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lunedì 17 febbraio 2014

Il rapporto tra cinema e architettura. Seminario di CinemAvvenire alla Mostra del Cinema di Venezia 2010.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Seminario Venezia 2010: Cinema e Architettura

Il rapporto tra cinema e architettura. Seminario di CinemAvvenire alla Mostra del Cinema di Venezia 2010.
{Trascrizione a cura di Valentina Lupi e Luana Roccetti}


Nel seminario di Venezia di due anni fa abbiamo affrontato il tema del rapporto tra identità e diversità e tra tradizione e innovazione nel cinema italiano.
Sono temi che ci interessano particolarmente perché li riteniamo fondamentali per il nostro tempo, attraversato dalla crisi delle identità e dalla perdita delle appartenenze che hanno caratterizzato la cultura e la società nei secoli precedenti.
Questa perdita è nello stesso tempo portatrice di confusione e di caos, di smarrimento di punti di riferimento individuali e collettivi, ma anche di opportunità di cambiamento e di apertura al nuovo. Ha scritto Fredrich Nietzsche: “Bisogna avere un Caos dentro di sé per diventare una stella danzante".
Il Caos contiene infatti dentro di sé i germi del nuovo Kosmos, del nuovo ordine, ma le generazioni che lo attraversano non sono ancora capaci di vederli, per cui devono sforzarsi di interpretare in modo nuovo la realtà (ermeneutica), e di immettere in essa
robuste iniezioni di nuovo senso, un po’ come in fisica bisogna immettere energia in un sistema per invertire la freccia dell’entropia e realizzare nuovo ordine.
Ma a cosa si può far riferimento per questa ricerca di senso, visto che le antiche certezze non possono aiutarci?
Una strada possibile è quella di guardare all’arte e alle intuizioni degli artisti, perché l’arte è spesso stata nella storia capace di leggere in profondità ed in anticipo i processi di trasformazione in atto nei modi di vivere e di essere nel mondo.
E questo l’arte tende a farlo in una dialettica costante tra identità e diversità e tra tradizione e innovazione.
Infatti non c’è opera d’arte senza una tensione dialettica tra sé e altro da sé: tra l’artista e la materia, tra gli opposti che caratterizzano ogni aspetto della realtà e della vita, tra il fruitore e l’opera stessa, tra la tradizione culturale ed artistica e la ricerca di novità, di invenzione, di soluzioni inedite.
Questo vale per tutte le arti e in particolare per il cinema, che è l’arte del nostro tempo e che nel suo linguaggio specifico, l’immagine in movimento, unifica ed integra gli altri linguaggi artistici: dalle arti visive alla musica, dalla letteratura al teatro, dall’architettura alla danza.
Il cinema ha sempre interessato la nostra associazione soprattutto da questo punto di vista, cioè del rapporto tra arte e vita. Diceva Pontecorvo, il nostro Presidente fondatore: “il cinema deve servire a capire di più la vita ed a viverla meglio”, in ciò facendo eco a Rossellini che aveva affermato che “il cinema deve servire a qualcosa” e a Truffaut: “avere un’idea sul cinema significa avere un’idea sul mondo”.
Proprio per approfondire questa nostra idea di cinema abbiamo deciso di avviare qui a Venezia, in questa e nelle prossime edizioni della Mostra del Cinema, alcuni seminari sul rapporto tra il cinema e le altre arti, in collegamento ideale e pratico con le mostre della Biennale. Non è solo un caso che la Biennale di Venezia ed il cinema siano nati nello stesso anno, il 1895, e che proprio la Biennale abbia per prima chiamato il proprio festival del cinema Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
Quest’anno inizieremo con il rapporto tra cinema e architettura, e proseguiremo nei prossimi anni con la pittura, il teatro ed altri linguaggi artistici.

