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giovedì 19 giugno 2014

Pasolini Pier Paolo - Le ceneri di Gramsci - marina monego

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Pasolini Pier Paolo -
Le ceneri di Gramsci -
Marina Monego

La raccolta “Le ceneri di Gramsci”, pubblicata nel 1957, contiene undici poemetti articolati in capitoli e sezioni nei quali Pasolini elabora una lieve trama-racconto in cui s’inseriscono elementi autobiografici, riflessioni politiche e ideologiche, descrizioni fortemente pittoriche sul modello della critica d’arte (Pasolini all’università fu allievo del critico Roberto Longhi) sia del paesaggio sia del sottoproletariato delle borgate romane che tanto l’affascinava per l’originaria naturalezza e la genuinità popolare non ancora corrotta dal capitalismo e dalle sue mode.
La lirica è ricca di quei contrasti e quelle contraddizioni che il poeta viveva a volte drammaticamente in sé stesso: c’è da un lato l’adesione appassionata, vitalistica, viscerale, pura a un mondo popolare – contadino prima, legato alla materna terra friulana, poi sottoproletario – dall’altro alla razionale ideologia marxista che analizza le forze della storia per cambiarla.
I poemetti risultano densi di considerazioni, vitalità, bellezza che Pasolini riesce comunque a ritrovare nonostante il disincanto che apertamente manifesta.
Quadri di un’Italia costituita da città piene di tesori e arcaiche scene bucoliche (il mulo coi cesti d’uva che risale la collina, Roma coi lungoteveri e le “sentinelle del sesso battono in spossanti attese intorno a terree latrine”, il pastore che dorme col suo gregge) si presentano fin dal primo poemetto “L’Appennino”, dove il paesaggio si dipana sotto la luce d’una luna alternativamente “muta, cocente, intera, attonita, umana”, mentre silenziosa e ieratica rimane la statua della giovinetta morta Ilaria, con le sue palpebre chiuse.
Già Roma si delinea “ruderi alessandrini e barocchi indora alla luna, e disfatte borgate irreligiose, dove tutto si ignora che non sia sesso, grotte abitate da feci e fanciulli”. E il popolo, quel popolo che però resta spesso fermo al passato, intona canti reazionari (“Il canto popolare”) nella sua inconsapevolezza, nella sua leggerezza ancora incosciente .
Il senso di vitalità spunta anche nel “Comizio” fascista: 

“Ecco chi sono gli esemplari vivi, vivi, di una parte di noi che, morta, ci aveva illuso d’esser nuovi – privi d’essa per sempre”; 

“Un tempo morto che torna inaspettato, odioso, quasi i bei giorni della vittoria, i freschi giorni del popolo, fossero essi, morti”. 

Mentre il poeta s’aggira estraniato e angosciato fra questa folla incontra improvvisamente lo sguardo d’un compagno e sente vicina la presenza di Guido, il fratello partigiano morto giovinetto 

“Egli chiede pietà, con quel suo modesto, tremendo sguardo, non per il suo destino, ma per il nostro…”.

Autobiografismo e storia s’intersecano e paiono per un tratto proseguire insieme.
L’intera raccolta vive nell’oscillazione tra i due poli d’un Paese umile, semplice, spontaneo, selvaggio, sfolgorante d’una luminosità mitica, evocata con toni elegiaci e la necessità di capire per fare, agire e cambiare. L’azione è rivoluzionaria, la passione è più regressiva, è intenerimento – con echi pascoliani – di fronte ai semplici, è simpatia istintiva per gli umili.
I vertici più alti vengono raggiunti ne “Le ceneri di Gramsci” e ne “Il pianto della scavatrice”.
Di fronte alla spoglia tomba di Gramsci nel cimitero acattolico di Roma, il poeta uomo e artista si pone a dialogare con quelle spoglie “non padre, ma umile fratello” (come a negare un distacco da una figura paterna borghese che Pasolini aveva realmente avuto). Lì c’è un Gramsci che pare solitario e indifeso. L’atmosfera che si respirava e si respira nel cimitero è di per sé lirica. Chi ancor’oggi, a mezzo secolo dai versi, dovesse varcare il cancello s’immergerà in un altro mondo. Le mura hanno il potere d’isolare quel luogo di memoria dall’incessante fluire del traffico che attorno si scatena. Negli anni Cinquanta la ressa meccanica non c’era, pulsava assai più il quartiere operaio di Testaccio di cui, sotto il Monte dei Cocci, s’ascoltavano voci e rumori. Al posto delle decine di bottegucce e laboratori dove si riparava quello che mai si sarebbe gettato via, ora l’economia del consumo – di cui il poeta coglieva contraddizioni e contaminazioni – ha piazzato alcuni ritrovi gastronomici e musicali.
E se resiste

“lo straccetto rosso, come quello arrotolato al collo dei partigiani”

che il tempo o mani militanti hanno potuto conservare accanto alle ceneri di Gramsci, il rapporto fra il padre del comunismo italiano e il mondo proletario del vicino quartiere delle cooperative di muratori, nel tempo s’è sfaldato. All’epoca dei versi c’era nella memoria del poeta la vicinanza a una realtà sociale che lui, nato borghese, conobbe e visse per un periodo sulla pelle 

“come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno”. 

