesia pura, Pascoli rimane, però, secondo
Pasolini, troppo legato a «tare biografiche» e non giunge alla chiarezza
autentica del verso. Pasolini lo avverte essenziale nello «studio della tecnica
della poesia», ma non trova in lui il pensiero «determinato», piuttosto un
cedimento al sentimento e all’estetizzazione del gusto, valori che Pasolini vede
capovolti in poeti come il Rilke delle Duinesi, o Mallarmé, ove non manca
un’«educazione» al pensiero propria della letteratura francese, scevra dai
modelli retorici di quella italiana e dunque lingua di volontà
poetica.
La poesia pascoliana,
per Pasolini, non è tutta alta poesia; per questo motivo nel suo lavoro di tesi
di laurea, piuttosto che un saggio su Pascoli, il giovane studioso-poeta propone
una scelta di liriche e ne evidenzia i luoghi più significativi e che maggior
riverbero hanno nel suo animo. Il cedimento di tanta poesia pascoliana è dovuto,
per Pasolini, alla mancanza di «un fermo proposito morale»: Pascoli è
indulgente verso la sua coscienza poetica, e la priva di un argine di
pensiero. La poesia di Pascoli è, sostanzialmente, lontana dal nitore del
pensiero di Pascal o di Leopardi appunto perché troppo confida nella parola e
nel suo uso tecnico. Pasolini riscontra nella lingua poetica un’arretratezza che
la rende inadeguata a descrivere i cambiamenti di morale, pensiero e politica
cui la società va incontro: la lingua letteraria resta avulsa dalla storia
politica, è una lingua non storica, ma storicizzata. Per Pasolini, questo è il
risultato di una letteratura che tenta un cosmopolitismo aulico allontanandosi
dal regionalismo, il quale è invece relegato al rango di elemento folcrorico e
non considerato nella sua vicinanza alle arcaicità di una lingua popolare –
quella che avrebbe colto il Pascoli proclive ad un nazionalismo gravato da tutti
i limiti di una retorica vacuamente patriottica e tradizionalista.
La ricerca
linguistica che Pasolini persegue nel sentiero interrotto delle lingue romanze è
la stessa che vede delinearsi negli scritti di Tommaseo sulla Dalmazia: identica
la tensione romantica del superamento della lingua latina più facile in Francia
e Spagna «patrie del romanzo, in Italia bisognava dunque decisamente ricorrere
al volgare […] trovare il proprio italiano in se stessi, ripossederlo come
dialetto materno e natio», scrive Pasolini, ma in Italia questo tipo di
sentimento romantico verrà recepito in ritardo, e soprattutto passando
attraverso poeti minori, che sono i grandi poeti dialettali del secondo
ottocento italiano.
Le linee di ricerca
elaborate da Pasolini nella tesi di laurea su Pascoli verranno poi riprese ed
ampliata nel saggio La poesia dialettale del Novecento – ampliate nonché
supportate dalla lettura di Gramsci, che, analogamente a Pasolini, aveva intuito
il rapporto fra lingua e identità popolare.
Il desiderio di
identificarsi nella marginalità dialettale che Pascoli aveva tentato, ricadendo
però in una koinè dialektos del lessico borghese (sentimentale e
familiare), incarna per Pasolini l’allontanamento dall’egocentrismo di certa
letteratura romantica:
«Questa poesia
“egocentrica” eppur così serena, è la poesia alta, la poesia maggiore della
lingua tradizionale italiana e il Pascoli assai di rado parla di sé, in prima
persona […] a una tale poesia si prestava appunto quell’italiano moderno
famigliare romanzo, e quasi dialettale, cioè minore»[6].