Il rapporto tra il cinema e l’architettura
Sul rapporto tra cinema e architettura è stato scritto molto e l’argomento può essere affrontato da diversi punti di vista. Noi abbiamo deciso di incentrare la nostra riflessione principalmente sul paesaggio urbano nel cinema italiano del dopoguerra, sia per delimitare il campo di
ricerca, sia perché ci sembra un modo più diretto di riflettere sul tema dell’identità che – ripeto – consideriamo un tema essenziale in questo momento storico e nella attuale situazione socio-culturale del nostro paese. Ciò però non ci impedirà di fare anche una riflessione più ampia sul rapporto tra cinema e architettura.
Uno schema utile ad affrontare l’argomento è quello di dividere in due modalità di fondo l’approccio del cinema all’architettura: quello documentario e quello del film di finzione.
Il documentario sull’architettura – ha scritto Antonio Costa – può aiutare a ricostruire la genesi, la funzione ed il significato d’una struttura architettonica” .
Noi vedremo in questo seminario alcuni esempi di documentari e cortometraggi su opere architettoniche, tratti dalle opere vincitrici delle varie sezioni del concorso “Progetto-Soggetto”, organizzato da Media Arch, la rivista dell’Ordine degli architetti di Roma, e a cui CinemAvvenire ha collaborato.
Ha scritto lo storico dell’arte Sergio Bettetini, a proposito del documentario sull’architettura:
Solo la macchina da presa, opportunamente guidata, immergendosi e muovendosi entro la forma architettonica, identificandosi con la legata continuità spazio temporale di quella, può restituirci un’immagine strutturalmente coerente con la forma architettonica stessa: immagine che, a sua volta, quando noi assistiamo alla proiezione, si identifica con l’attuale spazio-tempo del nostro esistere”.
Questa capacità del cinema di “entrare” nell’architettura restituendoci “un’immagine strutturalmente coerente” con la sua forma, mette in luce una caratteristica fondamentale che lega le due forme d’arte.
L’architettura, per se stessa, predispone e programma i percorsi dello sguardo. E cos’altro è la regia cinematografica se non programmazione di uno sguardo spettatoriale?”
Questa affinità strutturale si ripropone nella seconda modalità di approccio tra cinema e architettura: quella del film di finzione, che è quella su cui ci soffermeremo di più perché ci consente una riflessione più approfondita sulle analogie e le differenze tra i due linguaggi artistici e su come le une e le altre possono aiutarci a comprenderli meglio entrambi.
Ha scritto Antonio Costa che “il film narrativo utilizza l’oggetto architettonico allo stesso modo in cui usa qualsiasi altro oggetto già dotato di un proprio significato … culturale, comunicativo, espressivo.” E’ un utilizzo di significati per così dire “di seconda mano”.
Un’opera architettonica all’interno di una sequenza narrativa contribuisce da un lato alla creazione dell’universo diegetico e a definire e circoscrivere lo spazio dell’azione; e dall’altro costituisce inevitabilmente una citazione, attivando significati simbolici che “collegano il senso dell’azione a un significato secondo.”
Per entrambi questi livelli di significato vale quanto hanno scritto Paolo Cherchi Usai e Frank Kessler: “l’architettura diventa oggetto filmico propriamente detto quando la sua presenza corrisponde ad una certa intenzionalità.
Nel film narrativo, al di là delle stesse intenzioni dell’autore, l’oggetto architettonico non può avere una funzione puramente decorativa e scenografica, innanzitutto perché entra a far parte dell’universo narrativo contaminandolo ed essendone a sua volta contaminato; in secondo luogo in quanto contribuisce a condizionare i percorsi dello sguardo dello spettatore; ed infine perché – preesistendo all’atto del filmare – conserva una relativa autonomia e un residuo di significato simbolico che dialoga con gli altri livelli di senso e arricchisce il significato del film.
Una particolarità forte della presenza dell’oggetto architettonico nella narrazione filmica è costituita dal fatto che essa spesso “permette di attivare le funzioni proprie della descrizione letteraria, senza dover necessariamente ricorrere a procedimenti marcatamente descrittivi. A differenza di quanto accade in letteratura, l’istanza descrittiva diffusa che caratterizza il film non richiede una netta separazione tra narrazione e descrizione.”
Ciò rende particolarmente evidente il fatto che, quando il cinema utilizza l’architettura, entrano in gioco inevitabilmente sia il livello documentario (in quanto la m.d.p. non può fare a meno dimostrare aspetti reali dell’oggetto architettonico e dell’intenzionalità dell’autore in esso contenuta); sia il livello finzionale (in quanto l’oggetto entra a far parte, anzi contribuisce a creare, l’universo narrativo). Ma entrambi questi livelli – che possono più o meno essere privilegiati rispettivamente dalla lettura dello spettatore , l’uno relativamente a danno dell’altro – quando l’incontro tra il cinema e l’architettura è particolarmente felice, tendono a confluire ed a fondersi nel livello estetico.
Discuteremo più dettagliatamente di questo più avanti, utilizzando come esempio l’uso assai diverso che è stato fatto dei Sassi di Matera in tanti film.
Ma prima è utile soffermarci su un particolare tipo di rapporto del cinema con l’architettura: quello con lo spazio urbano, con la città.
La città e l’esperienza dello spazio urbano hanno, come è noto, influenzato profondamente l’arte del Novecento.
Ciò vale in modo particolare per il cinema, che è nato “come fenomeno tipicamente urbano” e, come tale, da un lato ha visto particolarmente sviluppata la presenza della città nei film e, dall’altro, ha avuto “la
sua collocazione privilegiata nella forma città”, influenzandone profondamente l’architettura e l’organizzazione dello spazio (sale cinematografiche, teatri di posa, pubblicità dei film, ecc). “Non solo il cinema ha influito profondamente sulle forme di percezione dello spazio urbano …, esso ha costituito anche il veicolo …. attraverso il quale si è imposto nell’immaginario collettivo il mito della città.
Questo è avvenuto, in forme e stili diversi, un po’ in tutti i generi cinematografici, dalla commedia, al musical, dal noir all’horror, fino paradossalmente allo stesso western, il cui mito della “prateria perduta” e della frontiera che avanza è in fondo un mito urbano.
Le avanguardie artistiche del Novecento, in particolare futurismo, surrealismo ed espressionismo, in alcuni passaggi- chiave del loro percorso, sembrano modellati sulle modalità espressive, sulle strutture sintattiche e sulla stessa “mitologia” del cinema, come ha mostrato esaurientemente Antonio Costa. E, viceversa, il cinema è stato ampiamente influenzato dalle poetiche delle stesse avanguardie.
Analizzeremo nei seminari dei prossimi anni questi rapporti riguardo alla pittura e ad altre arti, ma ora è utile almeno qualche accenno su alcuni aspetti che riguardano l’architettura.
Nel film di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa (1929) - che, insieme a Il cameramen di Buster Keaton (film quasi omonimo e contemporaneo, del 1928), rappresenta une classico esempio “di riflessione metalinguistica sul medium cinema e sulla forma-città” - “la sviscerata ammirazione dell’autore per la macchina da presa, la più perfetta espressione della vita moderna, è con evidenza da collegarsi alle teorie e manifestazioni del futurismo, sviluppatosi come è noto anche in URSS, e alle altre avanguardie artistiche dell’epoca” , come il costruttivismo e il produttivismo.
Vertov riesce a cogliere “la vita in flagrante” realizzando uno dei propositi delle avanguardie futuriste, di rinnovare l’arte facendola uscire dal suo stato di separatezza e facendola trasformare profondamente da un nuovo rapporto con la vita contemporanea, e in particolare con i suoi aspetti più moderni, tecnologici, innovativi e carichi di energia cinetica.
E il cinema può fare questo più di ogni altra forma d’arte , sia perché rappresenta naturalmente i fatti e gli oggetti reali della vita contemporanea , sia per lo stesso carattere di modernità tecnologica del suo linguaggio, capace di rappresentare il movimento.
Ma gli esempi più noti e suggestivi dell’influenza delle avanguardie storiche sul rapporto tra il cinema e il paesaggio urbano riguardano il surrealismo e l’espressionismo.
Il surrealismo, paradossalmente rispetto al suo interesse per i processi inconsci, privilegia il metodo di riprendere la città dal vero, come in Un chien andalou di Bunuel-Dalì o A propos de Nice di Jean Vigo (che non a caso ha avuto per operatore Boris Kaufman, fratello di Dziga Vertov). “ […] Il primo grado del pensiero cinematografico – ha scritto Antonin Artaud, il teorico del surrealismo, contro il cinema astratto – mi sembra essere nell’uso di oggetti e forme esistenti a cui si può far dire di tutto, perché le disposizioni della natura sono profonde e realmente infinite
Il cinema espressionista, dal canto suo, polarizza il suo interesse sul tema della città. Esempi particolarmente significativi di questa tendenza sono Metropolis e M il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang.
Il caso di Metropolis (1926), prototipo della moderna fantascienza cinematografica, ma anche … proiezione utopica della città futura, costituisce ancor oggi un termine di paragone delle più ardite “progettazioni” urbane del cinema contemporaneo: dalla Los Angeles di Blade Runner (1982) di Ridley Scott alla Gotham City di Batman e Batman-Il ritorno (1992) di Tim Burton ….”
…. Complementare all’incubo di Metropolis è quello del tutto realista di M il mostro di Düsseldorf (1931), che è una delle più lucide e angosciose rappresentazioni dello spazio urbano come terreno di disumanizzazione e di ferocia”
.
Il cinema espressionista, per motivi di illuminazione, preferisce le riprese in studio rispetto a quelle in esterni, per cui a partire da Il gabinetto del dr. Caligari di Robert Wiene (1920) “veri autori del film furono gli scenografi, pittori espressionisti del gruppo Der Sturm: Walter Reimann, Walter Rohrig ed Hermann Warm”.
E anche quando si lavora in esterni, si utilizzano tecniche di ripresa come quella ideata da Shufftan, direttore della fotografia di Metropolis: “riprendere e fondere nello stesso fotogramma una scena diretta e una scena laterale riflessa da uno specchio parzialmente argentato, inclinato rispetto all’asse ottico” …, ottenendoimmagini notevolmente diverse, per grandezza e movimento, da quelle reali.
Non può sfuggire l’analogia con la pittura di Picasso e di molti altri artisti del ‘900, e con alcune opere dell’architettura moderna e contemporanea, come ad esempio alcune architetture di Fuxas.
Al di là delle influenze delle avanguardie artistiche, il cinema in generale “affronta la città fondamentalmente in due modi, che quasi sempre agiscono in maniera dialettica all’interno della narrazione filmica: da una parte la città è trattata come elemento formale-scenografico; dall’altra è considerata come contenitore sociale, quindi, in sostanza, come luogo rituale”.
Il rapporto quantitativo tra questi due approcci varia da un autore all’altro, da un genere all’altro, da uno stile all’altro.
Nel cinema di Chaplin, ad esempio, la città è un elemento importante, ma da un punto di vista soprattutto sociale. Le case, le strade, i luoghi sono scarsamente connotati, sono spogli, quasi grafici, sostanzialmente gli stessi tra i diversi film; ed assumono un significato simbolico sul piano sociale proprio per questo loro anonimato, che li rende lo sfondo ideale per le gag, gli equivoci e le piccole-grandi storie degli emarginati e degli esclusi.
Nei fim di Buster Keaton, al contrario, lo spazio ha una funzione importantissima e diversa. “Ogni luogo, che sia una nave o una città, come ne Il cameraman, sembra nato per perdersi, più che per muoversi … La città, da teatro in cui si svolge l’azione, diventa spazio di osservazione … e il cinema ce ne restituisce la ‘soggettiva’ del piccolo fotografo divenuto operatore d’attualità per amore …
L’irruzione piena nel cinema della città, nel suo significato sociale ma anche “nella sua totalità e nella sua forza”, avviene con il Neorealismo italiano.
Questo era già vero in Ossessione di Visconti, il primo film ad essere designato come neorealista dal montatore Mario Serandrei. Ma la città entra prepotentemente nel cinema con i film di Rossellini e di De Sica-Zavattini.
Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, Europa ’51 di Rossellini; e Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano e Umberto D di De Sica, rappresentano una vera rivoluzione del linguaggio cinematografico … anche nel modo non solo figurativo di riprendere lo spazio urbano …
Nella Firenze deserta tra i due fronti, sotto la minaccia dagli spari dei cecchini fascisti e nelle macerie pullulanti di vita della Napoli di Paisà, come nell’inquadratura realizzata attraverso i ferri del cemento armato della casa distrutta di Roma città aperta, e nella Roma minore attraversata alla ricerca della bicicletta rubata nel piccolo grande dramma della disoccupazione postbellica in Ladri di biciclette, emerge la città come tessuto sociale, umano e culturale di un racconto che diviene discorso politico, allo stesso tempo specifico e universale.
In quelle città disfatte, fatiscenti, a volte ancora fumanti, si muove il dramma degli uomini e delle donne … Cadono le metafore, le parole non dette, i muri bianchi di gesso, emergono le macerie, che sono le case e le bare degli uomini.
Scriverà Pier Paolo Pasolini, nella poesia “Proiezione al Nuovo di Roma città aperta”, in La religione del mio tempo:
“[…] Ecco la Casilina
Su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini …
ecco l’epico paesaggio neorealista,
con i fili del telegrafo, i selciati, i pini, i muretti scrostati, la mistica folla perduta nel daffare quotidiano, le tetre forme della dominazione nazista […]”

