"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini Pier Paolo
Il sogno di una cosa
Angela Migliore
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più.
(Pier Paolo Pasolini da “Poesia in forma di rosa”, 1962)
Anacronistico, Pasolini manomette i piani temporali recuperando schegge del passato ed il suo scrivere si sottrae ad una logica storicistica facendosi, di contro, “archeologismo oculato”, rivalutazione del regresso, rovesciamento della consequenzialità inderogabile della linearità.Concepito e scritto nel 1948-49, “Il sogno di una cosa”, pubblicato soltanto nel 1962, con dolorose sottrazioni atte a mortificare l’autobiografismo velato di vicende laterali inserite nel corpus del testo, si pone contemporaneamente come romanzo d’esordio e di conclusione dando origine ad una netta diacronia non solo con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, ma con il profilo stesso dello scrittore considerato a pieno titolo romano. Una sfasatura di tempi involontaria che assume il sapore di una provocazione, incrinando la stabilità di valori raggiunti, considerati ormai assodati e squalificando il clichè attribuito al Pasolini personaggio pubblico in seguito all’uscita dei due romanzi romani.
Con “Il sogno di una cosa”, si assiste, infatti, ad un inaspettato capovolgimento di prospettive, che palesa tutta l’ambiguità e le contraddizioni pasoliniane qui messe particolarmente in luce dal gap di quattordici anni consumatosi tra la stesura e la pubblicazione del libro che, scritto in pieno dopoguerra, nella cornice rurale dell’Italia contadina, ottiene il consenso dell’editoria solo quando ormai si assiste all’ingresso nell’età neo-industriale. Si tratta, quindi, di pagine estranee al contesto in cui vanno a collocarsi, tanto che nel leggerle, “si ricava la sensazione di essere trascinati indietro, verso un punto fisso dal quale, però, il tempo ha continuato a scorrere in avanti, macinando gli anni, distruggendo e restaurando, fino a creare un’incolmabile distanza”.
Ed è come celebrare un ritorno alle origini, alla scena agreste che aveva smesso di appartenere al Pasolini inurbatosi nella capitale. È ritorno al candore: candore del suo impegno politico; candore dei protagonisti, descritti nella loro coralità indifesa, delusi dal sogno infranto; candore del registro, restio alla contaminazione dialettale, marcata e aggressiva invece, nei due romanzi romani ed in ultimo candore dello scenario ancora fresco e innocente, lontanissimo dalla Roma sottoproletaria di “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”.
Al centro del narrare un’Italia quasi del tutto scomparsa, descritta mediante i gesti autentici, quasi rituali, dei contadini immersi in sfondi che Pasolini cattura con studiata maestria in vere e proprie tele, risolvendo i paesaggi pittoricamente nei modi della prosa dell’arte. La semplicità della frase, atta a rendere la modestia della vita rurale, si infrange contro la compattezza dei “dipinti”, volti ad esaltare la bellezza di una realtà cristallizzata in immagini capaci di ricreare l’atmosfera, gli odori e le sfumature di quei paesini incorniciati dalla “corona azzurrina dei monti friulani”, dove prende corpo e si sviluppa la storia di Milio, Nini ed Eligio. La storia della loro miseria, della fuga in Jugoslavia, della lotta contadina e dei loro vent’anni scivolati via troppo in fretta, a dirci che “la meglio gioventù” (titolo originario del romanzo, poi assegnato alle poesie in dialetto friulano) è già sfumata.
Pasolini rinuncia ad indirizzare il racconto verso una trama predefinita, bensì indugia sul valore della quotidianità facendo del libro uno specchio in grado di fissare e riflettere la genuinità delle scene conviviali, vero fulcro della narrazione che si distende tra le pedalate in gruppo, le canzoni urlate a squarcia gola, le mangiate di polenta e le ubriacature dentro le stalle fumanti, le chiacchiere delle donne affaccendate nei lavori domestici, i cortei dei braccianti contro i latifondisti, le processioni religiose e addirittura “le pisciate, anch’esse religiose, tutti in fila di spalle contro l’argine” del Tagliamento.
In quest’ottica, pertanto appare evidente quanto sia fuori luogo etichettare in maniera semplicistica “Il sogno di una cosa” quale idillica rievocazione delle lotte dei contadini friulani: l’episodio storico della protesta per l’applicazione del beneficio di guerra funge, infatti, soltanto da sfondo integratore creando una soluzione di continuità tra le varie scene tratteggiate dalla penna dell’autore, capace di riconoscere in prima persona quanto la seconda ipotesi, quella de “I giorni del lodo De Gasperi” fosse inadeguata come titolo per il proprio romanzo.
Del resto l’argomento centrale è da ricercarsi altrove, senz’altro nella vitalità della tradizione, così come ci viene trasmessa attraverso tutta la serie di ritratti che si susseguono, uno dopo l’altro, come “un coro di figurine, un trattatello di fisiognomica e sociologia redatto e poi disciolto in colori dentro la cornice di un quadro fiammingo” corroso al suo interno dalle forze antitetiche dell’antico e del moderno, dal rimpianto per un tempo perduto che non ritornerà, per una condizione di purezza ed autenticità smarrite in conseguenza del consumismo e della corruzione di una società indegna di essere definita tale e nei cui confronti Pasolini non rinuncia mai ad esternare la propria delusione, neppure in questa circostanza, pur diluendo l’amarezza tra le pieghe di pagine che lontane dal “falso archeologico”, realizzano il “miracolo di un libro che è innocente senza tuttavia esserlo, poetico, ma non meno polemico”.
