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Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

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lunedì 24 marzo 2014

Dale Zaccaria legge Pasolini - Tratto da Lettere Luterane, frammento di Processo alla DC

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Dale Zaccaria legge Pasolini 
Tratto da Lettere Luterane 
Frammento di Processo alla DC



Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica) dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos. Visto fra l’altro che Nixon è stato salvato da Ford dal processo vero e proprio. Nel banco degli imputati come Papadopulos. E quivi accusati di una quantità sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente (sperando nell’eventualità che, almeno, venga prima o poi celebrato un «processo Russell» finalmente impegnato e non conformistico e trionfalistico com’è di solito):
indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell‘esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.

Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla.


Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999
(“Il Mondo, 28 agosto 1975; poi in Lettere luterane



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

1968: bisogna «gettare il proprio corpo nella lotta» - Odiosamati studenti: un maestro senza allievi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UNIVERSITÀ DEGLI STUDI "ROMA TRE" ROMA 
DOTTORATO DI RICERCA 
IN 
STUDI DI STORIA LETTERARIA E LINGUISTICA ITALIANA 
XXII CICLO 
TESI DI DOTTORATO 
1968-1975:
l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana


Candidato:                                                                                        Docente tutor: 

Andrea Di Berardino                                                 Chiar.Mo Prof. Giuseppe Leonelli 


ANNO ACCADEMICO 2008 / 2009  
ANDREA DBERARDINO 



1. Odiosamati studenti: un maestro senza allievi

Gennaio 1968. Il periodico “Momento” stampa l‟intervento che Pier Paolo Pasolini ha tenuto, qualche mese addietro (17-18 ottobre 1967), alla Casa della Cultura di Milano in occasione dell‟incontro con i ragazzi di Barbiana. Tema del dibattito era stata la figura di don Lorenzo Milani, il sacerdote – scomparso appena pochi mesi prima (26 giugno 1967) – coautore, assieme ai suoi alunni, della Lettera a una professoressa uscita nel maggio del 1967 per i tipi della Libreria Editrice Fiorentina. Nello specifico, lo scritto pasoliniano1 verte proprio sul libello che da un lato puntava l‟indice contro la scuola tradizionale, intesa come istituzione classista e discriminatoria, dall‟altro gettava le basi per una pedagogia alternativa, fondata su una rinnovata concezione dell‟obbligo scolastico.
Già nel breve capoverso d‟apertura la voce di Pasolini dichiara, senza preamboli, l‟argomento e gli interlocutori del proprio intervento: «Io farò una breve storia della lettura della Lettera a una professoressa. I destinatari di questa mia breve storia sono i ragazzi di Barbiana e mi rivolgerò sempre e costantemente a loro»2; dove l‟aggettivo possessivo declinato alla prima persona singolare rivela che l‟articolo, ricorrendo all‟artificio retorico della drammatizzazione, s‟appresta a ripercorrere le tappe del personale confronto con il libro. Superate alcune iniziali riserve di carattere linguistico («ero infastidito dalla eccessiva facilità delle parole, da un certo “neo-pascolianesimo”»3), la Lettera a una professoressa ha palesato così tutta la sua portata, in grado di investire il lettore stupito e di lasciargli «un senso come di vertigine, di libertà»4:

Leggendo però il libro, questa iniziale irritazione si è assolutamente attenuata, finché mi son trovato immerso in uno dei più bei libri che io abbia letto in questi ultimi anni: un libro straordinario, anche per ragioni letterarie. D‟altra parte, c‟è in questo libro una delle definizioni della letteratura più belle che io abbia mai letto, cioè la poesia sarebbe un odio che una volta approfondito e chiarito diventa amore.5

Vestiti quasi su commissione («mi era stato chiesto di fare del libro un esame soprattutto dal punto di vista linguistico»6) i panni del recensore, Pasolini passa poi a paragonare rapidamente il tono della Lettera al registro stilistico di altre opere coeve provenienti dalla medesima area cattolica, cioè gli scritti di Giovanni XXIII e di Paolo VI (in particolare, ma non solo, le due encicliche Pacem in terris e Populorum progressio7). Lo iato che contrassegna il linguaggio dei due pontefici tra le scritture di destinazione privata – il Giornale dell’anima nel caso di Papa Roncalli – e i documenti indirizzati all‟intera cristianità, perlomeno di primo acchito, non pare prerogativa anche della prosa di don Lorenzo Milani e dei suoi studenti: «questa dissociazione, a lettura calda del libro, non si avverte»8. La sincerità del dettato sollecita anzi nel lanciare un ponte in direzione di altre esperienze socio-culturali, lontane nello spazio ma vicine nel tempo:

Ciò che in questo libro mi ha entusiasmato è che è l‟unico caso in Italia, che almeno mi sia capitato sotto gli occhi, in cui ci si trovi a un punto di calore, a un livello, che nel mondo si ha, per esempio, nella nuova sinistra americana, e specificamente newyorchese, o, dall‟altra parte dell‟orbe terracqueo, nella rivoluzione culturale cinese: la stessa forza ideale, assoluta, totale, senza compromessi; ed è questo che nel paese del qualunquismo mi ha riempito di gioia.9

Tuttavia, una volta raggiunta l‟ultima pagina e di conseguenza naturaliter svaporata la suggestione, torna ad accamparsi «qualcuno dei dubbi iniziali»10 nella mente del critico: «quella dissociazione tra una lingua e un‟altra lingua, ossia, tra un contenuto e un altro contenuto, in qualche modo, a libro concluso, riappare»11. La motivazione di queste nuove perplessità va ricercata in un difetto nell‟impianto logico del volume: i giovani autori della Lettera, infatti, hanno omesso di porsi una domanda viceversa fondamentale ai fini della loro «ricerca disinteressata della verità»12, cioè non si sono chiesti «in che cosa consista la cultura della professoressa a cui essi si rivolgono»13. Ora, poiché quella della destinataria dell‟opera è una cultura che rientra nell‟alveo della piccola borghesia di provincia, agli occhi di Pasolini risulta chiara la sua origine:

la cultura della professoressa, la cultura piccolo-borghese, nasce dal mondo contadino: cioè c‟è un primo momento nella fase dell‟industrializzazione, in cui la borghesia dei paesi industrializzati, in Francia e in Inghilterra, cento anni fa, vent‟anni fa in Italia, mantiene come propria moralità, come proprio insieme di schemi morali, la moralità del mondo pre-industriale, cioè del mondo contadino o artigianale.14

Il mancato interrogarsi sulla formazione culturale dell‟interlocutrice designata, pertanto, un po‟ sminuisce l‟efficacia del messaggio del libro, al contrario potenzialmente dirompente:

Questo contenuto ideale violentissimo, addirittura, in certi momenti, meravigliosamente terroristico, dei ragazzi di Barbiana, si immerge però, prende forma, dentro uno schema, che è lo stesso schema della moralità contadina diventata piccolo-borghese della professoressa a cui essi si rivolgono. Voglio dire che il loro contenuto nuovo, pur mantenendo una violentissima carica di novità che entusiasma, riempiendo certi vecchi schemi contadini piccolo-borghesi, perde anche parte della sua esplosività, invecchia leggermente.15

Per non lasciar confinate le obiezioni nel limbo di un‟astratta teoresi (che pure fu rimproverata allo scrittore dalle repliche degli allievi di don Milani presenti al convegno16), l‟intervento pasoliniano cita allora tre esempi rivelatori di questo limite ideologico del volume: innanzitutto, la considerazione dei «tabù sessuali come sola possibilità di progresso»17 (la Lettera propone agli insegnanti «un celibato che duri o tutta la vita, o fino ad un‟età molto avanzata»18), anacronistica dopo la lezione impartita alla società moderna dal saggio di Herbert Marcuse Eros e civiltà (1955); in secondo luogo, «un certo moralismo, massimalistico direi, […] che si rivela soprattutto in certe lettere che i ragazzi scrivono ai loro compagni all‟estero: un certo atteggiamento verso l‟altro sesso»19, in base al quale una ragazza da sposare o con cui fidanzarsi viene significativamente chiamata “figliuola” («con la stessa parola che usavano i loro “babbi”, implicante un certo sadomasochismo»20); infine, «un certo riduttivismo»21, che porta gli alunni di Barbiana ad ignorare ostentatamente un autore del calibro di Gide, oppure a giudicare «bruttissime, quando invece sono bellissime»22 le traduzioni di Vincenzo Monti dell‟Iliade e di Annibal Caro dell‟Eneide. Proprio sull‟ultimo esempio Pasolini si sofferma maggiormente, perché scorge in esso forse il principale fattore di rischio, a causa del quale gli allievi di don Milani potrebbero alla lunga incappare in un vizio tutto italiano:

essi voglion sempre ricondurre il lettore a dei momenti, fatti, situazioni, atti, che siano rigorosamente concreti e pratici; e questo è un certo riduttivismo tipico di quella famosa moralità contadina, diventata poi piccolo-borghese nella fase paleo-industriale, che in Italia dà come prodotto il qualunquismo, parola spaventosa da dire a voi, ma che spero prendiate con intelligenza, con la coscienza completamente aperta.23