In Pascoli manca,
secondo Pasolini, la coscienza del canto: vi si trova una sproporzione
nell’immagine, nella descrizione tecnicamente ricercata, nella chiarezza
dell’espressione interiore, piuttosto che la lirica, e quando compare – come
in Myricae – diviene epico-lirica, un lavoro immaginifico vicino al
decadentismo ma mai comparabile alle vette di Baudelaire; Giovanni Pascoli,
peraltro, ha sperimentato quella condizione di «esasperante disagio morale
dovuto alla sua solitudine impenetrabile e all’assenza di Dio. E vi ha trovato
le ragioni per reinventare il mondo in un proprio linguaggio… Solo che egli era
soccorso, oltre che insidiato, da una tradizione con cui i francesi avevano
spezzato ogni legame»[7].
Di Pascoli Pasolini
cerca di sottolineare una poesia «pura», equidistante dal romanzo e dalla
tradizione aulica e raggiunta per una sorta di «distacco»: è una distanza
oggettiva dal sé che lo pone vicino «all’oggettivazione del senso estetico», è
una scrittura «fuori dalla scrittura» e, dunque, nella poesia: manca, insomma, a
Pascoli un effettivo approfondimento filosofico, e la sua musicalità può evocare
«Qualche noto pezzo musicale di carattere onomatopeico, ma non certo la musica
di Beethoven»[8];
assente è quel momento «concettuale» e, lato sensu, matematico che,
invece, pervade la poesia di Valéry, Mallarmé e dello stesso Ungaretti, che
fanno della parola un uso musicale e metrico, insito nel procedimento
conoscitivo che porta all’utilizzo di una parola: «se c’è un rapporto tra musica
e poesia, questo è nell’analogia, nel tramutare il sentimento in discorso»[9];
in Pascoli, al contrario, non si rinviene cioè un’agogica dei concetti, che
renda la musicalità del verso cosa diversa dalla musica della parola: «tra
parola e parola o sillaba e sillaba, generalmente mancano quei moti d’aria,
quelle equivoche emanazioni sonore, che rendono inafferrabile e cangiante lo
stile pascoliano»[10].
Pasolini, dalla tesi
di laurea ai saggi successivi sulla poesia pascoliana, userà il poeta come un
modello da superare, nonché come paragone per un allontanamento da quel lessico
incompiuto per la sua ricerca della lingua poetica vernacolare. Pascoli verrà
così riletto come un modello storico, piuttosto che come esperienza poetica
condivisibile.
Pasolini cerca nella
lingua una partitura interna, una lingua melodica che si muova fra l’evanescente
pascoliano e la tensione a un sublime filosofico, nello stile di Ungaretti; per
trattare la parola come nota, piuttosto che come colore e timbro, è necessaria
una sorta di regola algebrica, che disponga il poeta all’allontanamento dalla
materia poetica.
La ricerca di una
musicalità del verso diventa, per Pasolini, una ricerca di assolutezza, musica
assoluta in senso mistico (ma la mistica di quella crisi religiosa che sempre
egli avvertirà e mai sentirà profondamente accaduta, se non scritta nella
mancanza di rimorso), una “musica delle sfere”: «i miei diarii, che
rappresentano il massimo del mio sforzo poetico, nascono da una maturità che tu
forse non immagini. Insieme alla mia esperienza di assoluta, macabra solitudine,
che mi ha fatto sfociare a certe inaspettate aperture mistiche», scrive
all’editore.
La decostruzione, in
Pasolini, è una demolizione rabbiosa e non decadente: si torna a un equilibrio
formale neo-classico, ma riletto con le varianti di una ricezione singolare, e
contaminato dall’esperienza e dalla coscienza poetica, non già dalla retorica
tradizionalistica. E non rimane mai estraneo, in questo percorso, il Leopardi
che auspicava un letterato italiano nutrito di pensiero nordico. Pasolini
teorizza una linea «dello sciolto italiano dal Leopardi a Pascoli a Ungaretti…»,
nella quale si riconosce non certo imitatore di Montale o dei simbolisti
francesi, ma intento quasi alla coercizione di un verso che non può concedersi
sbavature. Scriverà ancora a Contini, chiedendogli consigli quale sua unico
lettore ideale: «il mio vero pericolo è l’eccessiva solitudine in cui vivo,
l’abbandono a me stesso, una specie di imperfetto misticismo; proprio mentre mi
illudo di una raggiunta libertà o calma interiore, commetto gli errori più
ingenui». L’intento di Pasolini non è creare una scuola, ma una corrente poetica
consapevole della sua esistenza, capace di dar vita non già a un mero
rinnovamento della poesia dialettale, bensì ad una lingua moderna, viva,
autentica.