Con “Il sogno di una cosa”, si assiste, infatti, ad un inaspettato capovolgimento di prospettive, che palesa tutta l’ambiguità e le contraddizioni pasoliniane qui messe particolarmente in luce dal gap di quattordici anni consumatosi tra la stesura e la pubblicazione del libro che, scritto in pieno dopoguerra, nella cornice rurale dell’Italia contadina, ottiene il consenso dell’editoria solo quando ormai si assiste all’ingresso nell’età neo-industriale. Si tratta, quindi, di pagine estranee al contesto in cui vanno a collocarsi, tanto che nel leggerle, “si ricava la sensazione di essere trascinati indietro, verso un punto fisso dal quale, però, il tempo ha continuato a scorrere in avanti, macinando gli anni, distruggendo e restaurando, fino a creare un’incolmabile distanza”.
Ed è come celebrare un ritorno alle origini, alla scena agreste che aveva smesso di appartenere al Pasolini inurbatosi nella capitale. È ritorno al candore: candore del suo impegno politico; candore dei protagonisti, descritti nella loro coralità indifesa, delusi dal sogno infranto; candore del registro, restio alla contaminazione dialettale, marcata e aggressiva invece, nei due romanzi romani ed in ultimo candore dello scenario ancora fresco e innocente, lontanissimo dalla Roma sottoproletaria di “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”.
Al centro del narrare un’Italia quasi del tutto scomparsa, descritta mediante i gesti autentici, quasi rituali, dei contadini immersi in sfondi che Pasolini cattura con studiata maestria in vere e proprie tele, risolvendo i paesaggi pittoricamente nei modi della prosa dell’arte. La semplicità della frase, atta a rendere la modestia della vita rurale, si infrange contro la compattezza dei “dipinti”, volti ad esaltare la bellezza di una realtà cristallizzata in immagini capaci di ricreare l’atmosfera, gli odori e le sfumature di quei paesini incorniciati dalla “corona azzurrina dei monti friulani”, dove prende corpo e si sviluppa la storia di Milio, Nini ed Eligio. La storia della loro miseria, della fuga in Jugoslavia, della lotta contadina e dei loro vent’anni scivolati via troppo in fretta, a dirci che “la meglio gioventù” (titolo originario del romanzo, poi assegnato alle poesie in dialetto friulano) è già sfumata.
Pasolini rinuncia ad indirizzare il racconto verso una trama predefinita, bensì indugia sul valore della quotidianità facendo del libro uno specchio in grado di fissare e riflettere la genuinità delle scene conviviali, vero fulcro della narrazione che si distende tra le pedalate in gruppo, le canzoni urlate a squarcia gola, le mangiate di polenta e le ubriacature dentro le stalle fumanti, le chiacchiere delle donne affaccendate nei lavori domestici, i cortei dei braccianti contro i latifondisti, le processioni religiose e addirittura “le pisciate, anch’esse religiose, tutti in fila di spalle contro l’argine” del Tagliamento.
In quest’ottica, pertanto appare evidente quanto sia fuori luogo etichettare in maniera semplicistica “Il sogno di una cosa” quale idillica rievocazione delle lotte dei contadini friulani: l’episodio storico della protesta per l’applicazione del beneficio di guerra funge, infatti, soltanto da sfondo integratore creando una soluzione di continuità tra le varie scene tratteggiate dalla penna dell’autore, capace di riconoscere in prima persona quanto la seconda ipotesi, quella de “I giorni del lodo De Gasperi” fosse inadeguata come titolo per il proprio romanzo.
Del resto l’argomento centrale è da ricercarsi altrove, senz’altro nella vitalità della tradizione, così come ci viene trasmessa attraverso tutta la serie di ritratti che si susseguono, uno dopo l’altro, come “un coro di figurine, un trattatello di fisiognomica e sociologia redatto e poi disciolto in colori dentro la cornice di un quadro fiammingo” corroso al suo interno dalle forze antitetiche dell’antico e del moderno, dal rimpianto per un tempo perduto che non ritornerà, per una condizione di purezza ed autenticità smarrite in conseguenza del consumismo e della corruzione di una società indegna di essere definita tale e nei cui confronti Pasolini non rinuncia mai ad esternare la propria delusione, neppure in questa circostanza, pur diluendo l’amarezza tra le pieghe di pagine che lontane dal “falso archeologico”, realizzano il “miracolo di un libro che è innocente senza tuttavia esserlo, poetico, ma non meno polemico”.
Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio -nella sua miseria
sprezzante e perso - per oscuro scandalo
della coscienza…
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te: con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere.
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio -nella sua miseria
sprezzante e perso - per oscuro scandalo
della coscienza…
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te: con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere.
(Pier Paolo Pasolini, da "Le ceneri di Gramsci",1957)
Pier Paolo Pasolini,“Il sogno di una cosa”, Milano, Garzanti, 2000.
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