In una prospettiva critica costruttiva – come esplicitamente sottolineato dal «voi» che introduce l‟apostrofe di postilla – il punto di vista da cui la Lettera a una professoressa osserva l‟universo della scuola si distacca insomma in maniera sostanziale dalle più aggiornate posizioni della nuova sinistra americana (pure «in parte elencate, nella bibliografia ideale di don Milani»24), che «ha alle sue spalle la cultura di una grande borghesia di una nazione industrializzata da più di un secolo, cioè arrivata ormai a una fase di industrializzazione totale»25. Fatte le debite proporzioni, l‟atteggiamento dei ragazzi di Barbiana ricorda invece più il maoismo, con la basilare differenza che se dietro le guardie rosse di Mao «c‟è tutta una intera nazione contadina, in voi invece c‟è soltanto un momento di una società: il momento contadino»26; ciò equivale a dire, in altri termini, che mentre «la rivoluzione culturale [cinese] è prodotto di una cultura contadina nazionale, […] la vostra rivoluzione, la vostra contestazione è prodotto di un mondo provinciale»27. Ecco, allora, il consiglio con il quale Pasolini si accinge a congedarsi dal suo uditorio, la ricetta per allargare gli orizzonti del movimento di pensiero che ha prodotto la Lettera e proiettarlo in una dimensione meno ristretta:

Secondo me, quello che voi dovete compiere in questo momento è un nuovo passo in avanti di liberazione completa; […] cioè rendervi conto che il mondo contadino da cui provenite è circoscritto, parziale, particolaristico, e voi dovete superarlo in tutti i suoi fenomeni.28

Tradotto nel campo pratico, il suggerimento prende la forma di alcune proposte d‟integrazione agli argomenti del programma sul quale gli studenti chiedono alla professoressa di essere interrogati all‟esame di riparazione (richiesta che chiude l‟opera)29; per quanto la voce pasoliniana, seppur incidentalmente, non manchi di manifestare scetticismo sull‟esito della nuova prova: «io son convinto che vi bocceranno un‟altra volta»30. Tuttavia, sia per mitigare questa infausta previsione sia per scusarsi della «critica violenta»31, del «disordine»32 e dell‟«improvvisazione»33 che hanno contrassegnato le sue parole, lo scrittore termina all‟insegna di una riconferma dell‟empatia per la battaglia intrapresa dalla scuola di Barbiana:

Voglio ora ristabilire l‟equilibrio, mettendo l‟accento sulle cose che ho detto all‟inizio. […] voi sapete che c‟è un motto meraviglioso, della nuova sinistra americana, in cui si dice che bisogna gettare il proprio corpo nella lotta: ebbene fate conto che, invece che a parlare, io sia venuto qui a portare il mio corpo.34

Pronunciato dinanzi ad un nutrito gruppo di allievi di don Milani, La cultura contadina della scuola di Barbiana diviene poi uno dei primi testi a stampa di Pasolini datati 1968. Quasi per una curiosa coincidenza cronologica, quindi, l‟anno che di lì a poco vedrà l‟insorgere della cosiddetta “contestazione” – in Europa e di riflesso anche in Italia – si apre per lo scrittore all‟insegna di un tentativo di dialogo con una piccola parte del mondo studentesco, periferica e all‟epoca tanto negletta dalle istituzioni quanto scarsamente nota all‟opinione pubblica. Pur se con alcuni distinguo, nel complesso l‟intervento esprime un giudizio favorevole ed appoggia la causa di questi alunni di estrazione sociale contadina e provinciale, modulandosi sul registro di una prospettiva critica comunque costruttiva. Tuttavia il confronto con la categoria, già preannunciatosi vivace in alcuni passaggi del testo esaminato, si inasprirà ulteriormente qualche mese più tardi, quando i drammatici fatti di Valle Giulia desteranno la musa poetica pasoliniana – o meglio il «démone»35 – e le detteranno un «rozzo fascio» (sono ancora parole d‟autore36) di versi-requisitoria contro la malcelata anima borghese della protesta. Concepita all‟indomani dei violenti scontri tra studenti universitari e forze dell‟ordine all‟ateneo romano, la poesia – intitolata Il PCI ai giovani!! – è destinata a rimanere famigerata, anche perché di fatto inaugura la stagione conclusiva dell‟esperienza biografica e letteraria di Pasolini, quella più dichiaratamente vissuta sotto il segno dello scandalo e della provocazione.

Una bellissima mattina di precoce primavera – il primo di marzo 1968, a Roma. Quasi per caso: scontri gravissimi tra polizia e studenti universitari sui viali di Valle Giulia. Cariche di camionette, spari di candelotti: le rampe che portano in via Antonio Gramsci, dove ha sede la facoltà di Architettura, furono invase da una battaglia vera e propria. Se ne sparse la notizia in città come di un evento inusitato, cui non c‟era confronto nel passato – ed era vero.
Quella mattina di marzo entrò a buon diritto nella mitologia del Sessantotto.37

Così Enzo Siciliano – in ordine cronologico uno tra i primi biografi di Pasolini – sull‟episodio di contestazione studentesca che forse più degli altri colpì l‟immaginario collettivo italiano in quell‟anno turbolento. A prestare fede alla lettera del testo, Il PCI ai giovani!! fu composta di getto («a caldo», conferma sempre Siciliano38), visto che in due passi della poesia c‟è un indiretto ma chiaro riferimento al momento della scrittura. Innanzitutto nelle battute iniziali, proprio all‟interno della terzina dove la polemica si fa volutamente rovente: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte | coi poliziotti, | io simpatizzavo coi poliziotti!» (vv. 16-18)39; in secondo luogo una pagina più avanti, quando si discute del significato in chiave sociologica degli scontri: «A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento | di lotta di classe» (vv. 51-52)40. Pasolini aveva progettato di fare uscire i versi sulle colonne di “Nuovi Argomenti”, per inserirli nel contesto di una discussione avviata nel numero precedente del periodico, su cui già erano stati presi in esame altri fatti che stavano contrassegnando l‟annata: «La rivista, con uno sforzo critico, cercava di seguire gli avvenimenti: aveva commentato nel primo fascicolo dell‟anno i fatti torinesi [l‟occupazione dell‟università in data 10 gennaio] e le polemiche “culturali” di “Quaderni piacentini”»41. Tuttavia, un piccolo coup de théâthre contribuisce a rendere ancora più esplosivo – semmai ce ne fosse bisogno – il pamphlet:

A metà giugno il settimanale “L‟Espresso”, con un falso titolo redazionale Vi odio, cari studenti, pubblica Il PCI ai giovani!! […].
Destinato alla pubblicazione su “Nuovi Argomenti” questo testo viene «proditoriamente» anticipato sul rotocalco con l‟accompagnamento di commenti intempestivi che inducono a un immediato processo di falsificazione.42

Dato che i versi, oltretutto, escono «trascelti»43 e «non per intero»44, Pasolini se ne risente con il settimanale («la cosa suscitò protesta in Pier Paolo»45). Né si fa attendere, d‟altra parte, la piccata risposta dei rappresentanti del Movimento Studentesco, che si concretizza sia nell‟invito rivolto allo scrittore ad occuparsi piuttosto del maggio parigino, sia nel rifiuto di prendere parte al conseguente dibattito che “L‟Espresso” promuove sulle proprie pagine (e che tra gli altri registrò gli interventi di Vittorio Foa e di Claudio Petruccioli, all‟epoca segretari – rispettivamente – della CGIL e della Federazione Giovanile Comunista)46.
All‟insegna di una logica temporale consapevolmente paradossale, l‟esordio del PCI ai giovani!! denuncia il primo limite della protesta universitaria (vv. 1-4):

È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati…47

L‟unica forma possibile di contestazione dovrebbe risolversi in seno alla sinistra e avrebbe dovuto concretizzarsi con almeno dieci anni di anticipo: le rivendicazioni degli studenti – che nelle parole pasoliniane vengono, per il momento un po‟ cripticamente, designati come «figli» – tradiscono una tempistica sbagliata e un malinteso obiettivo. Questo è uno dei motivi per cui il poeta non si unisce al coro delle lodi con il quale gli organi mediatici di tutto il globo, al contrario, salutano e incensano quasi unanimemente la contestazione (vv. 5-8):