La rivoluzione estetica realizzata dal neorealismo cinematografico, per quanto in forme molto diverse tra i vari autori, influenzò profondamente sia il cinema di vari paesi, sia in particolare la cultura e l’arte italiana, dalla letteratura (Pasolini), al teatro (Eduardo), alla pittura (Guttuso), fino all’architettura (Ridolfi a Terni, il quartiere Tiburtino a Roma, ecc.).
Secondo Leonardo Benevolo (in Storia dell’architettura moderna) e Vittorio Gregotti (in Orientamenti nuovi dell’architettura italiana), “nel clima della ricostruzione italiana gli architetti provano la sensazione di aver ripreso contatto con la realtà, di vedere con occhi nuovi”.
C’è in comune con il neorealismo cinematografico “il desiderio di aderire alla realtà quotidiana, concreta, circostanziata, con preferenza per le forme popolaresche e dialettali, l’interesse circoscritto all’ambiente prossimo, il rifiuto per le astrazioni e gli esotismi …”, ma, “mentre il cinema, con l’immediatezza che gli è consentita, registra immediatamente il labile ma genuino accento di quel periodo, l’architettura lo riceve di rimbalzo, in forma già riflessa e convenzionale, e scivola più facilmente dal popolare al folkloristico, dalla spontaneità all’artificio.”
Il neorealismo, come accenna Benevolo, nel suo accento più genuino e convincente durò una brevissima stagione, ma lasciò – nel bene e nel male – influssi profondi nel cinema successivo e nella cultura italiana in generale.
Noi abbiamo scelto per il nostro seminario due film, Rocco e i suoi fratelli (1960) e Mamma Roma (1962) di un decennio successivo al periodo d’oro del neorealismo e di due autori, Visconti e Pasolini, profondamente segnati dalla sensibilità neorealista, ma aperti ad altre suggestioni culturali ed artistiche.

Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti.
Il neorealismo di Visconti è profondamente influenzato dalla sua cultura letteraria e dalla sua sensibilità teatrale e melodrammatica e si rifà consapevolmente al verismo di Verga, e in particolare a I Malavoglia, che aveva rappresentato direttamente ne La terra trema e che intendeva idealmente proseguire in Rocco e i suoi fratelli.
Un film nasce da una condizione generale di cultura” – ha scritto Visconti in Oltre il fato dei Malavoglia. - “Non potevo partire, volendomi accostare alla tematica meridionale, che dal più alto livello artistico raggiunto sulla base di tale contenuto: da Verga … .Il tema della sconfitta, dell’irrisione, da parte della società, dei più generosi impulsi individuali, è un tema moderno quant’altri mai …” Verga però si arrestava ad un “modo estetico e compiaciuto che io non esito a definire asociale, anzi, antisociale … il mio tentativo è stato quello di estrarre dalle radici stesse del metodo verghiano le ragioni … della sconfitta nel quadro delle difficoltà imposte dall’ordine costituito … Il finale di Rocco è riuscito un finale simbolico, direi emblematico delle mie convinzioni meridionaliste: il fratello operaio parla col piccolo della famiglia d’una visione futura del suo paese che raffigura quella idealmente unitaria del pensiero di Antonio Gramsci.”

Ma, nonostante queste affermazioni e queste intenzioni, il realismo di Visconti è un realismo essenzialmente tragico, vicino allo spirito verghiano e al pessimismo del ciclo dei I vinti, in cui gli accenti ottimistici e di speranza nel cambiamento – quando ci sono, come nelle parole di Ciro, il fratello operaio, nel finale di Rocco - sono più ideologici che realmente convinti e, del messaggio gramsciano cui egli dice di ispirarsi, prevale ampiamente il “pessimismo dell’intelligenza” rispetto all’ “ottimismo della volontà”.
Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse. Il cinema che mi interessa è un cinema antropomorfico … - aveva scritto Luchino Visconti nel ’49 sulla rivista Sequenze e ha ribadito, parola per parola, in un’intervista parlando di Rocco e i suoi fratelli.” E, nella stessa intervista, ha raccontato che, prima di affrontare la sceneggiatura, ha fatto vari sopralluoghi a Milano “per attingere dalla carne viva della città alcuni elementi e identificare gli ambienti, i luoghi (la periferia dai grandi casoni grigi, Roserio, la Ghisolfa, Porta Ticinese, ecc.), in cui avrebbero vissuto i miei personaggi”.
“Nel cinema
 di Visconti la città è sfruttata in funzione eminentemente teatrale, l’architettura urbana è vista come sfondo a carattere drammatico …”
Ha testimoniato Mario Garbuglia, lo scenografo di Rocco e i suoi fratelli: “Nessuno si è accorto che nel finale la casa di lui che dà sul cortile è ispirata non tanto alla realtà dei cortili milanesi, che hanno le ringhiere, ma soprattutto all’idea di avere un coro, come nel teatro greco, per la tragedia che si svolgeva al primo piano. Eravamo arrivati a riportare questa storia “attuale”, “moderna”, alla tragedia greca.
“La Milano di Rocco è violenta, così come appariva agli emigrati meridionali in quel periodo. I luoghi come il Duomo, l’Idroscalo [che, per un conflitto politico-burocratico con il presidente della Provincia di Milano Casati, fu girato vicino a Latina, nel lago di Fogliano ], sono archetipi di un paesaggio immobile, indifferente al dramma, come in tutta la tragedia classica.”
“Ma – ha scritto Lino Micciché – per quanto abbia accenti da tragedia classica e turgori da saga familiare romanzesca, Rocco e i suoi fratelli è soprattutto un possente melodramma.”

Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini
Solo due anni più tardi, nel 1962, Pier Paolo Pasolini gira Mamma Roma.
La città assume un ruolo drammatico nuovo nell’opera del poeta-regista. Il luogo dell’azione nei suoi film “ha una funzione non soltanto stilistica, ma anche di vera e propria struttura narrativa; nel luogo è già contenuto il discorso”.
Così scrive il poeta-regista:
“Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini e sulle Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro, per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine,
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età sepolta […]”


“La città vista in lontananza. La borgata come luogo invalicabile. La borgata-città è madre del dramma, i personaggi sono come generati dall’agglomerato urbano e da esso re inghiottiti. La città è luogo astorico.”
O meglio, luogo “dopo storico”, che anticipa la fine della Storia, non nel senso ottimistico dell’utopia raggiunta, ma al contrario nel senso pessimistico del trionfo dell’omologazione che annienta le differenze culturali , con esse, ogni dialettica ed ogni movimento progressivo.
“Nel cinema di Pasolini prevale il concetto di sfondo su quello di paesaggio. La città … non ha mai una funzione paesaggistica, ma funge da controcanto ai personaggi.”
Ha scritto Pasolini in Filmcritica:
“[ …] Nessuna mia inquadratura può cominciare con il “campo”, ossia con il paesaggio vuoto. Ci sarà sempre anche se piccolissimo il personaggio. Piccolissimo, per un istante, perché grido subito al fedele Delli Colli di mettere il settantacinque, e allora giungo alla figura: una faccia, un dettaglio,. E dietro lo sfondo: lo sfondo, non il paesaggio.”