Del mondo degli umili, di cui in Friuli aveva conosciuto e amato le radici rurali, aveva trovato similitudini nella borgata romana di Ponte Mammolo verso Rebibbia (abitata e frequentata per l’insegnamento) o al Testaccio (che attraversava per raggiungere la successiva casa di Monteverde). Degli umili condivideva la precarietà, i pochi denari, la salita della vita che è solo sopravvivenza e lotta. che il tempo o mani militanti hanno potuto conservare accanto alle ceneri di Gramsci, il rapporto fra il padre del comunismo italiano e il mondo proletario del vicino quartiere delle cooperative di muratori, nel tempo s’è sfaldato. All’epoca dei versi c’era nella memoria del poeta la vicinanza a una realtà sociale che lui, nato borghese, conobbe e visse per un periodo sulla pelle.
Come loro viveva di passioni e pulsioni sessuali, le sue verso gli adolescenti 

”il giovinetto ciociaro che dorme col membro gonfio tra gli stracci un sogno goethiano” 

che tanto scandalo facevano nella bigotta società clerico-fascista e nello stesso Partito Comunista. Dal quale fu espulso nel ‘49 per “un’indegnità morale” legata più alla sua omosessualità che alla presunta pedofilia.
Mentre toni elegiaci s’alternano ad altri argomentativi e l’attenzione si sposta alternativamente verso l’io poetico e verso Gramsci, preso e lasciato più volte, nel sensibile animo del poeta brucia la contraddizione 

“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere; – dal mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra d’azione mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza; è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia…”

Neppure l’ideologia della liberazione, della nascita dell’uomo nuovo gli è amica offrendogli una libertà sessuale che è al di là da venire. E che quando sarebbe giunta – coi capelloni del Sessantotto – avrebbe avuto risvolti egualmente omologati, come l’intera società nata dal consumismo. E la coscienza di avere strumenti per comprendere tutto ciò e di padroneggiarlo con la cultura non alleggerisce l’angoscia 

“io possiedo la storia, ne sono illuminato ma a che serve la luce?”

Eppure le tante antinomie non smorzano l’amore per il popolo. L ’immagine della tiepida sera testaccina è d’una struggente bellezza, diversa e simile per l’eccelso lirismo ai versi leopardiani 

“Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi, con la luce cerea… Il rotolìo dei tram, i gridi umani… la corporea, collettiva presenza… la sopravvivenza nel cui arcano orgasmo non ci sia altra passione che per l’operare quotidiano …”.

“A via Zabaglia, a via Franklin… manca poco alla cena… i rari autobus del quartiere brillano con grappoli d’operai agli sportelli… e i militari vanno, senza fretta, verso il monte che cela fra mucchi secchi d’immondizia, rintanate zoccolette che aspettano irose sopra la sporcizia afrodisiaca… e non lontano i ragazzi leggeri come stracci giocano alla brezza primaverile”.

Quale quadro è più sacro e profano di questo scorcio di mondo per niente contraffatto ? Com’è lontana la stucchevole ipocrisia di certo realismo socialista letterario d’impronta zdanoviana, voluto da Togliatti, Amendola e certa ufficialità di Partito, tutto rivolto a esaltare le sorti migliori e progressive per il futuro delle classi subalterne. Per costoro le immagini pasoliniane diventavano decadenti come e più di quelle che Alicata aveva contestato a Vittorini e al suo “Il Politecnico” e soprattutto non si poteva sopportare l’insinuarsi del dubbio che tanto assillava il poeta.
A una prima domanda 

“mi chiederai tu, morto disadorno, d’abbandonare questa disperata, passione di essere nel mondo?

”segue quella angosciosa dell’ultima terzina “con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?”. 

Essa diventa insieme un monito e un grido di dolore coi quali Pasolini ha già compreso la condanna che gli amati proletari e lui medesimo sono destinati a subire.segue quella angosciosa dell’ultima terzina . Essa diventa insieme un monito e un grido di dolore coi quali Pasolini ha già compreso la condanna che gli amati proletari e lui medesimo sono destinati a subire.

“Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più”.

Quale incipit è più concreto, realista, addolorato e al tempo fiducioso nella poesia civile che per Pasolini è poesia d’amore, di questo del “Pianto della scavatrice”? Il tema autobiografico prosegue con forte tensione, nello scenario del rione proletario ardente di energia e vita (rincasano i giovani sui motorini coi compagni sui sellini, al bar chiacchierano gli avventori). Alla solitudine del poeta si contrappone la socialità dei ragazzi ma anche la crudezza e la durezza del vivere 

“Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini…, come andare duri e pronti nella ressa delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare…, a difendermi, a offendere…, a capire che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto…”

È frequentando il semplice e coriaceo popolo delle borgate e mescolandosi a esso che il poeta s’è fatto adulto e ha iniziato a guardare la vita con altri occhi. È stata un’apertura verso un mondo sconosciuto, una profonda lezione esistenziale e quelle scoperte l’uomo Pasolini non le dimenticherà mai. 

“Povero come un gatto del Colosseo, vivevo in una borgata tutta calce e polverone, lontano dalla città e dalla campagna, stretto ogni giorno in un autobus rantolante… era un calvario di sudore e di ansie… di borgate tristi, beduine, di gialle praterie sfregate da un vento senza pace…, di deperiti e duri ragazzini stridenti nelle canottiere a pezzi…, i soli africani, le piogge agitate che rendevano torrenti di fango le strade, gli autobus ai capolinea affondati nel loro angolo…, era il centro del mondo, com’era al centro della storia il mio amore per esso”.

Ora il tempo è passato, il poeta rincasa lungo i viali del Gianicolo fino a via Fonteiana e s’interroga con un senso di pena e fallimento, quasi di rimpianto per gli anni in cui era più povero e non inserito nella società costituita. Nella solitudine e nelle difficoltà si formava la sua coscienza 

“Si moltiplicava per mille la gioia del conoscerlo – come ogni uomo, umilmente, conosce. Marx o Gobetti, Gramsci o Croce, furono vivi nelle vive esperienze… I pochi amici che venivano da me, nelle mattine o nelle sere dimenticate sul Penitenziario, mi videro dentro una luce viva: mite, violento rivoluzionario nel cuore e nella lingua”. .