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.48

La scarsa simpatia così dichiarata – mediante una metafora ironicamente scurrile – deriva dalla considerazione distaccata degli attori della rivolta, l‟aspetto esteriore ed il carattere dei quali mostrano tracce che rimandano ad una precisa origine socio-culturale (vv. 9-15):

Avete faccie [sic] di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo-borghesi, amici.49

I «figli di papà», insomma, non sono altro che «piccolo-borghesi», e dunque automaticamente si trasformano in bersagli oggetto degli strali di Pasolini, anche perché risvegliano i sentimenti di odio viscerale nutriti dall‟autore nei confronti della loro classe di appartenenza (vv. 16-19):

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.50

Viceversa, gli agenti delle forze dell‟ordine – che pure incarnano l‟autorità statale, colta nel pieno del suo ruolo repressivo ed autoritario («Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia», v. 44) – provengono dalle fasce sociali più deboli: ecco spiegata la causa che spinge il poeta a parteggiare per i poliziotti. E l‟ulteriore chiosa di questa naturale solidarietà viene affidata al passo successivo (vv. 20-31), dove risuonano armoniche che giungono sia dal romanziere dei ragazzi di vita, sia dal poeta di certi squarci lirico-paesaggistici delle Ceneri di Gramsci (presenti ad esempio nel poemetto La Terra di Lavoro, testo conclusivo della silloge):

Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.51

Mentre i versi seguenti rappresentano un piccolo specimen ante litteram del saggista “corsaro” e “luterano”, quello che – sovente dai rostri della più imprevedibile delle tribune, ovvero il “Corriere della Sera”, tradizionale roccaforte perbenista e benpensante – traccerà impietose analisi antropologiche fondate su una semiologia del viso e del vestiario (vv. 32-43):

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.52

Lo scontro lungo i viali di Valle Giulia, pertanto, ha visto fronteggiarsi “ricchi” e “poveri”, ed ha finito per trasformarsi in un avvenimento emblematico, sotto la cui scorza si possono rintracciare perfino dinamiche tipiche del marxismo (vv. 46-57):

I ragazzi poliziotti,
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.53

Procedendo in questa direzione d‟indagine, Pasolini porta così alla luce il reale significato storico-sociale della battaglia alla facoltà romana di architettura, smascherando – tramite la ripresa della precedente metafora (cfr. vv. 58-59) – la vera anima della protesta studentesca, tutta e solo borghese, nel senso più deteriore del termine (vv. 58-68):

“Popolo” e “Corriere della Sera”, “Newsweek” e “Monde”
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
alla vecchia lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente l’idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese.54

Quella a cui il movimento degli studenti si appresta non è affatto la rivoluzione, tanto sbandierata quanto destinata a rimanere nell‟iperuranio delle fumose utopie, ma la «vecchia lotta intestina» che la borghesia, nel corso della sua storia secolare, periodicamente inscena per fini di mera auto-conservazione. Ecco dunque riproposto l‟eterno conflitto che vede schierarsi i «figli» contro i «padri»: e i primi sono mossi – semplicisticamente – dal desiderio di prendere il posto dei secondi, non dall‟obiettivo di mettere in discussione i ruoli del binomio. Del resto, una piccola spia, che tradisce le intenzioni celate nell‟inconscio dei contestatori, si rinviene nel motto divenuto araldo della protesta, “L’imagination au pouvoir”: «Sì, i vostri slogans vertono sempre | la presa del potere» (vv. 90-91). Di nuovo rivelatrice, a proposito, risulta l‟osservazione attenta dei tratti somatici dei sedicenti ribelli, dalla quale arriva un‟ulteriore conferma (vv. 92-99):

Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia,
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!).55

Soltanto chi si è da poco imborghesito, perché proviene dal mondo operaio o da quello contadino – e nella citazione della scuola di Barbiana probabilmente agisce il ricordo del recente confronto con gli allievi di don Milani –, può in parte salvarsi dalla bramosia di comando, invasiva al punto da incidersi profondamente sulle linee della faccia e sul taglio dello sguardo. I segni marcati di questa smania divorante permettono quindi di delineare i connotati di un preciso identikit (che pure gli «adulatori» della contestazione fanno finta di non vedere): «siete una nuova | specie idealista di qualunquisti come i vostri padri, | come i vostri padri, ancora, figli» (vv. 129-131). Il qualunquismo permea soprattutto le rivendicazioni in cui sfocia la protesta, minata da eccessi di verbalismo e da richieste nella sostanza pleonastiche (vv. 149-157):

Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme,
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici,
e il rinnovamento di un organismo statale.
Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!56

Al contrario sarebbe teoricamente possibile, pur provenendo dalla classe borghese, scrollarsi di dosso le zavorre intellettuali della propria formazione, a patto di essere disposti ad una rinuncia (vv. 121-125):

Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti.
e bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.57

Ma siccome questo percorso di purificazione e di redenzione non viene quasi mai intrapreso dai «figli», al tirar delle somme la loro protesta resta velleitaria. Infatti, senza rendersene conto, essi rifiutano di servirsi dell‟arma potenzialmente più efficace nell‟attacco alle storture e ai privilegi della “vecchia” società (vv. 158-166):

Inebbriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà ad essere servi,
[…]
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.58

Ed è a questo punto che il giudizio pasoliniano chiarisce in che misura la rivolta studentesca sia minata da un equivoco di fondo, consistente nel prendere di mira il bersaglio sbagliato (vv. 171-175):

Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
Andate ad occupare gli uffici
del Comitato Centrale! Andate, andate
ad accamparvi in via delle Botteghe Oscure!59
A chiudere il cerchio lasciato aperto dalle battute iniziali del pamphlet, i versi conclusivi ribadiscono così che la ribellione giovanile dovrebbe indirizzarsi contro il Partito Comunista (vv. 176-181):
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per l’autorità di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri stupidi padri)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.60

Con la pessimistica precisazione – la voce autoriale si affretta ad aggiungere – che ciò non garantirebbe automaticamente la certezza del rinnovamento di cui, da più di un decennio, la sinistra italiana ha tanto bisogno, giacché ormai il virus della borghesia sembra aver in gran parte contagiato anche le membra del corpo del partito, da certi quadri direttivi fino ad alcuni militanti neo-iscritti (vv. 182-186):

Che esso si decida a distruggere, intanto,
ciò che di borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Ad ogni modo: il PCI ai giovani!!61

La lunga poesia-invettiva pare dunque definitivamente suggellata dalle note di un auspicio, eppure in coda al testo c‟è ancora spazio per un‟appendice concepita all‟insegna di una volontà di resipiscenza, insieme inattesa e un po‟ teatralizzata. Dopo una riga interamente coincidente con dei puntini di sospensione, Pasolini inserisce infatti una sorta di excusatio, che si protrae per altri quindici versi e si configura alla maniera di un finale aperto e problematico, tutto filtrato dal punto di vista soggettivo (vv. 187-201):

Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho preso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso!
Mi son fermato appena in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna…
(Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?).62

Il pentimento esibito per essersi calato nei panni del “cattivo maestro” fa poi da pendant all‟altra faccia della medaglia dello scritto, del quale la lirica – o meglio gli “Appunti in versi per una poesia in prosa” (secondo la dicitura del sottotitolo)63 – non è che il recto, poiché il verso del foglio pasoliniano è occupato dalle chiose riunite nel paragrafo Apologia.
In esso, con quel tono da testo all‟apparenza composto currenti calamo (abitudine destinata a trasformarsi in marcatore stilistico per il pubblicista corsaro e luterano degli anni Settanta), vengono partitamente ripresi e chiariti vari passaggi cruciali del PCI ai giovani!!. L‟auto-commento comincia con una domanda retorica che avanza dubbi sul valore letterario del testo poetico e subito motiva le ragioni della presunta inefficacia artistica:

Che cosa sono i “brutti versi” (come presumibilmente questi, de “Il PCI ai giovani!!”)? È fin troppo semplice: i brutti versi sono quelli che non bastano da soli a esprimere ciò che l’autore vuole esprimere: cioè in essi le significazioni sono alterate dalle consignificazioni, e insieme le consignificazioni ottenebrano le significazioni.64
All‟individuazione di questa particolarità dei messaggi veicolati dai versi, tiene dietro una sorta di ritratto, rapidamente scorciato, del loro destinatario ideale:
Allora: i brutti versi sono sì, comprensibili: ma per comprenderli occorre della buona volontà.
Dubito della buona volontà di molti dei lettori di questi brutti versi: anche perché, in molti casi, dovrò prevedere per essi, per così dire, “una cattiva volontà in buona fede”. Cioè una passione politica altrettanto valida della mia, che ha speranze e amarezze, idoli e odii come la mia.65

