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lunedì 17 febbraio 2014

Ragazzi di Vita - Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 
Ritratto di Pasolini, di Cesare Giardini


Ragazzi di Vita - Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

In tutte le storie vi è un confine. Pasolini vi entra e ne racconta il chiaro scuro.
Roma, il limitare della città. Ruspe, stracci, polvere, calcinacci insanguinati: la capitale saluta per sempre la sua anima.
Vi sono luoghi dove si consuma l’addio. La campagna si ritrae, scavata, assaltata, impalata, dai tondini di ferro e dalle colate di cemento. La promessa del benessere è alle porte. Il disastro bellico alle spalle. Bussa all’uscio la “società dei consumi”, calpestando l’agro, con i suoi giganti grattacielo. Le vittime del vortice epocale sembrano i sopravvissuti ad un disastro: vivono in baracche, dormono in scuole senza più banchi o maestri, si tuffano tra le fratte di rivoli d’acqua macchiati di olio. Sono i ragazzi di vita, i giovanotti della Roma del confine. I loro occhi, gli occhi del Riccetto, del Lanzetta, di Agnolo, di Marcello, di Alduccio… sono gli occhi del Pasolini. Occhi che raccontano una “non-città” alle prese con un futuro senza contorno.
Ragazzi urbanizzati a forza, dove la famiglia non esiste e dove i valori tradizionali si sono sgretolati travolti dalla guerra. I borgatari bruciano le loro giornate tra furti e marachelle, inciampando spesso in morti brutali, tragedie famigliari e arresti.
Tutto ciò che al lettore appare barbaro e turpe, scorre nella narrazione, con un tono di popolare normalità, resa ancor più realistica dall’uso magistrale del dialetto romano. Pasolini racconta al mondo le vicende del sub proletariato urbano di Roma, prendendolo ad archetipo per denunciare lo stato di afflizione di molte masse di poveri cittadini sopravvissuti alla guerra. Nondimeno la denuncia sta nei fatti, non nelle parole, poiché il racconto fluisce naturale dalla bocca dei protagonisti testimoni; dopo poche pagine non ci si stupisce più di immaginare giovani uomini rovistare nei rifiuti, spaccare le tubature per rivenderne il piombo, rubare agli invalidi, scampare ad una retata in una bisca clandestina.
Il Riccetto poi, che di questo romanzo è il fulcro, è il massimo esempio di un destino senza senso. Sottrattosi a fortuna da molti guai, scivolato sempre via come un’anguilla dalle peggiori sfortune, viene infine catturato per un reato mai commesso.
Giornate, amori e vite che hanno perso il senso, angustiate od esaltate da vicende prive di logica. Si preparano le masse anonime a divenire consumatori di beni superflui, senza più padre, ne patria.
La Roma pasoliniana trasmuta anche le rinomate piazze e illustri vie capitoline. Piazza San Giovanni diventa il confine anonimo per derubare un cieco; Ponte Mamolo, l’ombra dei tuffi in un fiume fetido, tra guerre a tiri di fanga, mignotte e mezze cicche di sigaretta fumate; Villa Borghese, un crocevia di panchine dove sostare qualche ora, tappandosi le orecchie per ignorare un pazzo.
Viene la voglia, leggendo, di pensare che di passi avanti se ne siano fatti parecchio; che la nostra società sia migliore e che, in fondo, quel passaggio di urbanizzazione disperata e coatta, fosse pressoché obbligatorio.
Nondimeno, in quella gente di borgata, sembra dirci l’autore, esisteva ancora qualcosa di originale e di puro; quei delinquenti erano l’ultima selvaggia testimonianza di una Roma, i cui valori, erano morti da tempo.
 
Giorgio Michelangelo Fabbrucci
fabbrucci@raccontopostmoderno.com

Fonte:
http://www.raccontopostmoderno.com/2013/06/ragazzi-di-vita-recensione-pasolini/

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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