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lunedì 24 marzo 2014

l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana - Introduzione

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UNIVERSITÀ DEGLI STUDI "ROMA TRE" ROMA 
DOTTORATO DI RICERCA 
IN 
STUDI DI STORIA LETTERARIA E LINGUISTICA ITALIANA 

XXII CICLO 

TESI DI DOTTORATO 

1968-1975:

l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana




Candidato:                                                                                        Docente tutor: 

Andrea Di Berardino                                                 Chiar.Mo Prof. Giuseppe Leonelli 


ANNO ACCADEMICO 2008 / 2009  

ANDREA DI BERARDINO 

1968-1975: l’ultima stagione pasoliniana, corsara e luterana 


Introduzione



Letteratura come "amor de lonh" 

Tanto vale togliersi subito il dente: dare del "reazionario" a Pier Paolo Pasolini è, insieme, un errore e un‟ingiustizia. Che sia sbagliato lo dimostra la lettera dei testi, nei quali l‟autore sovente respinge con decisione questa qualifica e motiva in maniera persuasiva i perché del suo rifiuto; che sia ingiusto lo testimonia l‟intera carriera culturale pasoliniana, magari a tratti zavorrata da alcune incoerenze di troppo, ma sempre guidata da un‟ideologia spiccatamente e sinceramente progressista. L‟equivoco è nato dall‟interpretazione critica vulgata dell‟ultima stagione dello scrittore-regista, durante la quale egli si impone all‟attenzione dell‟opinione pubblica italiana come giornalista pubblicista facile alla polemica ed isolato nelle proprie posizioni talvolta volutamente provocatorie. Il Pasolini, insomma, degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, le due raccolte in cui confluiscono gli articoli via via apparsi su quotidiani e settimanali a partire dal 1973. Su un quotidiano in particolare scrive quest‟ultimo Pasolini, il "Corriere della Sera": ed è anche a causa della collaborazione con un foglio per tradizione conservatore e borghese che la leggenda metropolitana ha preso corpo.
In realtà, a guardare attentamente il periodo che precede i primi anni Settanta, ci si accorge che il Pasolini polemista corsaro e luterano è già
in nuce almeno dal 1968, cioè da quando apre i battenti la rubrica Il caos, ospitata sul settimanale "Tempo". E non è casuale che per l‟appunto l‟anno della contestazione giovanile si debba ritenere lo spartiacque da cui far cominciare la fase conclusiva della produzione artistica pasoliniana.

A partire dal 1968, infatti, lo scrittore-regista opera un progressivo distacco dalla letteratura considerata in accezione strettamente creativa, e si concentra piuttosto su un‟idea dello scrivere inteso come strumento di azione immediata e concreta nell‟arengo politico-sociale.
Volendo trovare una simbolica formula – che indirettamente si rapporta anche al contesto letterario dell‟epoca – di questa svolta, si potrebbe prendere un passo del giudizio formulato sulla discussa antologia confezionata da Gianfranco Contini per i tipi della Sansoni,
Letteratura dell’Italia unita (1861-1968). Il libro uscì nel mese di maggio del 1968: con perfetta tempestività, Pasolini ne parlò sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel numero di aprile-giugno, in una sorta di recensione intitolata Ah, Italia disunita!. Come tanti altri recensori, lo scrittore-regista manifestava più di una perplessità sul canone avallato dalle scelte, sia inclusive sia esclusive, continiane: il maestro di Domodossola – già benevolo recensore del giovane poeta in lingua friulana – sembrava dare il suo beneplacito solo ad una letteratura di ascendenza fiorentina e cronologicamente ferma al primo Novecento. Non erano, quelle pasoliniane, rimostranze dettate dal risentimento per il trattamento subito – Contini aveva comunque inserito Pasolini tra gli autori, un po‟ a metà tra realismo e fantasia, della cosiddetta "Italie magique" –; erano, al contrario, rilievi da critico che non guardava solamente al proprio orticello di scrittore. Dalla poesia provenzale giungeva lo spunto per il congedo della recensione, in cui si ribadiva e si sintetizzava l‟incomprensione per il modello antologico proposto dall‟illustre studioso: «Contini, mio amor de lonh, che cosa avalli?». Ecco, parafrasando la citazione di Jaufré Rudel che Pasolini fa qui propria, si potrebbe affermare che dal 1968 la letteratura, per lo scrittore-regista, diventa appunto un "amor de lonh". 