Si passa così a discutere del movente da cui è sgorgata la vis polemica, focalizzando l‟attenzione sul passo forse più incandescente dell‟intera poesia (e certo quello che maggiormente colpì l‟immaginario del pubblico dell‟epoca):

Sia dunque chiaro che questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti “sdoppiati” cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire, nella fattispecie, una “captatio malevolentiae”. Spero che la cattiva volontà del mio buon lettore “accetti” la provocazione, dato che si tratta di una provocazione a livello simpatetico.66

Viene spiegata pure la terzina esplicitaria, che, racchiusa tra parentesi tonde, si era inarcata lungo un‟interrogativa lasciata senza risposta, a suggerire un dubbio irrisolto nell‟animo della voce poetante:

L’unico brano non provocatorio, anche se detto in tono fatuo, è quello parentetico finale. Qui sì pongo, sia pure attraverso lo schermo ironico e amaro (non potevo convertire di colpo il démone che mi ha frequentato, subito dopo la battaglia di Valle Giulia – e insisto sulla cronologia anche per i non filologi), un problema “vero”: nel futuro si colloca un dilemma: guerra civile o rivoluzione?67

Da qui in avanti inizia la seconda parte delle postille – per dirla con l‟espressione con cui Eco intitolerà la postfazione al Nome della rosa68 – al PCI ai giovani!!, orientata soprattutto all‟esposizione delle ragioni ideologiche sottese al libello in versi: «perché sono stato così provocatorio con gli studenti (tanto che qualche untuoso giornale padronale vi potrebbe speculare)?»69. Una breve retrospettiva porta allora Pasolini a piantare le pietre di paragone atte a misurare la distanza tra la generazione passata e quella dei tardi anni Sessanta, in base alla mutata percezione delle classi sociali da parte dell‟universo giovanile. In primo luogo si apre una finestra sul mondo di ieri, sempre conservando l‟ottica della prima persona (anche se camuffata al plurale):

fino alla mia generazione compresa, i giovani avevano davanti a sé la borghesia come un “oggetto”, un mondo “separato” (separato da loro, perché, naturalmente, parlo dei giovani esclusi: esclusi per un trauma: e prendiamo come trauma tipico quello di Lenin diciannovenne che ha visto il fratello impiccato dalle forze dell’ordine). Potevamo guardare la borghesia, così, oggettivamente, dal di fuori (anche se eravamo orribilmente implicati con essa, storia, scuola, chiesa, angoscia): il modo per guardare oggettivamente la borghesia ci era offerto, secondo uno schema tipico, dallo “sguardo” posato su di essa da ciò che non era borghese: operai o contadini (di quello che si sarebbe poi chiamato Terzo Mondo). Perciò noi, giovani intellettuali di venti o trenta anni fa (e, per privilegio di classe, studenti) potevamo essere antiborghesi anche al di fuori della borghesia: attraverso l’ottica offertaci dalle altre classi sociali.70

Dall‟excursus storico il discorso torna quindi alla dimensione del presente, ossia al tempo in cui il sistema valoriale di matrice borghese si accinge a fagocitare ogni frangente della vita di ciascun individuo, indipendentemente dalla sua estrazione sociale e dalla sua formazione culturale:

Per un giovane di oggi la cosa si pone diversamente: per lui è molto più difficile guardare la borghesia oggettivamente attraverso lo sguardo di un’altra classe sociale. Perché la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai, da una parte, e i contadini ex coloniali dall’altra.
Insomma, attraverso il neocapitalismo, la borghesia sta diventando la condizione umana. Chi è nato in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuori. È finita. Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che vede degli operai e dei contadini: la prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese.71

Una metafora scientifica – presa in prestito dal linguaggio delle leggi fisiche – connota la valutazione pasoliniana sull‟avanzata del processo di imborghesimento. Come insegna il secondo principio della termodinamica, l‟entropia è una trasformazione irreversibile che quantifica il grado di disordine di un sistema: lo sgretolamento di un ordine costituito da secoli porta, quali conseguenze estreme, alla scomparsa della vecchia società divisa nelle tradizionali classi ed alla nascita della caotica era borghese. E l‟autore non nasconde, anzi confessa a chiare lettere il proprio rapporto conflittuale (una sorta di conto aperto che sconfina in questione privata) nei confronti di questa nuova forma di egemonia:

Ora, io, personalmente (la mia privata esclusione, ben più atroce di quella che tocca mettiamo a un negro o a un ebreo, da ragazzo) e pubblicamente (il fascismo e la guerra, con cui ho aperto gli occhi alla vita: quante impiccagioni, quante uncinazioni!) sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico. 72

Dietro la superficie dell‟astio personale, di per sé limitante, si scorge comunque una luce chiaroveggente, che illumina argomentando – nello spazio di un barlume racchiuso tra parentesi – perché non ci sia alcuna speranza da riporre nell‟incipiente età della borghesia in Italia:

Non posso sperare nulla né da essa, in quanto totalità, né da essa in quanto creatrice di anticorpi contro se stessa (come succede nelle entropie. Gli anticorpi che nascono nell’entropia americana hanno vita e ragione di essere solo perché in America ci sono i negri: che hanno per un giovane americano la funzione che hanno avuto per noi ragazzi gli operai e i contadini poveri).73

Il capoverso successivo, mentre prepara il terreno all‟ultima parte dell‟Apologia, si sofferma ancora sul significato della provocazione rivolta agli studenti: «Già i giovani di questa generazione, sono, direi fisicamente, molto più borghesi di noi. Dunque? Non ho diritto di provocarli? In che altro modo mettermi in rapporto con loro, se non così?»74. Surrogato di un vero e proprio dialogo, l‟atto provocatorio rimane quindi l‟unica forma di approccio verso una generazione percepita come irrimediabilmente diversa ed estranea. In ogni caso, data l‟impellente urgenza di rivolgersi ad essa, anche un prodotto che non appare né compiutamente rifinito né artisticamente lavorato può bastare:

Il démone che mi ha tentato è un démone, si sa, pieno di vizi: stavolta ha avuto anche il vizio dell’impazienza e del disamore per quella vecchia opera artigiana che è l’arte; ha fatto un solo rozzo fascio di tutti i campi semantici, rimpiangendo addirittura di non essere anche pragmatico, cioè di abbracciare anche i campi semantici che sono sede delle comunicazioni non linguistiche: presenza fisica e azione…75

Direttamente dalla chiusa dell‟intervento sulla scuola di Barbiana rimbalza qui la suggestione per il linguaggio della presenza fisica, molto più potente e persuasivo della semplice comunicazione verbale scritta: e nella circostanza si affaccia anche una sfumatura di rammarico, per non aver potuto stavolta – secondo quanto affermato durante il convegno milanese – «gettare il proprio corpo nella lotta»76. Questo implicito rimando costituisce il trait d’union con le successive battute delle postille, occupate da un altro profilo della gioventù sessantottesca, rapido eppure tracciato da una penna degna di un socio-antropologo:

Per concludere, dunque, i giovani studenti di oggi, appartengono a una “totalità” (“i campi semantici” su cui essi, sia attraverso la comunicazione linguistica che non-linguistica, si esprimono), sono strettamente unificati e recintati: essi non sono dunque in grado, credo, di capire da soli che, quando si definiscono “piccolo-borghesi” nelle loro autocritiche, commettono un errore elementare quanto inconsapevole: infatti il piccolo-borghese di oggi non ha più nonni contadini: ma bisnonni e forse trisavoli; non ha vissuto un’esperienza anti-borghese rivoluzionaria (operaia) pragmaticamente (e da ciò gli inani brancolamenti alla ricerca dei compagni operai); ha esperimentato, invece, il primo tipo di qualità di vita neocapitalistica, coi problemi dell’industrializzazione totale.77