Il viadotto in costruzione che fa da sfondo al vagare senza meta apparente di Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini, i palazzi della zona Don Bosco ne La ricotta, luoghi dove la città si innesta nella campagna,; così come la stessa zona don Bosco del nuovo quartiere di Cinecittà e i campi circostanti in cui si stagliano schegge di ruderi romani (“l’orlo estremo di qualche età sepolta”…) in Mamma Roma, testimoniano come la città assuma anche caratteristiche simboliche.
Vedete, la realtà parla ….. Qui, vedete, è un luogo del terzo mondo, Roma è una città preindustriale: la gente vive come nel mondo preindustriale, come in Africa, al Cairo, ad Algeri, o a Bombay [ ….], ha dichiarato Pasolini alla televisione francese.
E ha scritto ne La religione del mo tempo:
“Luoghi sconfinati dove credi
Che la città finisce, e dove invece
Ricomincia, nemica ricomincia
Per migliaia di volte”


Luoghi che testimoniano una realtà urbana e sociale in cui la cultura sottoproletaria è in via di disgregazione e dove si perpetua il “genocidio” culturale contro il sottoproletariato urbano.
Ma, nonostante la tragicità della storia che cammina verso la sua fine, nonostante il senso di morte incombente e il dolore di sentirsi un sopravvissuto di qualche civiltà sepolta che osserva “i primi atti della Dopostoria”, le strade e gli spazi urbani della periferia romana da terzo mondo sono luoghi di “incroci di storie, di vite di uomini che aspettano ancora qualche miracolo” , come le marionette nella discarica di Che cosa sono le nuvole, o i due sottoproletari di Uccellacci e uccellini, o la prostituta - madre di Mamma Roma.

E’ un miracolo del tutto “umano, troppo umano”, la cui attesa e la cui speranza si avverte anche là
dove sembra che si parli del divino, e invece è sempre dell’uomo che si parla, e delle sue potenzialità straordinarie, come ne Il Vangelo secondo Matteo e negli spazi urbani e nelle campagne di una Palestina ambientati tra i Sassi di Matera e nel sud d’Italia.
Ed è proprio con una riflessione su questo film e sulla sua ambientazione tra i Sassi di Matera che mi piace concludere il mio intervento in questo seminario, perché mi permette di esprimere meglio il mio pensiero sul rapporto tra cinema e architettura.

Qualche anno fa, quando Mel Gibson ha utilizzato di nuovo i Sassi di Matera come scenografia di Gerusalemme nel suo discusso film The Passion, si è riaperto un dibattito che dura da tempo - vista la quantità di film girati a Matera e nei Sassi (25, per l’esattezza) - sul rapporto tra il cinema e i famosi quartieri materani.
Tra gli architetti, in questo dibattito, La linea di fondo che emerge “è quella che lamenta un uso scenografico dei Sassi, lontano dal loro significato storico e sociale e, soprattutto, dalla loro concreta esistenza attuale, dalle loro possibilità di riuso e dal loro destino futuro.”
Amerigo Restucci, famoso professore meridionale di Architettura che è stato (è?) anche Consigliere della Biennale, ha espresso questa posizione nel suo libro Matera, i Sassi (Einaudi, Torino, 1991), rammaricandoci che "… gli stessi storici rioni vengano sempre di più letti come una scenografia, ora tragica ora pretestuosa … adattabile alle varie esigenze …", in una "arcaica e atemporale atmosfera, magica nella sua surrealtà"; e che sia "… l’allontanamento dalla condizione reale quella mostrata dalle immagini dei Sassi scelti con insistita regolarità da molti registi".
Altri autori, come Raffaele Giura Longo, hanno denunciato "i rischi di una riduzione dei Sassi a mero feticcio" . E, analizzando l’origine della parola "feticcio", ne ha sottolineato "il significato di ’sintesi fittizia’", quando si assume "un oggetto in sostituzione del tutto"… Di "rappresentazione iconica", di "sostituto della realtà", di "separazione fittizia di una parte dal tutto", di "oggetto paradossale", che ci illude "della possibilità di meglio percepire sinteticamente un oggetto", mentre "in verità lo nasconde o ce ne dà una rappresentazione distorta e, nel migliore dei casi, soltanto parziale".
Se queste posizioni degli architetti sono condivisibili da un punto di vista urbanistico e socio-economico, “la semplice trasposizione diretta di questi concetti nel campo della riflessione estetica e semiotica del cinema presenta invece qualche difficoltà. … proprio per gli elementi costitutivi stessi del linguaggio cinematografico ….”

“… Che cosa è infatti il cinema se non ‘rappresentazione iconica’ e ‘sostituto della realtà’, ‘separazione fittizia di una parte dal tutto’, ‘sintesi fittizia’ per cui ‘si assume un oggetto in sostituzione di un altro’”?
L’immagine fotografica, che riproduce analogicamente gli oggetti reali, è in se stessa ‘rappresentazione iconica’ e ‘sostituto della realtà’. E ancor più lo è quella cinematografica, che riproduce anche il movimento attraverso "l’illusione ottica", o meglio "mentale", di immagini fisse che scorrono alla velocità di 24 fotogrammi al secondo.
Per quanto riguarda la "separazione fittizia di una parte dal tutto", per la "sintesi fittizia" e l’assunzione di "un oggetto in sostituzione del tutto", basta ricordare che iI linguaggio cinematografico è insieme intrinsecamente metonimico e metaforico, come ha dimostrato Christian Metz.
“Metonimico perché esso si esprime attraverso sequenze di inquadrature che si susseguono, si affiancano, si giustappongono l’una dopo l’altra; e soprattutto ci appaiono parziali rispetto alla realtà raffigurata (l’inquadratura presuppone il "fuori campo" e i primi piani "fanno a pezzi" la realtà), richiedendo un lavoro mentale per la loro ricomposizione.
E il carattere metaforico del linguaggio cinematografico appare con evidenza non solo quando è usato volutamente, come in alcune dissolvenze incrociate ch “sovrappongono” oggetti o persone formando concetti; ma anche “più in generale, si può dire che ogni singola immagine del cinema è in qualche modo una metafora del reale, perché in ogni inquadratura e in ogni sequenza vengono compiute delle scelte, che modificano e "sintetizzano" lo spazio e il tempo della realtà, caricando le immagini inevitabilmente di significati ulteriori, che attengono allo "sguardo" dell’autore e alle esigenze espressive del suo mondo interno ….
Tutto ciò esprime chiaramente il carattere di “sintesi fittizia” del cinema, di “feticcio”, per usare le parole dell’architetto Giura Longo.
E, se a questo si aggiungono le caratteristiche peculiari della narrazione – che non sono specifiche del cinema ma riguardano la maggior parte delle sue opere – e la tendenza inevitabile del processo narrativo a scegliere parti della storia e della cronaca e a organizzarle in una struttura che tende ad estrarre un senso dalla molteplicità del reale, il cinema appare chiaramente come "oggetto paradossale", che fa della "mancanza", del "limite", sia d’ordine "ideologico" che "pratico", la condizione per creare nuovi mondi.
Tornando più da vicino all’architettura, è un elemento costitutivo dell’arte cinematografica il fatto che "spesso, quando il cinema riprende l’architettura, ’la fa letteralmente a pezzi’, cioè preleva (decontestualizza) e rimonta (ricontestualizza), secondo le proprie esigenze, frammenti più o meno significativi di forme architettoniche", ha scritto Antonio Costa. .
È proprio attraverso questo processo – ha aggiunto Marco Bertozzi - che il cinema è diventato il "Nostro Grande Costruttore Quotidiano" e "ha edificato immaginifiche appartenenze ad ambienti, cattedrali, galassie mai abitate sino ad allora" , con una disinvoltura storica, filologica e combinatoria che lo rendono oggettivamente vicino alle poetiche e alle ideologie del post-moderno.
Ma, come ho accennato all’inizio, ogni oggetto ripreso dal cinema è utilizzato come oggetto “di seconda mano” e perciò conserva un’eccedenza di significato autonomo rispetto all’universo narrativo che può assumere valore simbolico, più o meno intenzionalmente da parte dell’autore. E questo vale ancora di più per “l’oggetto architettonico”, a causa della sua riconoscibilità storica e stilistica e per “l’intenzionalità” dell’autore che contiene ed esprime.
A volte questo significato residuo rimane tale e si avverte una stonatura di stile, un’eccedenza ingombrante e fastidiosa.
Ma quando “questo significato irriducibilmente altro dialoga con l’universo diegetico del film, si può determinare un arricchimento reciproco tra il film e l’oggetto architettonico che coinvolge la forma ed il senso di entrambi ….
… È proprio quello che è accaduto – secondo me - nell’uso dei Sassi di Matera che Pasolini ha fatto per Il Vangelo secondo Matteo.
Da un certo punto di vista, non potrebbe esserci tradimento maggiore dell’architettura dei Sassi, che viene stravolta sul piano dello spazio e del tempo, "trasportandola" dal Sud d’Italia alla Palestina e retrodatandola di duemila anni rispetto a oggi e di circa mille rispetto alla sua nascita come quartiere.
Ma nello stesso tempo accade un duplice "miracolo".
Da un lato questo oggetto architettonico si rivela perfettamente funzionale all’universo diegetico del film, dandoci una Gerusalemme "credibile" come forse mai prima di allora.
Dall’altro, l’eccedenza irriducibile di significato, propria delle forme e degli stili dei diversi edifici dei Sassi, risultato di una trasformazione continua durata vari secoli, dialoga con l’universo diegetico, arricchendo il Vangelo pasoliniano di un senso ulteriore. Facendone cioè un racconto fedele al testo evangelico, ma profondamente umano e terreno, radicato concretamente nella realtà e quasi privo di una dimensione escatologica; e nello stesso tempo capace di alludere alla "divinità" dell’uomo, alle sue potenzialità spirituali, "al di là" dello spazio e del tempo della storia.”
Ma è interessante anche domandarci se, nel rapporto con il film, all’oggetto architettonico, cioè ai Sassi, avviene qualcosa di reciproco.
“Si potrebbe rispondere di sì. E non tanto per il fatto che essi si sono arricchiti di un significato ulteriore, entrando a far parte del nostro immaginario collettivo come paesaggio evangelico e biblico, come dimostrano gli altri film sull’argomento che hanno cercato in essi la loro ambientazione, da King David di Bruce Beresford al recente The Passion di Mel Gibson. Quanto e soprattutto perché la "contaminazione" pasoliniana, che secondo alcuni ha rischiato di condannare i Sassi a una dimensione al di fuori della storia, ha forse favorito l’uscita dallo stereotipo di "monumento alla civiltà contadina", portando alla luce il loro "polisemismo" e la loro dimensione umana più universale.”
E non è fuori luogo pensare che, nel processo di riuso-risanamento e di recupero dei Sassi a fini residenziali possa dare un contributo significativo il particolare livello di senso messo in luce dall’uso cinematografici della loro architettura, non solo da parte di Pasolini, ma anche da altri registi e da altri film: da C’era una volta, di Francesco Rosi, ad Allonsanfan e Il sole anche di notte dei fratelli Taviani, a L’albero di Guernica di Fernando Arrabal, fino a L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore ed altri ancora.
Si può pensare ad esempio che – e qui mi avventuro in un campo che è proprio degli architetti e degli urbanisti – se grazie anche a questo percorso estetico di estensione di senso “il processo di riuso-risanamento che è in corso non oscurerà elementi e aspetti dell’anima polisemica dei Sassi, che si è andata stratificando nei secoli con una sapiente e continua opera di intreccio tra scavo e costruzione; ma al contrario li riporterà alla luce, li valorizzerà e aggiungerà ad essi ulteriori elementi di senso propri della nostra epoca – evitando però la omologazione e l’appiattimento che essa porta anche con sé – i Sassi potranno riprendere in pieno la loro vita, senza diventare solo un mercato o un quartiere notturno e senza rinunciare alla loro anima.”
“Architettura e cinema, dunque, sembrano stimolarsi al meglio quando l’una risulta espressamente funzionale all’altro, ‘pur conservando entrambi un residuo semantico … che conferma il loro carattere polisemico’.” In altre parole, il rapporto tra le due arti "risulta felice quando arricchisce il testo di arrivo, l’opera film, consegnando a nuova luce anche il testo di partenza, le architetture rappresentate".
Mi piace allora concludere con una domanda. In quale direzione è auspicabile che cammini questo rapporto fecondo di nuovo senso per entrambe le arti?
Pur considerando la loro profonda diversità, non solo nella materia su cui agiscono ma anche nei bisogni a cui rispondono, non è forse auspicabile che entrambi dialoghino e collaborino alla creazione di nuovi mondi possibili e all’arricchimento di senso complessivo per l’avventura dell’esistenza umana?.