Per questo Pasolini
chiederà di ripubblicare sullo “Stroligut” al critico «al limite della poesia
dialettale»: in quelle pagine, aspirava a trovare un avallo per la sua ricerca
su una lingua in perpetua evoluzione. Pasolini mette in evidenza, fra l’altro,
la facilità con cui la lingua di Casarsa si trasforma in «linguaggio» poetico,
perché lingua pura, originaria, ove le parole comuni possono fornire creazione
di concetti che, sotto la legislazione di un’educazione estetica tradizionale
tramata nello studio della lingua letteraria classica, creano un nuovo idioma
aurorale: «una specie di dialetto greco o un volgare appena svincolato dal
preromanzo con tutta l’innocenza dei primi testi di una lingua», scriverà in
Volontà poetica ed evoluzione della lingua. Ma con la volontà poetica e
l’impiego non strumentale della lingua friulana, quest’ultima ben presto si
emancipa dal rango di lingua primitiva e pretende un’«estetica particolare», che
è la stessa che sostiene la musica romantica, il simbolismo francese e il
tentativo pascoliano di «frase infinita».
Un tale approdo
teorico non risparmierà al poeta disperazioni e ripensamenti, la crisi di un
assoluto, rimbaudiano esigere dalla singola parola di contenere e giustificare
il limite dell’inesprimibile. Sulla struttura matematica della lingua le parole
agiscono come colori e toni, e questo lavorio formale si accompagna a
riflessioni sull’estetica.
Ricusando certa
critica storica di matrice crociana, Pasolini rivolgerà la propria attenzione
piuttosto all’estetica sistematica di Luciano Anceschi, che proprio in quegli
anni proponeva il metodo storico contro l’idealismo crociano. Sostenuto
dall’elasticità perspicace di queste poetiche, che hanno per modello proprio i
poeti e i teorici rigettati da Benedetto Croce, e che già avevano influito sul
poeta durante gli anni della redazione della tesi di laurea, mirando più alle
motivazioni profonde dell’arte che non alla generica ricerca di uno statuto,
Pasolini sentirà avallata anche la ricerca della lingua friulana, non più
avvertita come «ricostruzione» tessuta con le sterili tecniche della filologia,
né come recupero di una lingua letteraria regionale, bensì come una nuova lingua
che continua la tradizione della poesia italiana, e che su questa s’innesta come
lingua «da usarsi con la delicatezza di un’ininterrotta, assoluta metafora»[11].
Quanto di peggio
Pasolini riscontra nella tradizione zoruttiana è, al contrario, la mancanza di
un’invenzione linguistica, e il crearsi di un conseguente vuoto, che viene
riempito da un melenso sentimentalismo folklorico che, all’orecchio di un
parlante competente, si rivela nella sua asfittica stanchezza e richiede misure
di drastico cambiamento, deve riempirsi della coscienza critica della poesia,
recuperare nella sua autenticità di lingua «virtuale»[12]
il rango di lingua poetica «nazionale»[13].
Ma l’idea di nazione
che Pasolini ha in mente è riferita a una ideale differenza linguistica capace
di trovare omogeneità geografica, tematica e problematica nel recupero storico e
sistematico delle lingue minori romanze con il loro carico di primordiale
dirompenza linguistica: «dal cuore della Svizzera ai monti di Gorizia», scrive a
Contini nel marzo del ’46 di voler ritrovare una unità regionale.