Sempre sotterraneo alla maniera di un fiume carsico, un altro richiamo alla Cultura contadina della scuola di Barbiana si concretizza poi nell‟accezione di significato profondamente negativa che connota il termine “piccolo-borghese”, come è testimoniato anche da una chiosa aggiuntiva quasi immediata: «Inoltre i giovani di oggi […] non si rendono conto di quanto sia repellente un piccolo-borghese di oggi: e che a un tale modello si stanno conformando sia gli operai […] sia i contadini poveri»78. Dove risuonano le medesime perplessità della conferenza tenuta a Milano, quando in alcuni passi Pasolini aveva messo in guardia gli allievi di don Milani contro i rischi, di conformismo e qualunquismo insieme, ai quali va incontro chi proviene dal mondo contadino ma – spinto e un po‟ accecato dal desiderio di emancipazione – non riesce a superare i limiti della cultura provinciale d‟origine. Subito dopo, le righe conclusive dell‟Apologia ricapitolano e prospettano schematicamente, agli studenti raccolti nei movimenti di contestazione, le tre vie per arrivare «alla coscienza manichea del male borghese»79; a questo livello si può giungere:

a) rianalizzando – al di fuori così della sociologia come dei classici del marxismo – i piccolo-borghesi che essi sono (che noi siamo) oggi.
b) abbandonando la propria autodefinizione ontologica e tautologica di “studenti” e accettando di essere semplicemente degli “intellettuali”.
c) operando l’ultima scelta ancora possibile – alla vigilia della identificazione della storia borghese con la storia umana – in favore di ciò che non è borghese.80

Se la prima strada conduce ad una necessaria auto-consapevolezza preliminare, il secondo gradino consiste nel mettere in discussione i propri ruoli (non più “studenti” ma “intellettuali”), in modo da aprirsi alla terza soluzione, quella però più ardua da conquistare («operazione, questa, estremamente difficile, che implica un’autoanalisi “geniale” di se stessi, al di fuori di ogni convenzione»81): il reciso rifiuto di tutto ciò che nella società moderna è borghese e la conseguente, incondizionata adesione ai valori anti-borghesi.
Il confronto a distanza con il Movimento Studentesco fornisce a Pasolini varie occasioni di intervento, prolungandosi di fatto per tutto il 1968. Tra gli scritti che potrebbero essere presi in considerazione, spiccano due articoli: Anche Marcuse adulatore, pubblicato su “Nuovi Argomenti” in concomitanza con Il PCI ai giovani!!82; La volontà di non essere padre, uscito sulla rivista settimanale “Tempo”, sulle colonne della rubrica Il caos (che lo scrittore tenne a partire dal mese di agosto)83.
Il primo intervento analizza la posizione assunta dal famoso sociologo riguardo alla contestazione giovanile, discutendo in particolare alcune presunte – perché probabilmente strumentalizzate (in nota al titolo si precisa: «Prendo in esame il Marcuse... manipolato dell‟intervista, non quello vero»84) – dichiarazioni marcusiane:

So da una intervista del “Paese Sera” che Marcuse avrebbe definito i giovani studenti “i veri eroi del nostro tempo” (la parola “eroi” è usata in senso positivo, non, per esempio, come potrebbe essere usata a proposito di Hitler o Molotov).
Dunque anche Marcuse è un adulatore? Egli probabilmente aveva voluto dire “protagonisti”, che sono “eroi” in accezione sospesa. Io però direi piuttosto “antagonisti”, poiché i veri protagonisti sono, ancora, i vecchi e i giovani che stanno dalla parte dei vecchi (ossia protagonista è la maggioranza).85

La definizione adulatoria merita una correzione – cioè la momentanea interpretazione dell‟appellativo nel significato neutro e avalutativo – anche per il fatto che i giovani non sono gli stessi in tutto il mondo:

Inoltre va precisato che se è giusto distinguere il problema dei giovani in Occidente dal problema dei giovani in Oriente, mi sembra assolutamente necessario anche distinguere il problema dei giovani in Paesi di cultura anche marxista e il problema dei giovani in Paesi privi di cultura marxista.86

Tenendo in debito conto le diverse tradizioni culturali, si può allora parlare di “eroi” nel senso comune dell‟espressione solo per gli studenti che vivono a certe latitudini (e del resto il vero Marcuse alludeva in particolare ad essi quando li apostrofava così favorevolmente):

Marcuse infatti parla di “eroi” (diciamo “antagonisti”), riferendosi in particolar modo all‟America e alla Germania Occidentale: due Paesi privi di tradizione culturale marxista. E qui la loro funzione antagonistica può essere abbastanza lecitamente qualificata con l‟attribuzione di “eroica”, in senso positivo. Molto meno in Paesi come la Francia e l‟Italia (il Papa stesso ormai ha assimilato nelle sue encicliche la tradizione culturale marxista).87

La prova che più delle altre fa sorgere il sospetto di trovarsi dinanzi ad un‟intervista apocrifa è appunto la mancata distinzione, una svista troppo grossolana per uno studioso di questo calibro: «È proprio l‟atteggiamento e l‟azione politica dei giovani in Francia e in Italia che mostra il fondo “adulatorio” della frase del Marcuse “intervistato” e la sua imprecisione»88. E dopo aver così smascherato il falso, Pasolini coglie anche l‟occasione per riprendere i capisaldi della polemica anti-studentesca già impostata nei versi del PCI ai giovani!! e sviluppata nell‟Apologia in coda alla poesia:

Infatti gli studenti francesi e italiani, mettendo in crisi la cultura marxista tradizionale (a ragione), anziché ricostruirla, progredendo, in sostanza la rifiutano, regredendo. Regredendo su quali posizioni? Su posizioni risorgimentali. L‟analogia tra i moti costituzionali del 1848 e i moti riformistici del 1968 è impressionante. E questo cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro se stessa, che i “figli di papà” si rivoltano contro i “papà”, continuando una tradizione in cui la vera protagonista della storia è la borghesia.89

Non ci può essere alcuna traccia di eroismo in una rivolta che si riduce a meschino conflitto generazionale e che nel contempo bandisce da sé gli intenti realmente e costruttivamente sovversivi:

Ora, la meta degli studenti non è più la Rivoluzione, bensì la Guerra Civile. Ma ripeto, la Guerra Civile è una guerra santa che la borghesia combatte contro se stessa, perché, come dice il vecchio Lukács, essa «non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali».90

Allora la qualifica di “eroi” si attaglia sì ai “figli di papà”, che mettono in scena una finta lotta simile ad una laica sacra rappresentazione, ma solamente in senso ironico:

Quindi, se eroi sono, gli studenti sono eroi di una Guerra Civile, i cui primi episodi si stanno forse ormai combattendo, e che finiranno col perdere: dato che anche una loro vittoria altro non significherebbe che una intelligente e rapida serie di riforme (le Guerre Civili, anche se vinte dai “nostri”, non hanno mai avuto altri risultati). Comunque allora bisogna dirlo ben chiaro: addio Rivoluzione. La storia futura è una storia borghese, grazie ai suoi bravi ed eroici studenti.91

Nel contesto dell‟eterna diatriba tra le diverse generazioni, che Pasolini scorge in filigrana nella protesta studentesca, lo scritto apparso su “Tempo” professa la ricercata estraneità dell‟autore – peraltro già a partire dal titolo – senza indulgere a troppi giri di parole, come testimonia il capoverso incipitario: «Quando osservo, con amore o con avversione, con complicità o con rabbia ecc. ecc. gli studenti del Movimento Studentesco, un sentimento è continuo e certo: la volontà a non volermi considerare loro padre»92. Le ragioni di questo istintivo atteggiamento risiedono innanzitutto nella sfera privata ed equorea dell‟inconscio:

C‟è certamente, in me, una generale volontà a non essere padre (a non assimilarmi cioè a mio padre e ai padri in genere) ecc. E forse c‟è anche una rivalità di padre (padre suo malgrado) contro i figli: che cerca dunque di negare la propria qualità di padre per poter negare i loro diritti di figli.93

Esistono tuttavia altre motivazioni, di carattere non personale quanto piuttosto storico e socio-culturale:

Ma ci sono anche delle ragioni oggettive: ne espongo due: 1) la precocità umana e culturale dei giovani dell‟ultima generazione (che certamente leggeranno con ironia “adulta” queste mie righe ingenue): per cui essi non hanno affatto l‟aria di figli (o, comunque, c‟è anche in essi la sorda, la misteriosa volontà a non essere figli); 2) il fatto che la nuova generazione è nata e si è formata in un‟altra epoca, con interessi e forme di vita così diversi: e di cui, soltanto attraverso il puro e semplice fatto di vivere, essi hanno un‟esperienza che noi non possiamo fare se non dall‟esterno, e come “previsione”.94

Tra le due, ad essere più sviluppata e ad avere maggior peso sul resto dell‟articolo è la seconda spiegazione, nella quale confluiscono sia la constatazione della distanza tra le generazioni sia la consapevolezza di rappresentare lo spirito di un tempo che non c‟è più:

Ora cos‟è che distingue (del resto stupidamente) un padre da un figlio? Il presunto diverso grado di esperienza di un mondo unico. Io, al contrario, come padre, vivo in un mondo (diciamo: il vecchio mondo umanistico, sia pure in crisi, e cosciente della crisi): mentre essi, i figli, vivono in un altro mondo (chiamiamolo post-umanistico, anziché tecnico o tecnologico, o tecnocratico, perché è preferibile, per esattezza, mantenersi sulle generali).95

Con una correzione di tiro forse un po‟ sorprendente, considerata anche la perentorietà del titolo, nel successivo capoverso Pasolini invece “accetta” di ricoprire un ruolo paterno verso le ragazze schierate nei movimenti contestatori:

Di una di queste studentesse tenerine e piene della loro aria di sfida, mi sento proprio padre. Con tutto ciò che di paterno ne consegue: la mancanza di rivalità, la confidenza, l‟affetto, il bisogno (...sia pure paternalistico) di dar loro dei consigli, utili perché inutili, oppure di dir loro (sempre paternalisticamente...): «Andate per la vostra strada: e lasciate, qui indietro questo anziano, a fare i conti coi suoi coetanei e a combattere le sue vecchie battaglie».96

I differenti modi di porsi, oltre a sollecitare richiami di carattere autobiografico e psicanalitico – il senso di sfida e di rivalità nei confronti dei maschi, immagini del padre; l‟affetto viscerale e il dovere di proteggere le femmine indifese, proiezioni della figura materna –, presentano però un tratto comune, che trova conferma nella frase tra virgolette conclusiva dell‟intervento.
La volontà di non essere padre sintetizza infatti il duplice atteggiamento pasoliniano nei confronti della contestazione studentesca: uno sguardo dominato dall‟odio eppure in certi frangenti mitigato dall‟amore. L‟ambiguità si chiarisce alla luce di un terzo stato d‟animo prevalente sugli altri due, ovvero la percezione della propria solitudine di «anziano» che può solo «combattere le sue vecchie battaglie». L‟insopprimibile vocazione pedagogica – che Enzo Golino ha individuato quale filo rosso dell‟intera opera di Pasolini97 – subisce un sostanziale scacco nel momento del confronto con la rivolta sessantottesca. Il vecchio maestro, sulla scorta della secolare tradizione umanistica, denunciava con lungimirante onestà intellettuale tutti i limiti e gli aspetti pretestuosi della lotta studentesca; ma i giovani interlocutori, imbevuti di cultura tecnologica e attratti dalle sirene neo-capitalistiche, rifiutavano sprezzantemente di essere suoi allievi.

1 P. P. PASOLINI, La cultura contadina della scuola di Barbiana, in “Momento”, a. IV, n. 15-16, gennaio 1968. Oggi il testo si legge in ID., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. SITI e S. DE LAUDE (con un saggio di P. BELLOCCHIO; Cronologia a cura di N. NALDINI), Milano, Arnoldo Mondadori (“I Meridiani”), 1999, pp. 830-837.
2 Ivi, p. 830.
3 Ibidem.
4 Ivi, p. 831.
5 Ivi, pp. 830-831.
6 Ivi, p. 831.
7 Pubblicate, rispettivamente, l‟11 aprile 1963 e il 26 marzo 1967.
8 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 832.
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Ivi, pp. 832-833.
14 Ivi, p. 833.
15 Ibidem.
16 Pasolini venne anche tacciato «di fraintendimento del tono del libro» e «di aver invocato a sproposito la categoria della “cultura contadina”»: cfr. ivi, Note e notizie sui testi, cit., p. 1799.
17 Ivi, p. 833.
18 Ivi, pp. 833-834.
19 Ivi, p. 834.
20 Ibidem.
21 Ibidem.
22 Ibidem
23 Ivi, pp. 834-835. 
24 Ivi, p. 833. 
25 Ivi, p. 835. 
26 Ibidem. 
27 Ivi, pp. 835-836. 
28 Ivi, p. 836. 
29 Cfr. ivi, pp. 837. 
30 Ibidem. 
31 Ivi, p. 837. 
32 Ibidem. 
33 Ibidem. 
34 Ibidem. 
35 P. P. PASOLINI, Apologia, in coda a Il PCI ai giovani!!, in ID, Empirismo eretico, prefazione di G. FINK, Milano, Garzanti, 2005 (la prima edizione è del 1972), p. 158. 
36 Ibidem. 
37 E. SICILIANO, Vita di Pasolini, Firenze, Giunti, 1995 (la prima edizione è del 1978, per i tipi dell‟editore milanese Rizzoli), p. 425. 
38 Ibidem. 
39 P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, cit., p. 151. 
40 Ivi, p. 152. 
41 E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., p. 425. 
42 N. NALDINI, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989, p. 322. La poesia pasoliniana comparve sull‟“Espresso” del 16 giugno e quindi su “Nuovi Argomenti” (n.s., n. 10, aprile-giugno 1968). 
43 E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., p. 425. 
44 Ibidem. 
45 Ibidem. 
46 Cfr. F. GRATTAROLA, Pasolini. Una vita violentata, Roma, Coniglio Editore, 2005, p. 227-228. 
47 P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, cit., p. 151. 
48 Ibidem. 
49 Ibidem. 
50 Ibidem. 
51 Ibidem. 
52 Ivi, pp. 151-152.
53 Ivi, p. 152.
54 Ibidem.
55 Ivi, p. 153.
56 Ivi, p. 154
57 Ibidem.
58 Ivi, p. 155.
59 Ibidem.
60 Ibidem.
61 Ibidem.
62 Ivi, pp. 155-156.
63 Ivi, p. 151.
64 Ivi, p. 156.
65 Ibidem.
66 Ibidem.
67 Ivi, pp. 156-157.
68 Lo scritto – denominato appunto Postille al “Nome della rosa” – apparve nel giugno del 1983 sul n. 49 della rivista “Alfabeta”; a partire da questa data, venne inserito stabilmente in appendice alle successive ristampe del romanzo.
69 P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, cit., p. 157.
70 Ibidem.
71 Ivi, pp. 157-158.
72 Ivi, p. 158.
73 Ibidem.
74 Ibidem.
75 Ibidem.
76 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 837.
77 ID., Empirismo eretico, cit., p. 158.
78 Ivi, p. 159.
79 Ibidem.
80 Ibidem.
81 Ibidem.
82 P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, pp. 156-158 (per il testo originale cfr. “Nuovi Argomenti”, n. s., n. 10, aprile-giugno 1968).
83 Ivi, p. 1137-1138 (l‟intervento fu ospitato dal settimanale sul n. 44 del 26 ottobre).
84 Ivi, p. 156.
85 Ibidem.
86 Ibidem.
87 Ibidem.
88 Ivi, p. 157.
89 Ibidem.
90 Ibidem.
91 Ivi, pp. 157-158.
92 Ivi, p. 1137.
93 Ibidem.
94 Ibidem.
95 Ibidem.
96 Ivi, p. 1138.



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana - Introduzione

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UNIVERSITÀ DEGLI STUDI "ROMA TRE" ROMA 
DOTTORATO DI RICERCA 
IN 
STUDI DI STORIA LETTERARIA E LINGUISTICA ITALIANA 

XXII CICLO 

TESI DI DOTTORATO 

1968-1975:

l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana




Candidato:                                                                                        Docente tutor: 

Andrea Di Berardino                                                 Chiar.Mo Prof. Giuseppe Leonelli 


ANNO ACCADEMICO 2008 / 2009  

ANDREA DI BERARDINO 

1968-1975: l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana 


Introduzione



Letteratura come "amor de lonh" 

Tanto vale togliersi subito il dente: dare del "reazionario" a Pier Paolo Pasolini è, insieme, un errore e un‟ingiustizia. Che sia sbagliato lo dimostra la lettera dei testi, nei quali l‟autore sovente respinge con decisione questa qualifica e motiva in maniera persuasiva i perché del suo rifiuto; che sia ingiusto lo testimonia l‟intera carriera culturale pasoliniana, magari a tratti zavorrata da alcune incoerenze di troppo, ma sempre guidata da un‟ideologia spiccatamente e sinceramente progressista. L‟equivoco è nato dall‟interpretazione critica vulgata dell‟ultima stagione dello scrittore-regista, durante la quale egli si impone all‟attenzione dell‟opinione pubblica italiana come giornalista pubblicista facile alla polemica ed isolato nelle proprie posizioni talvolta volutamente provocatorie. Il Pasolini, insomma, degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, le due raccolte in cui confluiscono gli articoli via via apparsi su quotidiani e settimanali a partire dal 1973. Su un quotidiano in particolare scrive quest‟ultimo Pasolini, il "Corriere della Sera": ed è anche a causa della collaborazione con un foglio per tradizione conservatore e borghese che la leggenda metropolitana ha preso corpo.
In realtà, a guardare attentamente il periodo che precede i primi anni Settanta, ci si accorge che il Pasolini polemista corsaro e luterano è già
in nuce almeno dal 1968, cioè da quando apre i battenti la rubrica Il caos, ospitata sul settimanale "Tempo". E non è casuale che per l‟appunto l‟anno della contestazione giovanile si debba ritenere lo spartiacque da cui far cominciare la fase conclusiva della produzione artistica pasoliniana.