BIBLIOGRAFIA
A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002
B. Antonella Licata ed Elisa Mariani – Travi, La città e il cinema, Ed. Testo&immagine, Torino, 2000
C. M. Calanca, Cinema, territorio e architettura. I sassi di Matera e la Settima Arte, in Siti 0/2 , rivista dell’ordine degli Architetti di Matera, n. 2, giugno 2003; ora in www.cinemavvenire.it.
D. AA.VV., Rocco e i suoi fratelli. Storia di un capolavoro, Minimum Fax, Roma, 2010.
E. Marco Bertozzi (a cura di), Il cinema, l’architettura, la città, Editrice Librerie Dedalo, Roma, 2001.

La foto dei Sassi di Matera è di Giovanna Gammarota, 2006.

Fonte:
http://www.cinemavvenire.it/seminari/cinema-e-architettura


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Teorema, recensione di Vincenzo Patanè

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


pasolini-pischedda
 
 
Teorema, recensione di Vincenzo Patanè
Edito originariamente in "A qualcuno piace gay" (La libreria di Babilonia, 1995).

Teorema fu a suo tempo fonte di scandalo e di inesauribili polemiche, sfociate addirittura in un processo al regista. A distanza di quasi trent'anni, di questa forza scandalosa rimane poco o nulla, ed il film appare forse un po' datato, legato com'è a concezioni marxiste-cattoliche che hanno perso un po' della loro forza.
E' comunque un film magnifico e seducente che, dietro la sua simbologia ed al di là di qualche difficoltà di lettura puntuale, si offre invece chiaramente nel suo significato globale, proprio come un teorema scaturisce logicamente da un'indefettibile dimostrazione matematica.
Pasolini si interroga sulla condizione umana e sulla sua improrogabile esigenza d'assoluto e di sacro (simboleggiati dalla grandezza epica del deserto). Sotto accusa è la borghesia al potere, che si ciba di un freddo materialismo e di stantie, repressive convenzioni sociali che distraggono l'uomo dai veri valori. Il silenzioso ospite è un dio, un Eros capace di offrire l'amore, la verità e l'autenticità ad un mondo falso, che ha smarrito se stesso.
A compiere il miracolo è il sesso, a cui - è questo l'affermazione più significativa - si attribuisce un'eccezionale carica rivoluzionaria. E' attraverso il sesso che i personaggi, posseduti uno dopo l'altro dall'ospite-angelo, scoprono la propria vera essenza, tranne Emilia, l'unica ad essere imbevuta di quella sana cultura contadina esaltata da Pasolini. Per tutti non ci sarà però via di ritorno, perché la vita, senza l'assoluto, è svuotata di ogni significato ed esige la distruzione di tutti i valori precedenti: per questo Paolo si disfà di tutto, del danaro come degli abiti.
Tutto il film trasuda una palpabile sensibilità omosessuale, a cominciare dal flessuoso corpo, a volte nudo (praticamente il primo nudo maschile del cinema italiano) e dagli sguardi ineffabili dell'affascinante Terence Stamp, che è il magnete che attira le brame di tutti. Ma anche le scene di sesso, mai esplicite ma allusive, di Stamp col giovane Pietro e con Paolo, lungo il fiume brumoso, sono suggestive, fissate con discrezione da una macchina da presa diretta splendidamente che non fa rimpiangere il limitato uso della parola.