L’ultimo numero dello
“Stroligut” uscirà infatti nel 1947 col titolo di Quaderno romanzo, e
raccoglierà la collaborazione del poeta antifranchista Carles Cardò, oltre a un
florilegio della poesia catalana: nel quaderno, il nostro giovane homme de
lettres affronta il dramma dell’autocrazia franchista, nonché quello
dell’ostracismo della lingua catalana da ogni funzione pubblica, inserendoli nel
quadro della tematica dell’autonomia friulana.
L’uso del «fiore»
della poesia catalana è, a sentire di Pasolini, un raffinato, incomparabile
strumento di unificazione di piccole patrie di lingua romanza; l’intreccio di
traduzioni antiche diventa ancora lo strumento del gemellaggio di identità, ed è
per Pasolini di monito e di coscienza: la poesia dialettale, in quanto lingua di
rivendicazione, dovrebbe diventare un «antidialetto», una lingua metafisica
sostenuta da una poetica in cui il linguaggio metaforico assuma una pertinenza
materica sedimentata storicamente dal corso della tradizione scritta.
E ancora qui ritorna
la necessità di una lingua musicale che percorra il solco della sensazione quasi
intraducibile, una lingua di confine con l’onomatopea dei sentimenti che
costituiscono il terreno della creazione di una coscienza poetica, di una
poesia, e dunque la conquista di una «nozione di poesia pura»[14].
In questa ossessione, che porta Pasolini a dibattere fra il desiderio di una
lingua criptica e detentrice di suoni, la catarsi da ogni categoria letteraria e
la riscoperta decostruita e poi «ricostruita» di una nuova coscienza letteraria
alta in ambito vernacolare, resta però il problema di fondo della traduzione e
non traduzione, che Pasolini, più che risolvere ontologicamente, pone quale nodo
tematico da inquadrare in un percorso ermeneutico nel quale le grammatiche sono
elementi di superficie e nella loro «detenzione» eventuale si negano.
La questione
dell’autonomia della lingua dialettale è, secondo Pasolini, scevra di ogni
sentimentalismo conservatore: è nostalgia di un cosmo perduto, è ricostruzione
di un mondo radicalmente nuovo, fondato su nuove regole etico-civili e sociali
(in primis di uguaglianza sostanziale), ed è, soprattutto, una sorta di
ideale patria etico-civile che, per il nostro, solo il pensiero comunista può
contribuire a costruire. C’è l’inversione di un processo d’identificazione
psicologica con una realtà storica passata, e cioè il desiderio che quella
realtà diventi presente come è stata metaforicamente posta dalla sua lingua, in
un processo che trasformi la «natura» in «storia».
Il problema dei poeti
dialettali che percorrono una storicizzazione della natura è quello di ricalcare
sostanziali «italianismi»; per Pasolini, il problema della traduzione della
lingua italiana in lingua friulana era stato posto sul piano di una
trasposizione di esperienze da una cultura all’altra, con tutto il carico di
differenze e il margine di indicibilità che comporta una lingua non colonizzata
e, dunque, lontana dalla omogenea esanguità delle lingue nazionali.
L’approfondimento
pasoliniano delle tematiche incontrate e poi reinventate genialmente negli anni
della prima formazione e delle prime raccolte poetiche esula dall’intenzione di
queste pagine.
Ciò che invece si è
tentato qui di accennare è come la sua attenzione linguistica e grammaticale
tenda all’aspettativa di un moto eventuale scaturente dalla parola poetica
stessa, che diviene l’orizzonte di attesa sul quale essa si muove, e la cui
mancanza coinciderà con la fine della parola poetica stessa. C’è da chiedersi
quanto la fine dell’attesa di una parola-evento, che vibra nelle ricerche
linguistiche e nelle filigrane romanze di Pasolini, coincida con un’estinzione
della vicenda biografica di Pasolini che la giustifica, e quanto sia
invece frutto della naturale chiusura di un’esigenza di poesia. Ma questo
risiede, forse, nella domanda di «evento» del lettore rispetto al testo e, più
profondamente, alla sua lingua, che Pasolini sembra porre alla base del percorso
teorico e linguistico da cui muove.