A partire dal 1968, infatti, lo scrittore-regista opera un progressivo distacco dalla letteratura considerata in accezione strettamente creativa, e si concentra piuttosto su un‟idea dello scrivere inteso come strumento di azione immediata e concreta nell‟arengo politico-sociale.
Volendo trovare una simbolica formula – che indirettamente si rapporta anche al contesto letterario dell‟epoca – di questa svolta, si potrebbe prendere un passo del giudizio formulato sulla discussa antologia confezionata da Gianfranco Contini per i tipi della Sansoni,
Letteratura dell’Italia unita (1861-1968). Il libro uscì nel mese di maggio del 1968: con perfetta tempestività, Pasolini ne parlò sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel numero di aprile-giugno, in una sorta di recensione intitolata Ah, Italia disunita!. Come tanti altri recensori, lo scrittore-regista manifestava più di una perplessità sul canone avallato dalle scelte, sia inclusive sia esclusive, continiane: il maestro di Domodossola – già benevolo recensore del giovane poeta in lingua friulana – sembrava dare il suo beneplacito solo ad una letteratura di ascendenza fiorentina e cronologicamente ferma al primo Novecento. Non erano, quelle pasoliniane, rimostranze dettate dal risentimento per il trattamento subito – Contini aveva comunque inserito Pasolini tra gli autori, un po‟ a metà tra realismo e fantasia, della cosiddetta "Italie magique" –; erano, al contrario, rilievi da critico che non guardava solamente al proprio orticello di scrittore. Dalla poesia provenzale giungeva lo spunto per il congedo della recensione, in cui si ribadiva e si sintetizzava l‟incomprensione per il modello antologico proposto dall‟illustre studioso: «Contini, mio amor de lonh, che cosa avalli?». Ecco, parafrasando la citazione di Jaufré Rudel che Pasolini fa qui propria, si potrebbe affermare che dal 1968 la letteratura, per lo scrittore-regista, diventa appunto un "amor de lonh". 


In cima alle attenzioni pasoliniane, dall‟
annus mirabilis delle rivolte studentesche in poi, si sistema dunque la saggistica giornalistica, che si accomoda a fianco del cinema e che insieme all‟impegno nella regia riempie un tumultuoso settennio. Peraltro, questa riflessione da polemista cade in coincidenza di una congiuntura storica densa di avvenimenti per l‟Italia, reduce dall‟era del boom economico e in preda a violente tensioni sociali. Così, la vicenda privata di Pasolini s‟interseca continuamente con la quotidianità pubblica, della quale denuncia con onestà intellettuale ed inesausta passione civile i tanti nodi irrisolti.

Per quanto contrassegnata dall‟allontanamento dalla letteratura tout court, questa fase dell‟opera pasoliniana data, a conti fatti, a partire da un testo poetico: la famigerata Il PCI ai giovani!!. Nel pieno delle lotte studentesche, lo scrittore-regista si confronta con franchezza con i giovani contestatori, mettendoli in guardia sui limiti che minano all‟origine le loro rivendicazioni. Il risultato fu che gli studenti ribelli, ben lungi dal voler accettare critiche comunque costruttive, voltarono offesi le spalle ai moniti del poeta; in ciò essi non fecero altro che anticipare di alcuni anni le reazioni – perlopiù appunto piccate o derisorie – dell‟intelligencija italiana di metà anni Settanta alle battaglie portate innanzi dal polemista corsaro e luterano.
Coincide con l‟anno della contestazione la doppia disavventura toccata in sorte a Teorema: da un lato, l‟establishment letterario eresse un muro di silenzio attorno al libro; dall‟altro, la critica cinematografica accolse con freddezza il film. Duplice fu pure lo scontro che lo scrittore-regista inscenò con le rispettive istituzioni accademiche: alla discussa partecipazione allo "Strega", con tanto di ritiro dalla competizione, fece seguito quella, ugualmente burrascosa, alla mostra cinematografica di Venezia. Pasolini protestava per l‟ingerenza dell‟industria culturale nelle logiche del mercato librario; parallelamente, a chi gli rinfacciava l‟incoerenza del mancato ritiro dalla kermesse lagunare, rispondeva invocando la necessità, per un cineasta che non volesse ridursi al mutismo, di sfruttare cinicamente il sistema.
Il biennio 1968-1970 vede protagonista la rubrica significativamente intitolata Il caos, un fronte di resistenza culturale nelle intenzioni dell‟autore. Dalla sua specola, una settimana dopo l‟altra, il Pasolini corsivista di "Tempo" tiene sempre il cannocchiale puntato verso l‟attualità. Sono mesi che raccontano di polemiche sul cinema e sulla rassegna veneziana, di guerra senza quartiere a nuovi e striscianti fenomeni ideologici (come il "fascismo di sinistra"), di odio inveterato contro la borghesia e le sue mille ipocrisie benpensanti, di confronti a distanza con sodali (Moravia, ad esempio) e politici (l‟allora primo ministro Leone), di ripensamenti sui rigurgiti reazionari della società dopo le finte aperture sessantottesche, di riflessione sul consumismo che tutto riesce a fagocitare (perfino la conquista della luna)… 