In cima alle attenzioni pasoliniane, dall‟
annus mirabilis delle rivolte studentesche in poi, si sistema dunque la saggistica giornalistica, che si accomoda a fianco del cinema e che insieme all‟impegno nella regia riempie un tumultuoso settennio. Peraltro, questa riflessione da polemista cade in coincidenza di una congiuntura storica densa di avvenimenti per l‟Italia, reduce dall‟era del boom economico e in preda a violente tensioni sociali. Così, la vicenda privata di Pasolini s‟interseca continuamente con la quotidianità pubblica, della quale denuncia con onestà intellettuale ed inesausta passione civile i tanti nodi irrisolti.

Per quanto contrassegnata dall‟allontanamento dalla letteratura tout court, questa fase dell‟opera pasoliniana data, a conti fatti, a partire da un testo poetico: la famigerata Il PCI ai giovani!!. Nel pieno delle lotte studentesche, lo scrittore-regista si confronta con franchezza con i giovani contestatori, mettendoli in guardia sui limiti che minano all‟origine le loro rivendicazioni. Il risultato fu che gli studenti ribelli, ben lungi dal voler accettare critiche comunque costruttive, voltarono offesi le spalle ai moniti del poeta; in ciò essi non fecero altro che anticipare di alcuni anni le reazioni – perlopiù appunto piccate o derisorie – dell‟intelligencija italiana di metà anni Settanta alle battaglie portate innanzi dal polemista corsaro e luterano.
Coincide con l‟anno della contestazione la doppia disavventura toccata in sorte a Teorema: da un lato, l‟establishment letterario eresse un muro di silenzio attorno al libro; dall‟altro, la critica cinematografica accolse con freddezza il film. Duplice fu pure lo scontro che lo scrittore-regista inscenò con le rispettive istituzioni accademiche: alla discussa partecipazione allo "Strega", con tanto di ritiro dalla competizione, fece seguito quella, ugualmente burrascosa, alla mostra cinematografica di Venezia. Pasolini protestava per l‟ingerenza dell‟industria culturale nelle logiche del mercato librario; parallelamente, a chi gli rinfacciava l‟incoerenza del mancato ritiro dalla kermesse lagunare, rispondeva invocando la necessità, per un cineasta che non volesse ridursi al mutismo, di sfruttare cinicamente il sistema.
Il biennio 1968-1970 vede protagonista la rubrica significativamente intitolata Il caos, un fronte di resistenza culturale nelle intenzioni dell‟autore. Dalla sua specola, una settimana dopo l‟altra, il Pasolini corsivista di "Tempo" tiene sempre il cannocchiale puntato verso l‟attualità. Sono mesi che raccontano di polemiche sul cinema e sulla rassegna veneziana, di guerra senza quartiere a nuovi e striscianti fenomeni ideologici (come il "fascismo di sinistra"), di odio inveterato contro la borghesia e le sue mille ipocrisie benpensanti, di confronti a distanza con sodali (Moravia, ad esempio) e politici (l‟allora primo ministro Leone), di ripensamenti sui rigurgiti reazionari della società dopo le finte aperture sessantottesche, di riflessione sul consumismo che tutto riesce a fagocitare (perfino la conquista della luna)… 