In un saggio ora
celebre su Paul Celan (Schibbolet), Jacques Derrida ragiona sulla
tensione della traduzione in riferimento al termine «schibbolet» che, nel libro
dei Giudici, è impiegato dagli Ebrei come parola d’ordine per riconoscere
gli Eframiti, nemici di Israele e incapaci di pronunziare il suono «sch». Tale
incapacità fonetica, che designa per lo straniero l’impossibilità di passare una
frontiera geografica, diventa nella lirica del poeta una frontiera linguistica
di intraducibilità che apre e cifra ogni testo poetico, testo poetico che
diventa altro da sé, col quale è possibile un avvicinamento non identificatorio
e non contaminante. La parola offre una resistenza: «Ed è di offerta che si
tratta e di ciò che una simile resistenza da a pensare», scrive Derrida[15],
e in questa resistenza c’è una demarcazione: «la differenza fonematica tra
shi e si quando diventa discriminante, decisiva e tagliente.
Questa differenza non ha alcun senso di per sé, ma diventa ciò che bisogna saper
riconoscere e soprattutto marcare per fare il passo, per passare la
frontiera di un luogo o la soglia di un poema, vedersi accordare un diritto
d’asilo o l’abitazione legittima di una lingua»[16].
Analogo passo compie
Pasolini allorché definisce, nella poesia dialettale, «fiorellini» componimenti
come U silenziu del siciliano Ignazio Buttitta, ma isolati, in quanto
esempi di rara abilità fonetica e di primordialità lirica, capaci di stabilire
un rapporto di tensione e di intraducibilità che può aprire l’itinerario di
un’appartenenza storica alla lingua che la storicizzi, pur rimanendo lingua
naturale.
Questa, forse, può
essere persuasivamente immaginata come chiave di lettura rispetto all’intenzione
richiesta da Pasolini alla parola.
[1] P. P. Pasolini, Un dialettale senza dialetto, in
«Il mattino del Popolo», 8 gennaio 1948.
[2] G. Contini, Al limite della poesia dialettale, in
«Corriere del Ticino», 24 aprile 1943.
[3] «Ma anche se la storia del nostro paese è la più
umile, la più poveretta del mondo, perciò non dobbiamo dimenticarla. Perché
sognare di avere una storia, vuol dire credere in un passato» (P. P. Pasolini
L’accademia friulana e le sue riviste, p. 9).
[4] «Quando un dialetto diviene lingua ogni scrittore la
adopera conformemente alle sue idee, ogni scrittore che scrive e compone in
maniera diversa e ha il suo «stile», interiore, privato e di quel solo poeta, né
italiano, né tedesco o friulano, ma individuale» (Ivi, p. 5).
[5] Ivi, p. 2.
[6] P. P. Pasolini, Antologia della lirica pascoliana.
Introduzione e commenti, a cura di M. A. Bazzocchi ; con un saggio di M. A.
Bazzocchi ed E. Raimondi, Torino, Einaudi, 1993, p. 37.
[7] Ivi, p.
52.
[8] Ivi, p.
65.
[9] Ivi, p.
66.
[10] Ivi, p. 67.
[11] P. P. Pasolini, Lettera dal Friuli, in «La fiera
letteraria», 29 agosto 1946.
[12] P. P. Pasolini,Tranquilla polemica sullo Zorutti,
in «Libertà», 16 ottobre 1946.
[13] Ibidem.
[14] P. P. Pasolini, Il Friuli autonomo, in «Quaderno
romanzo».
[15] J. Derrida, Schibboleth. Per Paul Celan, trad.
it. di G. Scibilia, Ferrara, Gallio, 1999, p. 9.
[16] Ivi, p. 41.
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