Il caos s‟interrompe bruscamente all‟inizio del 1970, quando l‟"autunno caldo" continuava a far sentire le sue vampate e il nostro Paese ancora s‟interrogava interdetto sulla strage di piazza Fontana. Pasolini fu tra i più lungimiranti nell‟interpretare la cosiddetta "strategia della tensione", prova ne sia il fatto che la rubrica gli venne revocata quando iniziò a porsi ed a porre certe domande scomode. Allora il polemista smise i panni, chiuse per un po‟ in uno stanzino le sue armi retoriche e dialettiche e lasciò il posto quasi a tempo pieno al metteur en scène della Trilogia della Vita. Fu, inoltre, il tempo dei lunghi e ricorrenti viaggi nel Terzo Mondo, verso le civiltà ancora incontaminate dalla peste consumistica, alla ricerca dei segni ancora intatti del "vecchio mondo", ormai non più riconoscibili nell‟Occidente socialmente ed architettonicamente sfigurato. A fine anni Quaranta, il giovane transfuga friulano, all‟epoca illustre sconosciuto, aveva scelto Roma per rifarsi una vita e nella città aveva incontrato se stesso. Mutatis mutandis, all‟inizio degli anni Settanta, lo scrittore-regista maturo ed affermato scopre la Napoli boccaccesca, miracolosamente rimasta, nonostante lo scorrere dei secoli, fedele allo spirito plebeo della tradizione.
Il resto dell‟Italia, invece, stava mutando orrendamente sotto gli occhi allibiti di chi aveva conosciuto e profondamente amato tutt‟altro Paese. È allora il tempo – siamo oramai alle soglie del 1973 – di riprendere la penna del giornalista e di lanciare il grido d‟allarme sulla metamorfosi antropologica di un intero popolo. Stavolta l‟osservatorio è il quotidiano più prestigioso (per la vox populi) ed insospettabile (per un intellettuale comunista, anche se senza tessera): nientemeno che il "Corriere della Sera". Appaiono così degli scritti che davvero somigliano a veloci incursioni piratesche: la navicella dell‟ingegno pasoliniano alza le vele e batte la bandiera del Jolly Roger per scorrazzare liberamente da un tema all‟altro. I capelli lunghi, il divorzio, la Chiesa, l‟aborto, il genocidio delle culture particolaristiche, l‟omologazione borghese della società, lo "sviluppo" senza "progresso", i golpes veri o presunti, la scomparsa delle lucciole, il nuovo Potere: questi alcuni degli obiettivi delle veloci, pungenti incursioni, spesso condotte a colpi di sciabola contro il complesso delle istituzioni fintamente religiose o democratiche.
Intanto, quasi nel segreto di una camera buia, dal 1972 il romanziere aveva ripreso a scrivere. Vergava appunti, frammenti, cartigli ed accumulava materiali pressoché sconfinati nelle cartelle preparatorie di un libro dal pessimismo senza speranza. Rimasto sostanzialmente allo stadio di making of per cause di forza maggiore, questa sorta di brogliaccio con buona probabilità doveva chiamarsi Petrolio (ma neppure il titolo può dirsi sicuro al 100%): e certo mai denominazione sarebbe stata più calzante per un‟opera intinta nel nero bituminoso del disfacimento morale borghese, dei segreti dietro le stragi di Stato, dell‟imprenditoria senza scrupoli, della gioventù afasica e criminaloide, di una città dalla pianta a forma di svastica, degli effetti ributtanti della liberalizzazione sessuale…
La produzione pubblicistica copre il periodo dal 1973 al 1975, arrestandosi appena pochi giorni prima del dramma all‟Idroscalo di Ostia. Iniziato e per la maggior parte sviluppato sul "Corriere" meneghino, il discorso sul pietoso stato dell‟Italia dell‟epoca conosce dei capitoli anche in altre sedi editoriali: "Paese Sera" e Il Mondo" su tutte. Successivamente, dalle colonne di quotidiani e periodici confluisce nelle pagine di due volumi collettanei, il secondo dei quali, continuum ideologico del primo, pubblicato postumo ma di fatto approntato dall‟autore: Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (1976). Nel passaggio dalle vesti corsare a quelle luterane, si arricchisce il ventaglio tematico: l‟infelicità e la violenza che attanagliano le nuove generazioni, la riscoperta della vocazione pedagogica, l‟urgenza di portare in tribunale i gerarchi democristiani, i guasti prodotti da scuola dell‟obbligo e televisione… Cambia un po‟ anche l‟atteggiamento del polemista, che s‟ispira all‟animus della lettera di Lutero ai principi tedeschi per sollecitare l‟adesione alla Riforma. Non muta, invece (anzi forse si acuisce), l‟isolamento a cui la classe degli intellettuali italiani condanna il reietto Pasolini e le sue tesi bislacche ed utopistiche.
Recto e verso dello stesso folio, gli Scritti corsari e le Lettere luterane reclamano attenzione non solo sui contenuti, ma anche sulla forma. Dal dittico dei volumi si ricava l‟immagine di una prosa accordata al registro formale medio, nella quale tuttavia non mancano sconfinamenti nell‟informale, nel colloquiale, nel parlato vero e proprio: lo testimoniano, ad esempio, l‟uso calcolato dei deittici, le pause che sembrano mimare i ritmi del discorso orale, l‟apparente noncuranza di alcuni costrutti sintattici, la predilezione per le interrogative retoriche. Ma, in assoluto, la cifra stilistica delle due sillogi va probabilmente individuata nella figura dell‟anafora, che sostanzia alcuni dei testi letterariamente più felici: come dimenticare, per citare solo un caso specifico, la sequela percussiva degli «Io so», nell‟articolo che – in versione corsara – s‟intitola Il romanzo delle stragi? Nell‟ottica della Stilkritik – alla quale d‟altronde lo stesso Pasolini ricorreva d‟abitudine – si potrebbe sostenere che l‟anafora sta al binomio Scritti corsari/Lettere luterane come la sineciosi sta alle Ceneri di Gramsci. Infatti, se nella silloge le dittologie spesso vivono in opposizione, tanto che sulla celebre contraddizione tra «il cuore in luce» e «le buie viscere» ruota l‟intera raccolta e fa perno la poetica pasoliniana, i volumi saggistici si nutrono di ripetizioni linguistiche e concettuali talvolta quasi ossessive («Ed eccomi alla solita litania», suona il passo di un articolo). 
Il nome della raccolta di versi più nota, tra tutte quelle composte dallo scrittore-regista, riporta inevitabilmente il discorso sul piano ideologico. A ragion veduta, è stato affermato dagli studiosi che nelle Ceneri di Gramsci c‟è tutto Pasolini. Anche la tarda produzione giornalistica corsara e luterana indirettamente conferma la veridicità di questo giudizio critico. Parlando – per dirla con il Foscolo di In morte del fratello Giovanni – con il «cenere muto» di Gramsci, Pasolini cantava la fine di un‟epoca culturale, ossia il sipario che scendeva sul mito dell‟intellettuale organico (in ciò, il titolo della silloge va preso alla lettera). Un ventennio dopo, gli Scritti corsari e le Lettere luterane rimpiangono esattamente quella storia non vissuta, quella stagione di una letteratura seriamente engagée allora rimasta in votis, quel tempo in cui lo scrittore aveva ancora un pubblico al quale sperare di insegnare qualcosa. Ecco in che consiste la nostalgia che spira, come le note di un epicedio, dai testi del polemista arrabbiato: è il rimpianto per il ruolo tradizionalmente assegnato alla figura dell‟intellettuale, inteso quale vessillifero della cultura e considerato potenzialmente capace di indicare alle masse la strada per cambiare il mondo. Volendo trovare una formula epigrammatica, si potrebbe parlare di "nostalgia dell‟utopia rivoluzionaria".
Il rilancio del sogno gramsciano tentato da Pasolini cade nella congiuntura politica, sociale e culturale peggiore possibile. Infatti, al principio degli anni Settanta, mentre il regime democristiano continuava a spadroneggiare nonostante già cominciassero a venire a galla i primi indizi di un malgoverno ormai trentennale basato sul clientelismo, gli intrallazzi, le collusioni mafiose, all‟opposizione il PCI stava optando per la linea morbida del "compromesso storico". Nel contempo, la società italiana correva dietro sempre più freneticamente alle sirene consumistiche e si avviava a diventare videodipendente e sempre meno interessata alla lettura. Le giovani generazioni, in particolare, erano divorate dall‟ansia di omologarsi al modello esistenziale borghese e avevano individuato nelle merci i loro adorati feticci. Parallelamente, gli scrittori, incuranti della tradizione umanistica, servivano la Folla e voltavano le spalle alla Musa: iniziavano ad avere in testa, quale unico fine, quello di lanciare un libro che incontrasse i gusti del pubblico e riuscisse a vendere vagoni di copie. In un simile panorama, la riflessione impietosa di Pasolini presto si fece, com‟era prevedibile, vox clamantis in deserto.
Oggi, a trentacinque anni di distanza da quei giorni, si può persistere nel ricordare – del resto, lo si faceva già allora – che il Pasolini polemista batte piste vecchie e raffreddate, in una dimensione culturale internazionale: che, in altri termini, la sua vis critica si limita a sdoganare in Italia concetti all‟estero risaputi poiché facenti capo, in ultima analisi, alla speculazione filosofica della scuola di Francoforte. Così come è lecito segnalare che a tratti è la "diversità" il motore immobile delle esternazioni giornalistiche pasoliniane: in alcune circostanze, allo scrittore-regista sembra importare soprattutto di essere personalmente accettato nonostante la sua esperienza di vita. Ma il primo non è poi un grosso 8
limite, visto che in Italia discipline come la sociologia, la semiotica e l‟antropologia storicamente non hanno mai avuto un gran numero di divulgatori autorevoli: anzi, in una prospettiva critica del genere finirebbe per trasformarsi in un merito. Analogamente, per quanto riguarda il secondo rilievo, battersi per l‟accettazione della diversità, anche se muovendo dalla sfera del proprio privato, nell‟Italia dell‟epoca non deve essere stato facile e va riconosciuto, quantomeno, come un atto di coraggio.

Tornando, invece, ad una valutazione di carattere precipuamente letterario, gli antenati dell‟ultimo Pasolini (e magari di tutto Pasolini) vanno forse cercati tra i classici sette-ottocenteschi, ossia nel gruppo degli scrittori-poeti dalla robusta passione civile, portati
naturaliter alla polemica ed all‟indignatio, nutriti da un alto – ma sincero, alieno da pose – senso di responsabilità connesso al proprio ruolo. Vengono in mente giusto un paio di grandi modelli, svettanti tra i vari minori che si potrebbero chiamare in causa: il Parini di alcuni versi del Giorno e delle Odi, il Foscolo di certi passi delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e dei Sepolcri. Il che non significa, ovviamente, che Pier Paolo Pasolini valga quanto loro; è piuttosto il vecchio gioco degli antesignani, delle parentele culturali e ideologiche, pur se alla lontana, che scavalcano i secoli e s‟intravedono lungo la stessa linea di pensiero. Meglio ancora: ad accomunare autori diversissimi – per contesto storico, felicità degli esiti, graduatoria occupata nel canone e tante altre cose – pare soccorrere una condivisa idea della letteratura. A conti fatti, del resto, lo scrittore-regista ha tutta l‟aria di appartenere al club – piuttosto ristretto ed assai poco frequentato dal secondo Novecento italiano – di quegli intellettuali che, ad onta dei dinieghi degli uomini e del destino, non smisero mai di credere nel potere sovversivo delle parole.



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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