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Ragazzi di Vita - Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

"Le pagine corsare " 
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Ritratto di Pasolini, di Cesare Giardini


Ragazzi di Vita - Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

In tutte le storie vi è un confine. Pasolini vi entra e ne racconta il chiaro scuro.
Roma, il limitare della città. Ruspe, stracci, polvere, calcinacci insanguinati: la capitale saluta per sempre la sua anima.
Vi sono luoghi dove si consuma l’addio. La campagna si ritrae, scavata, assaltata, impalata, dai tondini di ferro e dalle colate di cemento. La promessa del benessere è alle porte. Il disastro bellico alle spalle. Bussa all’uscio la “società dei consumi”, calpestando l’agro, con i suoi giganti grattacielo. Le vittime del vortice epocale sembrano i sopravvissuti ad un disastro: vivono in baracche, dormono in scuole senza più banchi o maestri, si tuffano tra le fratte di rivoli d’acqua macchiati di olio. Sono i ragazzi di vita, i giovanotti della Roma del confine. I loro occhi, gli occhi del Riccetto, del Lanzetta, di Agnolo, di Marcello, di Alduccio… sono gli occhi del Pasolini. Occhi che raccontano una “non-città” alle prese con un futuro senza contorno.
Ragazzi urbanizzati a forza, dove la famiglia non esiste e dove i valori tradizionali si sono sgretolati travolti dalla guerra. I borgatari bruciano le loro giornate tra furti e marachelle, inciampando spesso in morti brutali, tragedie famigliari e arresti.
Tutto ciò che al lettore appare barbaro e turpe, scorre nella narrazione, con un tono di popolare normalità, resa ancor più realistica dall’uso magistrale del dialetto romano. Pasolini racconta al mondo le vicende del sub proletariato urbano di Roma, prendendolo ad archetipo per denunciare lo stato di afflizione di molte masse di poveri cittadini sopravvissuti alla guerra. Nondimeno la denuncia sta nei fatti, non nelle parole, poiché il racconto fluisce naturale dalla bocca dei protagonisti testimoni; dopo poche pagine non ci si stupisce più di immaginare giovani uomini rovistare nei rifiuti, spaccare le tubature per rivenderne il piombo, rubare agli invalidi, scampare ad una retata in una bisca clandestina.
Il Riccetto poi, che di questo romanzo è il fulcro, è il massimo esempio di un destino senza senso. Sottrattosi a fortuna da molti guai, scivolato sempre via come un’anguilla dalle peggiori sfortune, viene infine catturato per un reato mai commesso.
Giornate, amori e vite che hanno perso il senso, angustiate od esaltate da vicende prive di logica. Si preparano le masse anonime a divenire consumatori di beni superflui, senza più padre, ne patria.
La Roma pasoliniana trasmuta anche le rinomate piazze e illustri vie capitoline. Piazza San Giovanni diventa il confine anonimo per derubare un cieco; Ponte Mamolo, l’ombra dei tuffi in un fiume fetido, tra guerre a tiri di fanga, mignotte e mezze cicche di sigaretta fumate; Villa Borghese, un crocevia di panchine dove sostare qualche ora, tappandosi le orecchie per ignorare un pazzo.
Viene la voglia, leggendo, di pensare che di passi avanti se ne siano fatti parecchio; che la nostra società sia migliore e che, in fondo, quel passaggio di urbanizzazione disperata e coatta, fosse pressoché obbligatorio.
Nondimeno, in quella gente di borgata, sembra dirci l’autore, esisteva ancora qualcosa di originale e di puro; quei delinquenti erano l’ultima selvaggia testimonianza di una Roma, i cui valori, erano morti da tempo.
 
Giorgio Michelangelo Fabbrucci
fabbrucci@raccontopostmoderno.com

Fonte:
http://www.raccontopostmoderno.com/2013/06/ragazzi-di-vita-recensione-pasolini/

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Una vita violenta - Recensione di Ilaria Bonfanti

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ritratti di cinema - brunorinaldi
 

Una vita violenta - Recensione di Ilaria Bonfanti
 

Recensire un mostro sacro come Pier Paolo Pasolini non è di certo un’impresa facile, ma è sicuramente un’emozione che consiglio a chiunque ami la letteratura.
Confesso che la sensazione di trovarmi di fronte ad un gran libro mi è stata chiara da subito, dal momento in cui mi sono piacevolmente scontrata con la prefazione di Erri De Luca e ne ho avuto la conferma, quando, dopo poco, mi sono imbattuta nella dedica dell’autore:

A Carlo Bo e Giuseppe Ungaretti, miei testimoni nel processo contro Ragazzi di vita”.
 
Devo ammettere che questi nomi illustri mi hanno fatto quasi paura; in poche pagine ho avuto a che fare con dei personaggi, i cui nomi già da soli hanno una risonanza invidiabile, provate ad immaginare il peso che possono avere tutti insieme.
Questo spavento misto ad eccitazione però, per forza di cose, ha fatto si che la mia voglia di cominciare a leggere questo romanzo aumentasse ancora di più.
Per descrivere questo libro, il termine “letturami è sembrato riduttivo fin dall’inizio, la definirei piuttosto come un’ esperienza di completa immersione nella vita di questi ragazzi di borgata, abituati dalla prima infanzia a convivere con desolazione e violenza, a farli propri cercando di sopravvivere alla guerra contro la miseria.
Siamo negli anni 50, in una Roma post bellica impegnata a risollevarsi, incapace di far fronte ai bisogni dei più poveri. Le vite di questi giovani vengono descritte nelle loro realtà di baracche e sporcizia, nel loro squallore. Catapecchie dove genitori e figli vivono in condizioni igieniche indecenti, dove la fame fa da padrona insieme alla miseria; prostituzione, rapine e prevaricazione diventano termini comuni con i quali rapportarsi giorno dopo giorno.
 
Nel villaggio di baracche era già accesa qualche luce che si rifletteva nel fango. Gli altri ragazzini stavano giocando alla porta di casa, mentre dentro, in quelle stanzette dove vivevano in dieci o undici, si sentiva tutto uno strillare di donne che litigavano e di creature che facevano la pignarella.”
 
Famiglie senza valori, aspirazioni puerili e una spaventosa abitudine alla violenza sono i cardini portanti nella narrazione pasoliniana che è però priva di ogni giudizio.
La magia di Pasolini, per quanto mi riguarda, sta proprio in questo, nel fotografare in maniera magistrale una città, una generazione e una classe sociale senza che in questo vi sia la benchè minima avvisaglia di condanne morali.
La presenza di Pasolini è evidente, è come se lui fosse in mezzo a quei ragazzi durante le partite a calcio, nei bar e nei circoli politici. Seduto accanto a Irene al cinema e sul lettino dell’ospedale insieme a Tommaso in fin di vita, lo scrittore è nel loro dialetto, nelle loro case e per le strade che dal centro portano in periferia.
Scrive Erri De Luca nella prefazione:

“..ma lui, Pasolini, dieci anni prima come aveva fatto da solo a stare in mezzo, molto in mezzo a quel popolo seminterrato vivo tra gli argini dei fossi dell’Aniene? Come aveva fatto, da solo e straniero che era, e da intellettuale che era, a mischiarsi cosi stretto e forte, a contagiarsi l’anima fino a trasformare il suo friulano nel romanesco borgataro brutale, canzonatorio e attaccabrighe?”
 
Non so dirvi come ma sicuramente posso confermare che ci sia riuscito in pieno. Il lettore non è un semplice spettatore ma entra a far parte delle storie, è un testimone come ci ribadisce De Luca nella prefazione: scende in piazza, partecipa alle rivolte ed è pronto a descrivere questa “vita violenta” come se l’avesse toccata con le sue mani.
 
Ilaria Bonfanti
bonfanti@raccontopostmoderno.com

Fonte:
http://www.raccontopostmoderno.com/2013/06/una-vita-violenta-recensione-pasolini/


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Le vie nuove della Macciocchi e Pasolini

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Le vie nuove della Macciocchi

di PIERSANDRO VANZAN 
      
  


Giornalista con una grande esperienza alle spalle, spiega perché è nato il premio "Pimentel", che quest’anno andrà alla memoria di Maria Grazia Cutuli. In Europa le donne sono «trattate come una ricchezza», mentre in Italia «non è stato e non è così». Tra i suoi ricordi affiora la presentazione del "Vangelo" di Pasolini a Parigi, con l’aiuto di Sartre.
Il premio "Eleonora Fonseca Pimentel" per il giornalismo femminile europeo verrà assegnato l’8 marzo prossimo alla memoria di Maria Grazia Cutuli, trucidata in Afghanistan. Per l’occasione abbiamo intervistato Maria Antonietta Macciocchi, che del premio è presidente. Il discorso si è ampliato sulla sua lunga esperienza in campo giornalistico e culturale.