Il caos s‟interrompe bruscamente all‟inizio del 1970, quando l‟"autunno caldo" continuava a far sentire le sue vampate e il nostro Paese ancora s‟interrogava interdetto sulla strage di piazza Fontana. Pasolini fu tra i più lungimiranti nell‟interpretare la cosiddetta "strategia della tensione", prova ne sia il fatto che la rubrica gli venne revocata quando iniziò a porsi ed a porre certe domande scomode. Allora il polemista smise i panni, chiuse per un po‟ in uno stanzino le sue armi retoriche e dialettiche e lasciò il posto quasi a tempo pieno al metteur en scène della Trilogia della Vita. Fu, inoltre, il tempo dei lunghi e ricorrenti viaggi nel Terzo Mondo, verso le civiltà ancora incontaminate dalla peste consumistica, alla ricerca dei segni ancora intatti del "vecchio mondo", ormai non più riconoscibili nell‟Occidente socialmente ed architettonicamente sfigurato. A fine anni Quaranta, il giovane transfuga friulano, all‟epoca illustre sconosciuto, aveva scelto Roma per rifarsi una vita e nella città aveva incontrato se stesso. Mutatis mutandis, all‟inizio degli anni Settanta, lo scrittore-regista maturo ed affermato scopre la Napoli boccaccesca, miracolosamente rimasta, nonostante lo scorrere dei secoli, fedele allo spirito plebeo della tradizione.
Il resto dell‟Italia, invece, stava mutando orrendamente sotto gli occhi allibiti di chi aveva conosciuto e profondamente amato tutt‟altro Paese. È allora il tempo – siamo oramai alle soglie del 1973 – di riprendere la penna del giornalista e di lanciare il grido d‟allarme sulla metamorfosi antropologica di un intero popolo. Stavolta l‟osservatorio è il quotidiano più prestigioso (per la vox populi) ed insospettabile (per un intellettuale comunista, anche se senza tessera): nientemeno che il "Corriere della Sera". Appaiono così degli scritti che davvero somigliano a veloci incursioni piratesche: la navicella dell‟ingegno pasoliniano alza le vele e batte la bandiera del Jolly Roger per scorrazzare liberamente da un tema all‟altro. I capelli lunghi, il divorzio, la Chiesa, l‟aborto, il genocidio delle culture particolaristiche, l‟omologazione borghese della società, lo "sviluppo" senza "progresso", i golpes veri o presunti, la scomparsa delle lucciole, il nuovo Potere: questi alcuni degli obiettivi delle veloci, pungenti incursioni, spesso condotte a colpi di sciabola contro il complesso delle istituzioni fintamente religiose o democratiche.
Intanto, quasi nel segreto di una camera buia, dal 1972 il romanziere aveva ripreso a scrivere. Vergava appunti, frammenti, cartigli ed accumulava materiali pressoché sconfinati nelle cartelle preparatorie di un libro dal pessimismo senza speranza. Rimasto sostanzialmente allo stadio di making of per cause di forza maggiore, questa sorta di brogliaccio con buona probabilità doveva chiamarsi Petrolio (ma neppure il titolo può dirsi sicuro al 100%): e certo mai denominazione sarebbe stata più calzante per un‟opera intinta nel nero bituminoso del disfacimento morale borghese, dei segreti dietro le stragi di Stato, dell‟imprenditoria senza scrupoli, della gioventù afasica e criminaloide, di una città dalla pianta a forma di svastica, degli effetti ributtanti della liberalizzazione sessuale…
La produzione pubblicistica copre il periodo dal 1973 al 1975, arrestandosi appena pochi giorni prima del dramma all‟Idroscalo di Ostia. Iniziato e per la maggior parte sviluppato sul "Corriere" meneghino, il discorso sul pietoso stato dell‟Italia dell‟epoca conosce dei capitoli anche in altre sedi editoriali: "Paese Sera" e Il Mondo" su tutte. Successivamente, dalle colonne di quotidiani e periodici confluisce nelle pagine di due volumi collettanei, il secondo dei quali, continuum ideologico del primo, pubblicato postumo ma di fatto approntato dall‟autore: Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (1976). Nel passaggio dalle vesti corsare a quelle luterane, si arricchisce il ventaglio tematico: l‟infelicità e la violenza che attanagliano le nuove generazioni, la riscoperta della vocazione pedagogica, l‟urgenza di portare in tribunale i gerarchi democristiani, i guasti prodotti da scuola dell‟obbligo e televisione… Cambia un po‟ anche l‟atteggiamento del polemista, che s‟ispira all‟animus della lettera di Lutero ai principi tedeschi per sollecitare l‟adesione alla Riforma. Non muta, invece (anzi forse si acuisce), l‟isolamento a cui la classe degli intellettuali italiani condanna il reietto Pasolini e le sue tesi bislacche ed utopistiche.