Nei nuovi quartieri in divenire fra sterri che vedono lo strabordare della “civiltà della palazzina” compare, inanimata, la scavatrice 

“che pena m’invade, davanti a questi attrezzi supini, sparsi qua e là nel fango, davanti a questo canovaccio rosso che pende a un cavalletto… Piange ciò che ha fine e ricomincia. Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore…”, 

quella stessa immagine che ritornerà alla fine del poemetto, quando la scavatrice sarà in movimento e lancerà le sue vibrazioni nel sole mattutino. Il pianto della scavatrice, dunque, diventa il simbolo di uno sviluppo storico che si compie attraverso la lacerazione del passato ed è dunque sofferenza. È l’urlo del passato che muore anche se gli operai innalzano pur sempre .
In “Recit” l’ossimoro ritorna ossessivamente “Com’era nuovo nel sole Monteverde vecchio!” e nel poemetto vengono riesumati i settenari doppi di Jacopo Martello, un verso famigerato per il suo ritmo picchiettante che lo trasfigura dall’interno. Ricorrono situazioni coeve alla vita del poeta: la notizia della condanna per oscenità del romanzo “Ragazzi di vita” ambientato in buona parte in quel quartiere che, portata da un altro poeta e amico Attilio Bertolucci “fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia se prima di ferirmi è passata per te, e il primo moto di dolore che fece sera del giorno, fu pel tuo dolore”. E delle propaggini di Monteverde, sul confine con la zona industriale dell’Ostiense dato dalla stazione ferroviaria di Trastevere, anche nei versi compare la Ferro-Beton (Ferrobedò per la combriccola di Riccetto) e la raffineria Permolio, che ha lanciato luride zaffate in aria sino alla fine dei Sessanta.
In “Una polemica in versi” la diatriba diventa appunto poesia nella contrapposizione fra Pasolini e i teorici del prospettivismo, come il filosofo e politologo Lukàcs definì la posizione culturale nei partiti comunisti ortodossi che si rifaceva a Zdanov e esaltando un’omogeneità teorica e ideologica diventava mera propaganda. Pasolini additato dalla rivista “Ragionamenti” come estremista culturale sostiene di non temere l’accusa e scrive 

Non si dà cultura, cioè ricerca scienza verità, se non estremista, se non persuasa della propria decisività. L’opportunismo e la diplomazia non sono né storicismo né dialettica”. 

Ai severi custodi dell’ortodossia di Partito le riflessioni del poeta sulla classe e la sua lotta non piacciono

l’ora è confusa, e noi come perduti la viviamo…, mi mormoravi, amaro, disilluso di ciò che hai avuto per dieci anni dentro, così chiaro che tra mondo e mente quasi era un idillio:…” 

“Hai voluto che la tua vita fosse una lotta. Ed eccola ora sui binari morti, ecco cascare le rosse bandiere, senza vento.”

Pasolini ha ben presente i fastidi del suo intervenire 

“E io… io cedo: posso soltanto appassionarmi, come sempre: pazzo, ché dovrei tacere, non offrire il fianco...”

“E’ già vecchio il piano di lotta di ieri, cade a pezzi sui muri il più fresco manifesto.”

E la chiusura con una panoramica sulla Festa (di Partito, dell’Unità?) “si riapre nel rosso sole del meriggio d’autunno ancora afoso, in un’aria di morte, la vostra festa…” ossimoro essa stessa perché è triste e dimessa come i suoi partecipanti: ragazzi che masticano gomme americane, famiglie con la sporta della merenda, uomini con gambe vacillanti e la voce rauca del manovale ubriaco. Innaturale festa: il palco vuoto, il silenzio che affiora 

”non resta nulla di vivo: neanche i colpi acerbi dei giovani pugili…”. 

ossimoro essa stessa perché è triste e dimessa come i suoi partecipanti: ragazzi che masticano gomme americane, famiglie con la sporta della merenda, uomini con gambe vacillanti e la voce rauca del manovale ubriaco. Innaturale festa: il palco vuoto, il silenzio che affiora .
Rimane la nostalgia dei vecchi tempi, di ciò che si faceva e sperava solo un decennio prima. Comunque il sentimento del poeta non tradisce l’ideale, l’ultima strofa afferma: “in questa malinconia è la vita”..
Dal punto di vista metrico-stilistico questi poemetti risultano innovativi e sperimentali, pur rifacendosi alla tradizione precedente. La terzina viene deformata, resa irregolare con rime imperfette e variabili e un inseguirsi degli enjambements a formare frasi dilatate, allungate. Da un lato sembra esservi la nostalgia per il poemetto neoclassico, dall’altro vi sono l’ansia di sperimentare, l’uso di termini aulici e popolari, l’argomentare quasi prosastico-giornalistico e gli squarci lirico-elegiaci. Se talvolta c’è enfasi populistica d’ascendenza carducciana la stessa è filtrata attraverso Pascoli, resa comunque personalissima dal proprio originale sentire.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Pier Paolo Pasolini(Bologna 1922 – Roma 1975) poeta, saggista, regista, narratore italiano.
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1976.

Fonte:
http://www.lankelot.eu/letteratura/pasolini-le-ceneri-di-gramsci.html

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Pasolini Pier Paolo - L'usignolo della chiesa cattolica - Angela Migliore

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini Pier Paolo -
L'usignolo della chiesa cattolica -
Angela Migliore

Pubblicato nel 1958, “L’usignolo della Chiesa Cattolica” comprende versi scritti tra il 1943 ed il 1949 palesando, come già era accaduto per la narrativa con “Il sogno di una cosa”, quanto l’ininterrotta fedeltà di Pasolini alla poesia sia estranea ad una cronologia lineare. Incuneandosi tra “Le ceneri di Gramsci” (1957) e “La religione del mio tempo” (1961) questa raccolta si fa, infatti, testimonianza di un percorso incapace di scandirsi per tappe in progressione, dando vita ad un corpus poetico privo di continuità, fattore evidenziato in più di un’occasione anche dal sofferto placet ripetutamente negato dall’editoria, finita spesso col dilatare la diacronia alla base dell’intera produzione pasoliniana.
Nato come “libretto di meditazioni religiose” in friulano, L’usignolo risulta fortemente investito dal problema della “traduzione”, del travaso cioè da un codice all’altro, denunciando, con la sua stessa genesi e successiva metamorfosi, il vincolo che lega la lingua frutto delle sofferte potature e dei continui ritocchi susseguitisi negli anni, al dialetto. Col calco sul friulano a generare un italiano cui l’autore stesso riconosce “un’aria romanzata e ingenua” proprio in virtù di questi complessi rapporti interlinguistici. Pasolini, infatti, rinuncia al versificare dell’800, spoglia l’italiano dalla ridondanza di Foscolo e Leopardi e instaura un parallelismo col dialetto capace di rivelarsi produttivo per largo tratto, incidendo nella prosodia giocata sul verso breve e nella maglia delle rime ravvicinate, ma subendo poi lo strappo di una netta divaricazione a partire dai componimenti datati 1947.