 
Come mai proprio lei, che è stata giornalista per tanti anni, è rimasta così sbigottita per la morte di Maria Grazia Cutuli?
«Perché ricordo la mia vita, praticamente tutta un’esistenza, come giornalista. Un’esperienza molto dura, con soddisfazioni poche, lotte e gelosie molte, rivalità accanite da parte dei giornalisti, tante sopraffazioni. Ho diretto due giornali, dove ho formato al giornalismo due eccellenti donne: Lietta Tornabuoni a Noi donne e Miriam Mafai a Vie Nuove. In Italia si considera la giornalista come una variante al femminile dell’uomo. In Francia è talmente diverso che Françoise Giroud ha diretto L’Express e dominato la stampa con le sue opinioni per decenni. A Parigi, il direttore di Le Monde, André Fontaine, mi incitava a scrivere, chiedeva la mia opinione. Anche a Madrid, Juan Luis Cebrian, direttore di El Paìs, mi fece un contratto per un commento politico nella pagina degli editoriali: Opinion. Il rispetto era stimolante, esaltante: le donne trattate come una ricchezza delicata e unica. In Italia, non è stato e non è così. Anche nei due giornali che ho diretto si contava sulla generosità della mia dedizione. La passione personale era così intensa che tutto accettavo e niente esigevo, anche nella retribuzione. Il che non valeva per gli uomini, né era apprezzato dai dirigenti».

Nella sua lunga attività ha avuto missioni in prima linea. Si è mai sentito il nemico addosso, come la povera Maria Grazia?

«Ho compiuto missioni difficili. Nell’Algeria in guerra contro i francesi, dove arrivai pericolosamente attraversando la frontiera tunisina. Allora partii, ricordo, perché tutti gli inviati uomini – era agosto – erano in ferie, e io ero la sola disponibile per raggiungere Algeri. Lì trovai il leader Ben Bella, appena uscito dalle carceri francesi. Mi accordò un’intervista che fece il giro del mondo. Ero già stata in Iran, che era in guerra contro gli inglesi per il possesso del petrolio, allora nelle mani dell’Anglo-Iranian Company. Sparatorie e violenta repressione delle manifestazioni. Sull’avventura persiana scrissi il mio primo libro: Persia in lotta. Rientrata a Roma dall’Algeria, mi spedirono a Parigi, profittando dell’entusiasmo che avevano suscitato nella sinistra francese il mio incontro con Ben Bella e la mia azione nella guerra algerina anticolonialista. Con il lavoro a Parigi persi la direzione di Vie Nuove. Quando espressi qualche perplessità nell’abbandonare Roma e la famiglia, il direttore mi disse una frase che non ho mai dimenticato: "Le giornaliste non hanno famiglia". Il che è triste ma vero, almeno da noi. Stavo a Berlino nelle ore in cui i sovietici tiravano su il Muro. Sola in un alberghetto. Da Parigi, su iniziativa di Simone de Beauvoir, partii per l’Iran, dove Khomeini si era impadronito del potere, imponendo alle donne un’autorità religiosa feroce, che le obbligava a rimettere il velo e ad abbandonare i posti pubblici, la televisione per prima. Poi mi recai a Qom, la città sacra, per incontrare Khomeini: sfidando le sue furie, gli portai il messaggio di condanna delle donne francesi. A Qom, due giorni prima, erano state lapidate dalla folla due giornaliste inglesi».

Ritmi incredibili! Come riusciva a farcela?

«Era la grande passione! E la mia dedizione a quell’ideale: conoscere e far conoscere; dire le cose come stanno. Quando tornai a Parigi, da Qom, fu il tempo delle Br, che mi minacciarono di morte per l’articolo scritto su Le Monde contro il rapimento di Moro. La dissidenza, idea luminosa nel secolo delle ideologie sedotte dai totalitarismi, mi guidò, dopo il crollo del Muro, in Albania, dove mi aveva inviato il direttore del Corriere della Sera, Stille, e dove scrissi della rovina che si era abbattuta sul Paese. Quindi tornai a Pechino dove, già molto giovane, nel 1954, ero riuscita a incontrare Mao. Aveva appena liberato la Cina e, affermando che "la donna è l’altra metà del cielo", mi aveva augurato "Duemila anni di felicità". Da quell’augurio, mai dimenticato, ho tratto il titolo per l’autobiografia».

Tornando a Maria Grazia, quali idee l’hanno più colpita nei commenti di quei giorni?

«"Verrà insidiosa la sfida della verità e della memoria", ha detto De Bortoli nel suo discorso commemorativo per Maria Grazia, nella cattedrale di Catania. "Senza la verità la memoria si affievolisce". È la considerazione giusta, da cui parte anche la mia esperienza. Quindi non tanto per parlare di me stessa, quanto per illuminare il percorso che mi ha spinta a guardare Maria Grazia come l’emblema di un giornalismo femminile libero. La sua morte mi ha sconvolta, e così sono stata costretta a tornare indietro nella mia vita attraverso tutti gli agguati che vive un’inviata del giornale, non solo quello della morte, ma della messa ai margini e delle costanti difficoltà, talora insormontabili, quelle da cui Maria Grazia era uscita trionfalmente, ma ahimè, per andare verso la fine, nel coraggio e nello spirito di servizio per un grande giornale di cui portava fieramente le insegne. Ora le cose cambiano. Giovani donne sfidano le insidie della guerra in Afghanistan parlando alle televisioni, come scrive Lucia Annunziata su L’Espresso, a proposito delle "giornaliste di confine", "sempre più numerose in prima linea per conquistare a caro prezzo la stessa dignità dei colleghi maschi". Tiziana Ferrario, Giovanna Botteri, Anna Migotto. È la nuova stagione del giornalismo delle donne. Maria Grazia lascerà una traccia destinata a incidere nella storia femminile. Non solo la piango, ma la esalto come una ragazza eroica. Ecco perché ho deciso, come presidente del premio, di farle assegnare dalla giuria il prestigioso riconoscimento».
 
Qual è l’ispirazione del premio e in che cosa consiste?

«Il premio nacque a Napoli, per opera mia e di altre donne dell’associazione "Comitato Donne ’99" , per celebrare la rivoluzione napoletana del 1799 contro un potere feroce che mise a morte Eleonora Fonseca Pimentel, impiccandola a piazza Mercato. Il suo giornale, Il Monitore napoletano, è stato il primo foglio storico a essere ideato e diretto da una donna, nella grande stagione rivoluzionaria di Napoli che aprì all’Italia la via dell’unità. L’8 marzo del 2000, rompendo il silenzio che circondava i massacri di civili nella Cecenia, il premio venne attribuito a tre giornaliste francesi: due di Le Monde e una di Libération, per i coraggiosi reportage di guerra. Si tratta ora di onorare Maria Grazia, una luminosa creatura che esalta il coraggio e la sua missione di giornalista per la libertà degli altri. A Napoli, città della Pimentel, due secoli dopo il suo sacrificio, mi sembra giusto assegnare, il prossimo 8 marzo, alla memoria di Maria Grazia questo premio unico al mondo, facendola ascendere dagli onori dei giornali a quelli di una città e di un popolo intero». 

Lei ha collaborato con grandi personalità, come Malaparte o Pasolini, che scriveva una rubrica di dialogo con i lettori sul settimanale Vie Nuove.

«Sì, è così. Ma oggi non è facile parlarne, perché la guerra contro il terrorismo in Afghanistan e la tragedia israelo-palestinese hanno un effetto devastante nella vita intellettuale, da noi e in tutto il mondo. Voglio dire che le sovrastrutture culturali sono schiacciate dai bombardamenti contro il feroce nemico terrorista. Anche la fede, secondo me, vive un periodo di turbamento, nel senso che il mondo s’interroga, impaurito e perplesso, sulla nostra impotenza a vincere un avversario tanto criminale e ispirato da un’interpretazione perversa del Corano».
 
Tornando alla cultura, non le sembra che dai giornali siano scomparse le cronache culturali, le recensioni di polso e i momenti culturali alti?

«È così. Tutto lo spazio disponibile va alle cronache, agli articoli, ai servizi sulla guerra, peraltro necessari. Ma c’è un impoverimento fatale nella cultura, che pagheremo caro in futuro. Così nel 26° anniversario della morte di Pasolini, nostro vate per il ventesimo secolo, c’è stato ben poco. Io avrei avuto tante cose da dire...».
 
Può dire qualcosa adesso?