Recto e verso dello stesso folio, gli Scritti corsari e le Lettere luterane reclamano attenzione non solo sui contenuti, ma anche sulla forma. Dal dittico dei volumi si ricava l‟immagine di una prosa accordata al registro formale medio, nella quale tuttavia non mancano sconfinamenti nell‟informale, nel colloquiale, nel parlato vero e proprio: lo testimoniano, ad esempio, l‟uso calcolato dei deittici, le pause che sembrano mimare i ritmi del discorso orale, l‟apparente noncuranza di alcuni costrutti sintattici, la predilezione per le interrogative retoriche. Ma, in assoluto, la cifra stilistica delle due sillogi va probabilmente individuata nella figura dell‟anafora, che sostanzia alcuni dei testi letterariamente più felici: come dimenticare, per citare solo un caso specifico, la sequela percussiva degli «Io so», nell‟articolo che – in versione corsara – s‟intitola Il romanzo delle stragi? Nell‟ottica della Stilkritik – alla quale d‟altronde lo stesso Pasolini ricorreva d‟abitudine – si potrebbe sostenere che l‟anafora sta al binomio Scritti corsari/Lettere luterane come la sineciosi sta alle Ceneri di Gramsci. Infatti, se nella silloge le dittologie spesso vivono in opposizione, tanto che sulla celebre contraddizione tra «il cuore in luce» e «le buie viscere» ruota l‟intera raccolta e fa perno la poetica pasoliniana, i volumi saggistici si nutrono di ripetizioni linguistiche e concettuali talvolta quasi ossessive («Ed eccomi alla solita litania», suona il passo di un articolo). 
Il nome della raccolta di versi più nota, tra tutte quelle composte dallo scrittore-regista, riporta inevitabilmente il discorso sul piano ideologico. A ragion veduta, è stato affermato dagli studiosi che nelle Ceneri di Gramsci c‟è tutto Pasolini. Anche la tarda produzione giornalistica corsara e luterana indirettamente conferma la veridicità di questo giudizio critico. Parlando – per dirla con il Foscolo di In morte del fratello Giovanni – con il «cenere muto» di Gramsci, Pasolini cantava la fine di un‟epoca culturale, ossia il sipario che scendeva sul mito dell‟intellettuale organico (in ciò, il titolo della silloge va preso alla lettera). Un ventennio dopo, gli Scritti corsari e le Lettere luterane rimpiangono esattamente quella storia non vissuta, quella stagione di una letteratura seriamente engagée allora rimasta in votis, quel tempo in cui lo scrittore aveva ancora un pubblico al quale sperare di insegnare qualcosa. Ecco in che consiste la nostalgia che spira, come le note di un epicedio, dai testi del polemista arrabbiato: è il rimpianto per il ruolo tradizionalmente assegnato alla figura dell‟intellettuale, inteso quale vessillifero della cultura e considerato potenzialmente capace di indicare alle masse la strada per cambiare il mondo. Volendo trovare una formula epigrammatica, si potrebbe parlare di "nostalgia dell‟utopia rivoluzionaria".
Il rilancio del sogno gramsciano tentato da Pasolini cade nella congiuntura politica, sociale e culturale peggiore possibile. Infatti, al principio degli anni Settanta, mentre il regime democristiano continuava a spadroneggiare nonostante già cominciassero a venire a galla i primi indizi di un malgoverno ormai trentennale basato sul clientelismo, gli intrallazzi, le collusioni mafiose, all‟opposizione il PCI stava optando per la linea morbida del "compromesso storico". Nel contempo, la società italiana correva dietro sempre più freneticamente alle sirene consumistiche e si avviava a diventare videodipendente e sempre meno interessata alla lettura. Le giovani generazioni, in particolare, erano divorate dall‟ansia di omologarsi al modello esistenziale borghese e avevano individuato nelle merci i loro adorati feticci. Parallelamente, gli scrittori, incuranti della tradizione umanistica, servivano la Folla e voltavano le spalle alla Musa: iniziavano ad avere in testa, quale unico fine, quello di lanciare un libro che incontrasse i gusti del pubblico e riuscisse a vendere vagoni di copie. In un simile panorama, la riflessione impietosa di Pasolini presto si fece, com‟era prevedibile, vox clamantis in deserto.
Oggi, a trentacinque anni di distanza da quei giorni, si può persistere nel ricordare – del resto, lo si faceva già allora – che il Pasolini polemista batte piste vecchie e raffreddate, in una dimensione culturale internazionale: che, in altri termini, la sua vis critica si limita a sdoganare in Italia concetti all‟estero risaputi poiché facenti capo, in ultima analisi, alla speculazione filosofica della scuola di Francoforte. Così come è lecito segnalare che a tratti è la "diversità" il motore immobile delle esternazioni giornalistiche pasoliniane: in alcune circostanze, allo scrittore-regista sembra importare soprattutto di essere personalmente accettato nonostante la sua esperienza di vita. Ma il primo non è poi un grosso 8
limite, visto che in Italia discipline come la sociologia, la semiotica e l‟antropologia storicamente non hanno mai avuto un gran numero di divulgatori autorevoli: anzi, in una prospettiva critica del genere finirebbe per trasformarsi in un merito. Analogamente, per quanto riguarda il secondo rilievo, battersi per l‟accettazione della diversità, anche se muovendo dalla sfera del proprio privato, nell‟Italia dell‟epoca non deve essere stato facile e va riconosciuto, quantomeno, come un atto di coraggio.