Il labor limae è febbrile e accompagna tutto il lungo iter verso la pubblicazione che, dal 1943 al 1958, vede protagonista questa raccolta, per la quale Pasolini scrive di “sentire una certa tenerezza, poiché rappresenta quel sé ventunenne e ancora vergine, che ritornato a Casarsa dopo molto tempo, si era lasciato suggestionare da una specie di cristianesimo paesano, non senza trovare però nel suo Eros esasperato dolci ed inequivocabili fonti d’eresia. Ma le situazioni non si risolvono, si consumano…”
Così come il dolore consuma il verso saturo d’angoscia in cui il nostro sviscera il proprio dissidio interiore, il tormento scaturito dalla lacerazione tra la tensione celeste e la condizione umana, con l’usignolo, già topos della lirica provenzale ed immagine capace di attraversare l’intera tradizione italiana, a mettere in scena, cantando, la straziante dicotomia tra innocenza e peccato, colpa e rimorso, sacro e profano.
“Povero uccelletto, dall'albero, tu fai cantare il cielo. Ma che pena udirti fischiettare come un fanciullino!”.
Sin dalla sezione che inaugura il libro, sua omonima nel titolo, Pasolini ricorre a questa figura simbolica per esprimere, “la contraddizione esistente tra il volgere lo sguardo questuante all'infinito, nel gesto di ‹‹far cantare il cielo›› e il ricadere entro il limite di un ‹‹fischiettare›› tutto umano, quasi rabbrividito dentro una pena incolmabile” (Da Fulvio Panzeri, Guida alla lettura di Pasolini ).
Le ripetute opposizioni si risolvono in una fusione che non appiana, non lascia combaciare i contrari chiudendoli, invece, nell’ossimoro: nella convergenza di una religione che è già eresia e culmina nell’autoidentificazione dell’autore con il Cristo in croce. La seconda sezione dal titolo “Il pianto della rosa”, celebra, di seguito, la violenta e decisa scoperta del corpo. Qui si supera l’immedesimazione nel Cristo per concedere campo al Narciso e al suo peccato con “Il non credo” a ribadire l’urgenza della violazione e la bestemmia come forma autentica di preghiera rivolta verso “il Dio/che Pasolini non sa né ama”.

Si avverte netto, quindi, il disagio di colui che scrive, in costante travaglio tra carne e cielo. Lo smarrimento è totale all’interno della terza sezione intitolata “Lingua”, dove la crisi linguistica diventa, appunto, specchio dell’inquietudine interiore simboleggiando l’abbandono degli anni giovani e il doloroso ingresso nel mondo degli adulti che postula anche il distacco dalla madre, figura determinante specie all’interno della quarta sezione, “Paolo e Baruch”, in cui l’autore giunge ad ammettere l’omosessualità proprio come corollario dell’amore nei confronti di lei: “Mi innamoro dei corpi/che hanno la mia carne di figlio… i corpi dei figli/coi calzoni felici/col bruno o il biondo/delle madri nei passi”.
E di nuovo prende forma l’identificazione col Cristo crocifisso qui esasperata al punto da diventare paradigma pasoliniano e cristallizzarsi nel “programma morale” di testimoniare lo scandalo.

La quinta sezione intitolata “L’Italia”, costituisce una fuga dalle tematiche fin qui esposte per immergersi nei colori e nei profumi di un mondo distante, ormai remoto, che Pasolini rievoca con nostalgia nelle pagine di assorta contemplazione di cui si compone questo vero e proprio romanzo in versi venuto ad inframmezzarsi come pausa di respiro prima dei quattro tormentati testi di “Tragiques” dove si riaffaccia il dissidio interiore dell’omosessualità combattuta e rivendicata. L’atmosfera è livida di sofferenza, nei componimenti ritornano stralci dei vecchi diari degli anni di Ramoscello, dello scandalo, delle umiliazioni in tribunale e i “Madrigali a Dio” sono urla blasfeme, ma al tempo stesso richiesta di perdono. Il cerchio si chiude con “La scoperta di Marx”, settima ed ultima sezione, in cui ritorna il tema del trauma figlio del distacco dovuto al faticoso ingresso nell’universo, per così dire, storico.
La sensazione di perdita già espressa in “Lingua” e “Tragiques” qui si dilata all’inverosimile, caricandosi di pathos proprio nel corso del lungo monologo indirizzato alla madre, figura simbolica verso la quale Pasolini si rivolge dichiarando “l’accettazione contrastata e perennemente dibattuta del mondo degli adulti” (Da Bertone – Note sulla versificazione di Pasolini). Tuttavia il passo in apertura tratto da Gor’kij, pare offrire un’ulteriore possibilità d’interpretazione per l’intera raccolta. “Quasi come se, a sigillo dell’avventura friulana, la citazione raccogliesse un giudizio critico su quegli anni, un commento disilluso sulla scelta dell’impegno: un amore presunto, che svela la propria essenza di ‹‹meccanica inclinazione verso la massa››. E, dopo l’abbaglio, il ritorno alla madre, all’amore che non deflette” (dall’introduzione di Pellegrini).
In definitiva un libro corroso dal bisogno di purezza, il poeta scrive affinché si plachino in lui il senso del peccato e il rovello per la castità violata attraverso i propri desideri sessuali. I suoi sono versi che denunciano la distanza da “L'Occhio di Dio”, tuttavia chiedendo che ritorni su di lui, nonostante “l'amore sacrilego” da cui è pervaso. E la sua voce diventa canto straziante d’usignolo al quale accosta, con maestria, altri timbri mediante preziosi intarsi plurilingui: dal provenzale di Bernart di Ventadorm, al francese, al latino per giungere finanche ad un dubbio tedesco, mutuando frammenti dal Vangelo di Giovanni, da canti liturgici, da Pascal e subendo fascinazioni da Baudelaire, da Rimbaud, da Villon in righe che nulla lasciano al caso rivelandosi, invece, determinanti per la fondazione del significato. Per la comprensione di una poetica che nasce dal donarsi incondizionato di un artista che si espone con chiarezza di cuore sacrificando ogni giorno il dono, rinunciando ogni giorno al perdono, sporgendosi ingenuo sull’abisso, anche oltre la vita.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 – Roma 1975) poeta, saggista, regista, narratore italiano.