«In tempi in cui Bin Laden è stato considerato da una certa intellighentia come un intellettuale, non sarà mai sufficiente occuparsi di Pasolini e scrivere di questo vero intellettuale del 2000. Ho ritrovato la fotografia che suggella il nostro incontro a Parigi e che è ben curiosa. Siamo nella cattedrale di Notre Dame, fianco a fianco, in piedi davanti a una statua in pietra di Giovanna d’Arco, con la bandiera della Francia stretta sulla corazza. Abbiamo l’aria di due complici, il viso chino di Pasolini che mi parla piano e il mio volto di profilo che guarda altrove, preoccupato. Pasolini era venuto a presentare a Parigi Il vangelo secondo Matteo. Non parlava francese. Era spaurito con la sua faccia ossuta, come quella di un sottoproletario romano, mi ispirava voglia di aiutarlo ma lui non voleva piacere, voleva essere compreso. L’impresa mi apparve difficile in quella società che aveva rifiutato di fare i conti con la cristologia. Il critico del Nouvel Observateur mi aveva telefonato di mattina presto per dirmi che Pasolini era una scimmia, un mistificatore diabolico che si beffava di tutto. Dissi a Pasolini la verità e lui mi chiese di rompere l’accerchiamento rivolgendoci a Sartre».
 
Com’è andata con Sartre?

«Telefonai a Sartre, che fu subito d’accordo e ci fissò un appuntamento per il giorno seguente, al caffé di Pont Royal. Pasolini era contento e mi disse che sicuramente il caffé era sul Pont; chiamammo un taxi e ci fermammo in una decina di caffé, perché Pasolini credeva che Sartre volesse mostrargli i sottoproletari sotto i ponti di Parigi. Così arrivammo con due ore di ritardo al bar del Pont Royal, in pieno quartiere Latino. Pasolini era un po’ deluso, ma Sartre fu ammirevole: attendeva ancora, malgrado le due ore di ritardo, fumando la centesima Gitane. Era di buon umore. Pasolini gli raccontò della polemica sul Vangelo e anche della sua rabbia. "Se fossi stato francese – gli disse Pasolini – avrei girato il Vangelo in Algeria e questo avrebbe traumatizzato i francesi. L’idea nacque quando lei mi descrisse la storia di una ragazzina algerina, una prostituta schiava di uno sfruttatore, un francese, un europeo". Sartre gli rispose: "Lei deve ripeterlo a tutti che avrebbe fatto il suo Vangelo in Algeria, tra i sottoproletari. Ma la posizione della sinistra razionalista è comprensibile nel senso che la storia di Cristo è un punto di scontro. C’è il timore che i temi religiosi favoriscano le idee conservatrici; il razionalismo francese manca di una critica del razionalismo. Il problema del rapporto con la propria tradizione profonda non può essere cancellato nel nostro orizzonte culturale, senza una chiusura orgogliosa, aristocratica del nostro pensiero". Pasolini gli chiese: "In tutti i dibattiti italiani i giovani mi chiedono perché lei ha rifiutato il premio Nobel, mentre io ho accettato il premio dell’Ufficio Cattolico del Cinema". "E lei cosa risponde?". "Che io mi esercito al combattimento aperto, come lei al tempo della guerra di Algeria, quando nessuno dava premi"».
 
Cosa avvenne dopo?

«Tornai con Pasolini nella mia casa, in rue de Varenne. Seduto al mio pesante tavolo di noce, volle scrivere una lettera per ringraziare Sartre. Lavorò un’ora, mentre io preparavo il mio articolo per l’Italia. Tra noi c’era una sorta di intimità serena. Pasolini è l’unico intellettuale che mi ha lasciato questo senso di amicizia profonda verso una donna. Tutti dimenticano che Pasolini accettò come naturale il suo trasporto verso le donne, un femminista: Elsa Morante, Maria Callas, Dacia Maraini e Laura Betti accesero la sua passionale ammirazione. Quando gli dissi che volevo tornare a Roma, mi rispose con la sua voce roca e implacabile: "Resta qui. Sei al centro del mondo, mentre Roma è una provincia". Quando finì di scrivere a Sartre, si alzò d’impeto dicendomi: "Non gli ho scritto una lettera, gli ho scritto una poesia"».
 
Ricorda qualche verso almeno?

«Cominciava così: "Lei, Sartre non giudica male / che Notre-Dame sia stata illuminata dai suoi preti / per questo interlocutore anfibio? / No! / Il Peperizzo di Pressis Passe, se ne va. / Nel Café di Pont-Royal cala l’ombra delle due. / Sartre è seduto sulla poltrona come una stupenda cicala messaggera d’amore". Non so se Sartre la conobbe. In Francia fu pubblicata quando entrambi erano morti. In Italia fu pubblicata da Mondadori, nell’opera omnia di Pasolini».
 
Quali furono i suoi rapporti di lavoro, anche umanamente, con uno come Pasolini?

«Per Vie Nuove Pasolini scriveva una rubrica che si chiamava Dialogo con i lettori. Oltre alla rubrica settimanale, scriveva articoli sui soggetti più disparati. Parlava poco, non sollevava difficoltà, adorava come me non perdere tempo. Dopo i nostri incontri uscivamo insieme per via Sicilia – la sede del giornale era lì a fianco –, andavamo a sederci al tavolino smaltato di un caffè. E lì lo interrogavo sulla vita intellettuale italiana. Diventò il mio unico maestro. Con la sua voce bassa, un po’ afona, m’insegnò il disprezzo per la vigliaccheria intellettuale e l’amore per l’eresia. Non a caso ho messo, come sottotitolo al mio Duemila anni di felicità, "diario di un’eretica"».
 
Quali sono i tratti che più la emozionano ancora oggi, ricordandolo?

«Di lui ricordo la voce come ricordo la sua generosità. Andava dovunque lo chiamassero: nelle fabbriche, nelle università, nei cenacoli di cultura, nelle sezioni di partito. Non voleva un soldo per i suoi articoli su Vie Nuove, si sentiva apostolo, un predicatore come san Paolo in una perentoria esigenza di sacrificio. Lo ricordo a Parigi alla lezione all’università, quando insieme tenemmo testa ai contestatori che venivano a provocarlo, insultandolo. "Fascista" gli gridavano, ce l’avevano con lui per come aveva accolto con ironia il ’68. E lui rispondeva come Cristo: "Vi porto la guerra, non la pace". Lo ricordo entrare in redazione, vestito con i blue-jeans, stretti da un cinturone di cuoio con le borchie, la camicia aperta sul collo, l’aria un po’ canagliesca, il tutto contrastante con la sua gentilezza e timidezza, con l’impaccio di un giovanotto bene educato. Allora ci davamo del lei, senza l’obbligo ecclesiastico del tu, per concordare quella rubrica settimanale che poi sollevò le ire dei benpensanti di sinistra. Ci ritrovammo a Parigi, quando io avevo perso la direzione del giornale, proprio a causa di quella sua rubrica, che inaugurava il dissenso politico. Ci rivedemmo a Parigi, due anni dopo, e ci gettammo l’una tra le braccia dell’altro. Solo allora cominciammo a darci del tu».
 
È andata ultimamente sulla tomba di Pasolini, a Casarsa?

«Sì, il due novembre sono andata al cimitero di Casarsa, nel Friuli. La sua tomba era un orto polveroso e tra la sterpaglia intravvidi due nude lapidi. Su di esse svettavano due ulivi, uno per lui, il più alto, l’altro per Susanna, sua madre. Non c’era segno di vita, né fiori appassiti, né lumi cimiteriali. Appoggiai a terra i miei fiori rossi, contro la terra arida di Casarsa, da cui il poeta era partito giovanetto per mettere a soqquadro il mondo. È lui l’immenso artista che gli intellettuali italiani, come d’altronde gli intellettuali di tutto il mondo, farebbero bene a ricordare, soprattutto in questi nostri tempi di sciagurata follia terrorista».
 
Ma quale può essere l’antidoto alla follia terrorista?

«Ridare un posto di primo piano alla cultura e riscoprire il significato profondo della fede. In questo senso ho proposto l’assegnazione del premio "Pimentel" alla memoria di Maria Grazia Cutuli: per oppormi alla chiusura culturale e al silenzio dominanti. E anche la rievocazione della battaglia culturale di Pasolini e della sua fede anomala, espressa nell’emozionante Vangelo secondo Matteo, ha questo scopo. Sono due segnali che, secondo me, potrebbero farci uscire dalla morta gora in cui siamo finiti».
 
 
Piersandro Vanzan
 
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