Tornando, invece, ad una valutazione di carattere precipuamente letterario, gli antenati dell‟ultimo Pasolini (e magari di tutto Pasolini) vanno forse cercati tra i classici sette-ottocenteschi, ossia nel gruppo degli scrittori-poeti dalla robusta passione civile, portati
naturaliter alla polemica ed all‟indignatio, nutriti da un alto – ma sincero, alieno da pose – senso di responsabilità connesso al proprio ruolo. Vengono in mente giusto un paio di grandi modelli, svettanti tra i vari minori che si potrebbero chiamare in causa: il Parini di alcuni versi del Giorno e delle Odi, il Foscolo di certi passi delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e dei Sepolcri. Il che non significa, ovviamente, che Pier Paolo Pasolini valga quanto loro; è piuttosto il vecchio gioco degli antesignani, delle parentele culturali e ideologiche, pur se alla lontana, che scavalcano i secoli e s‟intravedono lungo la stessa linea di pensiero. Meglio ancora: ad accomunare autori diversissimi – per contesto storico, felicità degli esiti, graduatoria occupata nel canone e tante altre cose – pare soccorrere una condivisa idea della letteratura. A conti fatti, del resto, lo scrittore-regista ha tutta l‟aria di appartenere al club – piuttosto ristretto ed assai poco frequentato dal secondo Novecento italiano – di quegli intellettuali che, ad onta dei dinieghi degli uomini e del destino, non smisero mai di credere nel potere sovversivo delle parole.



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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