Pier Paolo Pasolini, “L’usignolo della Chiesa Cattolica”, Milano, Garzanti, 2000. 

Fonte:
http://www.lankelot.eu/letteratura/pier-paolo-pasolini-lusignolo-della-chiesa-cattolica.html

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Pasolini Pier Paolo - Il sogno di una cosa - Angela Migliore

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

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Pasolini Pier Paolo -
Il sogno di una cosa -
Angela Migliore



Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle Chiese, 
dalle pale d'altare, dai borghi 
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, 
dove sono vissuti i fratelli. 
Giro per la Tuscolana come un pazzo, 
per l'Appia come un cane senza padrone. 
O guardo i crepuscoli, le mattine 
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, 
come i primi atti della Dopostoria, 
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe, 
dall'orlo estremo di qualche età 
sepolta. Mostruoso è chi è nato 
dalle viscere di una donna morta. 
E io, feto adulto, mi aggiro 
più moderno d'ogni moderno 
a cercare i fratelli che non sono più.

(Pier Paolo Pasolini da “Poesia in forma di rosa”, 1962)

Anacronistico, Pasolini manomette i piani temporali recuperando schegge del passato ed il suo scrivere si sottrae ad una logica storicistica facendosi, di contro, “archeologismo oculato”, rivalutazione del regresso, rovesciamento della consequenzialità inderogabile della linearità. Concepito e scritto nel 1948-49, “Il sogno di una cosa”, pubblicato soltanto nel 1962, con dolorose sottrazioni atte a mortificare l’autobiografismo velato di vicende laterali inserite nel corpus del testo, si pone contemporaneamente come romanzo d’esordio e di conclusione dando origine ad una netta diacronia non solo con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, ma con il profilo stesso dello scrittore considerato a pieno titolo romano. Una sfasatura di tempi involontaria che assume il sapore di una provocazione, incrinando la stabilità di valori raggiunti, considerati ormai assodati e squalificando il clichè attribuito al Pasolini personaggio pubblico in seguito all’uscita dei due romanzi romani.
Con “Il sogno di una cosa”, si assiste, infatti, ad un inaspettato capovolgimento di prospettive, che palesa tutta l’ambiguità e le contraddizioni pasoliniane qui messe particolarmente in luce dal gap di quattordici anni consumatosi tra la stesura e la pubblicazione del libro che, scritto in pieno dopoguerra, nella cornice rurale dell’Italia contadina, ottiene il consenso dell’editoria solo quando ormai si assiste all’ingresso nell’età neo-industriale. Si tratta, quindi, di pagine estranee al contesto in cui vanno a collocarsi, tanto che nel leggerle, “si ricava la sensazione di essere trascinati indietro, verso un punto fisso dal quale, però, il tempo ha continuato a scorrere in avanti, macinando gli anni, distruggendo e restaurando, fino a creare un’incolmabile distanza”.

Ed è come celebrare un ritorno alle origini, alla scena agreste che aveva smesso di appartenere al Pasolini inurbatosi nella capitale. È ritorno al candore: candore del suo impegno politico; candore dei protagonisti, descritti nella loro coralità indifesa, delusi dal sogno infranto; candore del registro, restio alla contaminazione dialettale, marcata e aggressiva invece, nei due romanzi romani ed in ultimo candore dello scenario ancora fresco e innocente, lontanissimo dalla Roma sottoproletaria di “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”.
Al centro del narrare un’Italia quasi del tutto scomparsa, descritta mediante i gesti autentici, quasi rituali, dei contadini immersi in sfondi che Pasolini cattura con studiata maestria in vere e proprie tele, risolvendo i paesaggi pittoricamente nei modi della prosa dell’arte. La semplicità della frase, atta a rendere la modestia della vita rurale, si infrange contro la compattezza dei “dipinti”, volti ad esaltare la bellezza di una realtà cristallizzata in immagini capaci di ricreare l’atmosfera, gli odori e le sfumature di quei paesini incorniciati dalla “corona azzurrina dei monti friulani”, dove prende corpo e si sviluppa la storia di Milio, Nini ed Eligio. La storia della loro miseria, della fuga in Jugoslavia, della lotta contadina e dei loro vent’anni scivolati via troppo in fretta, a dirci che “la meglio gioventù” (titolo originario del romanzo, poi assegnato alle poesie in dialetto friulano) è già sfumata.
Pasolini rinuncia ad indirizzare il racconto verso una trama predefinita, bensì indugia sul valore della quotidianità facendo del libro uno specchio in grado di fissare e riflettere la genuinità delle scene conviviali, vero fulcro della narrazione che si distende tra le pedalate in gruppo, le canzoni urlate a squarcia gola, le mangiate di polenta e le ubriacature dentro le stalle fumanti, le chiacchiere delle donne affaccendate nei lavori domestici, i cortei dei braccianti contro i latifondisti, le processioni religiose e addirittura “le pisciate, anch’esse religiose, tutti in fila di spalle contro l’argine” del Tagliamento.
In quest’ottica, pertanto appare evidente quanto sia fuori luogo etichettare in maniera semplicistica “Il sogno di una cosa” quale idillica rievocazione delle lotte dei contadini friulani: l’episodio storico della protesta per l’applicazione del beneficio di guerra funge, infatti, soltanto da sfondo integratore creando una soluzione di continuità tra le varie scene tratteggiate dalla penna dell’autore, capace di riconoscere in prima persona quanto la seconda ipotesi, quella de “I giorni del lodo De Gasperi” fosse inadeguata come titolo per il proprio romanzo.
Del resto l’argomento centrale è da ricercarsi altrove, senz’altro nella vitalità della tradizione, così come ci viene trasmessa attraverso tutta la serie di ritratti che si susseguono, uno dopo l’altro, come “un coro di figurine, un trattatello di fisiognomica e sociologia redatto e poi disciolto in colori dentro la cornice di un quadro fiammingo” corroso al suo interno dalle forze antitetiche dell’antico e del moderno, dal rimpianto per un tempo perduto che non ritornerà, per una condizione di purezza ed autenticità smarrite in conseguenza del consumismo e della corruzione di una società indegna di essere definita tale e nei cui confronti Pasolini non rinuncia mai ad esternare la propria delusione, neppure in questa circostanza, pur diluendo l’amarezza tra le pieghe di pagine che lontane dal “falso archeologico”, realizzano il “miracolo di un libro che è innocente senza tuttavia esserlo, poetico, ma non meno polemico”. 

Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio -nella sua miseria
sprezzante e perso - per oscuro scandalo
della coscienza…
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te: con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere.

(Pier Paolo Pasolini, da "Le ceneri di Gramsci",1957)


EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 – Roma 1975) poeta, saggista, regista, narratore italiano.
Pier Paolo Pasolini,“Il sogno di una cosa”, Milano, Garzanti, 2000.

Fonte:
http://www.lankelot.eu/letteratura/pier-paolo-pasolini-il-sogno-di-una-cosa.html

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Pier Paolo Pasolini e gli effetti del Potere. Uno sguardo a Petrolio

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

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Pier Paolo Pasolini e gli effetti del Potere. Uno sguardo a Petrolio

Negli anni 70 i processi economici avevano iniziato a confliggere con il mondo della vita, perché il denaro, allora come oggi, è diventato il generatore simbolico di tutti i valori. L’aveva capito molto bene Pier Paolo Pasolini che, con grande lungimiranza, denunciava la trasformazione della società capitalistica in un dispositivo di Potere massificante.

Siamo tutti consumatori, vittime, ma soprattutto complici – la maggior parte delle volte – di una omologazione imposta, con la nostra predisposizione ad accettare lo sviluppo che non sempre va di pari passo con il progresso. Spendi Spandi Effendi, cantava Rino Gaetano nel 1977 e già allora ci consegnava una foto, nitida e verosimile, del panorama italiano dell’epoca. Eravamo già pronti a tutto pur di godere dei nostri agi e Rino Gaetano, con questa canzone, prendeva in giro lo stereotipo dell’italiano medio tutto donne e motori e lo inseriva nel gravoso contesto del 1973, in occasione della crisi petrolifera. Negli anni 70 i processi economici avevano iniziato a confliggere con il mondo della vita, perché il denaro, allora come oggi, è diventato il generatore simbolico di tutti i valori. Marx scrisse che se il denaro è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, allora non è più un mezzo ma è il primo scopo. Scopo che subordina a sé gli altri nel senso che diventano mezzi per generare il denaro. La cultura capitalista prevede che se non si possono produrre le cose, si devono almeno produrre i bisogni. E lo fa allettando le persone attraverso la pubblicità, che fa sorgere i bisogni che possono produrre. Il capitalismo porta le cose al niente; le risolve nel niente. Una cultura che ragiona in questo modo realizza quello che in filosofia si definisce nichilismo.
L’aveva capito molto bene Pier Paolo Pasolini che, con grande lungimiranza, denunciava la trasformazione della società capitalistica in un dispositivo di Potere massificante. Egli era un personaggio “inattuale” poiché si era sempre posto di traverso nei confronti della società e della cultura del suo tempo. In questo senso, è inattuale anche oggi ed è per noi essenziale riguadagnare la sua figura in un momento in cui le esistenze vengono costantemente livellate dalla trionfante omologazione che aveva anticipato. Solo chi non è compromesso nella pratica con il potere può avere il coraggio di dire la verità e i testi di Rino Gaetano, come quelli di Pier Paolo Pasolini, sono fortemente legati alle vicende storiche, culturali e politiche degli anni in cui furono pubblicati. Entrambi si discostarono dai binari sui quali viaggiavano i colleghi – intellettuali e cantautori – e, come spesso accade agli artisti fuori dalle righe, non furono subito compresi.
Pasolini analizza in modo molto lucido gli effetti che il capitalismo produce sulla società. Ne parla in Scritti corsari ed è proprio da un articolo presente in questo libro (Il genocidio) che troviamo il collegamento aPetrolio, romanzo postumo e mai terminato a causa della morte improvvisa, iniziato nel 1972, “la summa – scriveva Pasolini – di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie, il preambolo di un testamento”. Vi leggiamo la personale versione del potere che appiattisce le persone, il Potere dei consumi che agisce attraverso la persuasione della televisione. Un potere, specificherà, con la P maiuscola perché impossibile da identificare in un soggetto preciso. Le critiche presenti in Scritti corsari (la mutazione antropologica degli italiani, la borghesizzazione del popolo, la relativa abiura dei precedenti modelli di vita e l’afasia dilagante), confluiscono in un passo di Petrolio. Pasolini decide di prendere alla lettera l’espressione “genocidio” utilizzata da Marx; ciò che il capitalismo ha attuato, infatti, è una progressiva e velata cancellazione di interi strati della società. Il protagonista del romanzo è Carlo Valletti, un ingegnere della borghesia torinese, cattolico e comunista, in carriera presso l’Eni. Un personaggio che richiama alla memoria Enrico Mattei, allora reale presidente dell’ente pubblico. Attraverso la metafora di una immaginaria discesa negli inferni, Carlo percorre una strada principale di Roma ed apprende dagli dei, trascinatori del carretto sul quale è seduto, che ciascuna delle strade che incrocerà costituisce un girone o una bolgia. In ogni stradina, dentro un tabernacolo, è presente un Modello, cioè uno stile di vita che i ragazzi che abitano le vie cercano di emulare. C’è il girone della bruttezza, dove i giovani tentano di mascherare i propri difetti cercando di adeguare il proprio corpo al canone estetico imposto dal Potere; c’è il girone del conformismo interclassista, dove i poveri abbandonano i propri abiti in favore di un’utopica uguaglianza, quella del vestito, che è la sola che viene loro concessa dal Potere; c’è la bolgia caratterizzata dall’afasia, cioè dalla perdita di capacità espressiva in favore di una nuova lingua tecnica, tanto parlabile quanto arida. Gironi e bolge si susseguono e Pasolini sottolineerà che in essi ogni Modello raschia le coscienze e le plasma a suo piacimento e somiglianza. Gli stili di vita imposti dal Potere penetrano negli individui, nella loro ‘antropologia’, deformandone i corpi e l’espressione. “Il genocidio è compiuto”. Dopo aver raccontato la Visione di Carlo, Pasolini si appresta a descrivere un altro aspetto del Potere, che lo porta a compiere una sua scissione: da un lato troviamo il potere dei consumi, dall’altro troviamo il violento potere dello stato che opera mediante le stragi. Il potere delle trame. Non a caso nel libro scorgiamo riferimenti alle bombe di Milano, di Brescia, di Torino, in cui anche Carlo vi è coinvolto, tanto per citarne alcune.
Quello raccontato da Pier Paolo Pasolini è un potere negativo, in quanto la sua dimensione e la sua logica dovrebbero avere come finalità la protezione della comunità. Il potere, diceva Carl Schmitt, “è ‘buono’ se ne conserva l’esistenza e ‘cattivo’ quando la compromette”. Evidente intenzione del potere è l’appiattimento delle coscienze, l’azzeramento dei valori e per cui, data la negatività con cui è utilizzato, non può che danneggiarci. Possiamo però ancora discernere il suo reale funzionamento. Possiamo fronteggiarlo opponendogli il nostro rifiuto. Nonostante il futuro che ci garantisce la società attuale si presenti imprevedibile, esso deve comunque retroagire come motivazione, quella che ci permetterà di non essere dei meri burattini parcheggiati in un mondo che non ci convoca.

Fonte: www.lintellettualedissidente.it
http://www.informarexresistere.fr/2014/04/14/pier-paolo-pasolini-e-gli-effetti-del-potere-uno-sguardo-a-petrolio/


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Pasolini, dialoghi di formazione

"Le pagine corsare " 
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Pasolini, dialoghi di formazione

di Michele Gulinucci da "il Manifesto" del 20 marzo 1987 


Quando leggiamo una dopo l'altra le lettere di un epistolario, quasi mai le consideriamo per quello che sono: in gran parte delle risposte. Notizie autobiografiche o embrioni d'opera formano una successione che sembra governata dal caso, come se l'autore si fosse trovato a dialogare con le domande di un questionario infinito e capillare, compilato da questa redazione anonima. Nell'intreccio di significati che e', a posteriori, una corrispondenza, l'intervento di un destinatario non puo' che rendere piu' oggettiva la figura del mittente: un po' meno "io monologante" e un po' piu' "autore", insomma. Cosi' l'epistolario puo' diventare davvero immagine del laboratorio. Nel caso di Pasolini, l'impressione di un "lavoro" in atto e' netta fin dalle prime lettere, scritte a diciotto anni. Franco Farolfi prima, e poi gli amici bolognesi della progettata rivista Eredi - fra cui Francesco Leonetti e Roberto Roversi - ricevono missive che registrano le tappe dell'adolescenza sullo stesso ruolino di macia delle lettere e dell'apprendistato poetico. Il tutto con l'accento vitale e allegro di chi, anche nelle more degli "stati d'animo" giovanili, desidera e prepara. Il racconto di una scampagnata notturna sulle colline di Bologna, ad esempio, non tarda a diventare una esercitazione letteraria con tanto di lessico alto e immagini ch si accavallano come visioni: "...ci siamo poi inerpicati sui fianchi delle colline, tra gli sterpi che erano morti e la loro morte pareva viva, abbiamo varacato frutteti e alberi carichi di amarene, e siamo giunti sopra un'alta cima...". Ma la lettera che lo contiene, della primavera del 1941, si chiude bruscamente con la promessa di un piu' agevole resoconto a voce. Stufo di "fare letteratura" , forse, il ragazzo Pasolini gia' si volgeva a colline e alberi veri. La lettura partecipata dei classici accomuna il giovane Pier Paolo alle decine di studenti brillanti che in quegli anni di oscuramento culturale cercano un po' di luce, ma essa risultera' soprattutto - e noi oggi possiamo capirlo anche dalle sue lettere - un inconsapevole cursus non solo letterario, preludio di poesia (e vita) futura. Tanto piu' che, iniziati a Bologna gli studenti universitari, cominciano a susseguirsi le estati a Casarsa, la "patria" materna dove Pasolini fa la scoperta-invenzione della lingua, quella parlata friulana di ca' da l'aga che sara' per piu' di un decennio il nucleo del suo lavoro di poeta. "Quando ho scritto sblanciada da li rosis avevo venti anni.... certo nessun casarese ha detto sblanciada da li rosis, ma come nessun fiorentino ha detto quel rosignol che si soave piange (si parva..). Sono i rapporti tra le parole che il poeta deve inventare. ossia la sintassi. E' la sintassi che deve essere interiorizzata. Quindi la mia sintassi non e' friulana perche' e' mia: ma e' la sintassi friulana che determina la mia...". Cosi' scrive nel 1953, ormai stabilitosi a Roma, all'unico udinese, Lugi Ciceri. Lingua del popolo e ricerca di uno stile formano la materia poetica che segnera', con diverse gradazioni, l'intera opera creativa di Pasolini. Che sia questo il nodo originariio della sua "vocazione", un nodo che stringe forte, e dolorosamente, anche la vita intima e i suoi difficili chiarimenti, lo confermera' lui stesso in un'altra lettera retrospettiva indirizzata a Vittorio Sereni: "Alternavo come succede nell'adolescenza, un'estrema gaiezza, e in me era la foy poetica-religiosa dei provenzali, a estremi sconforti. Niente capacita' oggettivo-realistiche, quindi, il mondo era inconoscibile se non in una figura leggendaria e poetica. Di qui, forse, una certa maggiore validita' della mia poesia friulana in cui l'ambiente era puramente poetico, ma c'era...". Nell'accurata cronologia che precede l'epistolario, e che riporta lunghi brani dei Quaderni rossi, il diario segreto di Pasolini degli anni 46-47, Naldini afferma che le poesie in lingua di quel periodo "pongono la figura del poeta su un grandioso piano confessionale e il mondo umile che gli sta intorno in una prospettiva mitica con forti scorci di vicende reali e simbologie. Le poesie friulane nascono invece on immediatezza, si formano quasi da se'". Sebbene sia stata dimostrata di recente l'importanza della tradizione, soprattutto metrica, nel canzoniere friulano, se ne puo' trarre l'ipotesi che i versi scritti nella "lingua della madre" servissero anche a rendere oggettivi - cioe' riconducibili ad un "sereno" scenario popolare - i tortuosi percorsi psicologici e culturali che nei versi in italiano si caricavano di una piu' evidente letteralita'. Ma e' un discorso che potra' farsi solo quando il vasto ciclo dell'opera poetica di Pasolini sara' offerto in una, ormai necessaria, edizione critica. Anche negli occhi di guerra e durante l'occupazione nazista l'attivismo frenetico di Pasolini non conosce soste. Le iniziative piu' ricche di significato in quel periodo sono la "scuoletta" allestita a Versuta per i ragazzi rimasti senza aule ne' insegnanti, e la costituzione della "Academiuta di lenga furlana" che produrra', tra il '44 e il '47, i cinque numeri dello "Stroligut di ca' da l'aga" piu' le quattro raccolte poetiche pasoliniane che seguono la prima, Poesia a Casarsa. L'impeto pedagogico che lo anima, indagato negli ultimi anni da Andrea Zanzotto e da Enzo Golino, e' testimoniato qui dall'intero carteggio con Gianfranco Contini, il quale ne occupa, come "maestro" il vertice piu' alto, nonche' dalle molte lettere piene d'istruzioni ed esortazioni agli "allievi" Nico Naldini, tonuti Spagnol, Cesare Padovani. Dal parlanti del Friuli ai giovani infelici degli anni settanti, passando per i ragazzi di Roma, la passione pedagogica di Pasolini attinge a una materia, che e' poesia, ideologia, politica. Se questo e' vero, la rilettura del Pasolini comunista, eretico, corsaro - che secondo Franco Fortini e' l'iniziativa critica da privilegiare rispetto a qualsiasi altra chiacchiera su di lui - dovra' iniziare dal "poeta in dialetto", e forse finire con l'estremo ciclo friulano "la meglio gioventu'" scritta nel 1974, che il suo autore reputava non meno corsara degli interventi sul "Corriere della Sera". Torniamo al laboratorio degli anni quaranta. Dopo la morte del fratello Guido, partigiano del Partito d'Azione, Pasolini matura l'adesione al marxismo e nel '47 si iscrive al PCI. Si apre un triennio di militanza durante il quale amplia l'opera in versi e fa lievitare il "romanzo politico" che diventera' il sogno di una cosa. Com'e' nota, alla fine del '49 un processo per atti osceni, manovrato dalla Dc locale, provoca l'espulsione di Pasolini dal partito, la perdita dell'incarico di insegnante, l'abbandono di gran parte degli amici e ammiratori sparsi nella regione, il crollo definitivo della precaria situazione familiare e infine la partenza per Roma, in compagnia della madre, nel gennaio 1950. Pochi mesi prima scriveva a Silvana Mauri: "La mia malattia consiste nel non mutare, mi capisci vero? 'Diventare felici e' dovere' (Gide), questo e' stato l'unico dovere della mia vita, e l'ho compiuto con accanimento, lo strazio e la malavoglia che il 'dovere' comporta". Lo scenario friulano, scomparendo, svela una vitalita' maturata nella solitudine e nel lavoro, una "sapienza di se'" che, non e' felicita', e' pienezza e presenza di un corpo ormai "gettato nella lotta". La corrispondenza con Silvana Mauri, gia' parzialmente nota, ne' da un progressivo e appassionato chiarimento, e cosi' altre lettere scritte nella "stanzetta" di Casarsa, diventata soffocante come il Friuli. Pasolini a Roma e' poverissimo e sradicato: ma l'impatto con l'universo degli emarginati da' vita a una "folgorazione linguistica" che inaugura il secondo tempo della poesia dialettale. Il prepotente imporsi di quella nuova realta' linguistica prima ancora che sociologica, gli consente di arricchire il binomio lingua-stile con un divorante impegnoalla mimesi, cui concorre il suo marxismo anti-istituzionale e una rinnovata "competenza di umilta'" (contini). Le lettere di questo periodo (1950-52) tendono a far dimenticare le sue quasi disperate condizioni materiali: la primavera di Roma sa "di stracci bagnati e seccati al caldo, di ferrivecchi, di scarpate brucianti d'immondizie", mentre l'aria ha un profumo che e' "come un enorme parafango scottato dal sole". Ancora la volta la realta' "unico idolo", crea lo stile, e di questo procedere uno dentro l'altro si trovano tracce rilevanti nelle lettere ai nuovi amici (Leonardo Sciascia, Vittorio Sereni, Carlo Betocchi, Giacinto Spagnoletti), in cui sono testimoniate le fasi preparatorie di "Officina" e l'ultimazione di Ragazzi di vita. La corrispondenza che riguarda l'inserimento di Pasolini nella societa' letteraria - tra le meno interessanti del volume - danno tuttavia l'impressione che, nonostante il prestigio acquisito in poco tempo, egli si trovi ancora ben di qua della data cardine della sua carriera, quel 1955 che gli dara' con l'uscita di Ragazzi di vita, successo e "immagine". Questa prima parte dell'epistolario si ferma al 1954: un modo per dire che "dopo" niente sarebbe stato come prima? 

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