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giovedì 28 agosto 2014

UCCELLACCI E UCCELLINI (The Hawks and the Sparrows) - Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UCCELLACCI E UCCELLINI (The Hawks and the Sparrows)
Pier Paolo Pasolini
 
UCCELLACCI E UCCELLINI

Regia - Pier Paolo Pasolini
Soggetto - Pier Paolo Pasolini
Sceneggiatura - Pier Paolo Pasolini
Produttore - Alfredo Bini
Fotografia - Tonino Delli Colli, Mario Bernardo
Montaggio - Nino Baragli
Musiche - Ennio Morricone
Scenografia - Luigi Scaccianoce, Dante Ferretti
Paese di produzione - Italia
Anno 1966
Durata - 85 minuti
Colore - Bianco/Nero
Audio - Sonoro
Genere - Commedia, grottesco

Interpreti e personaggi

Totò: Totò Innocenti/Frate Ciccillo
Ninetto Davoli: Ninetto Innocenti/Frate Ninetto
Femi Benussi: Luna, la prostituta
Francesco Leonetti: la voce del corvo
Gabriele Baldini: l'ingegnere
Riccardo Redi: il dentista dantista
Lena Lin Solaro: Urganda la sconosciuta
Rossana di Rocco: amica di Ninetto
Vittorio Vittori: Guitto
Fides Stagni

Premi

Festival di Cannes 1966: menzione speciale a Totò per l'interpretazione

Nastro d'Argento 1967: miglior soggetto originale, migliore attore protagonista (Totò)

 

TRAMA 

Dopo i titoli di testa, cantati da Domenico Modugno sull'immagine di una sbiadita luna diurna attraversata dalle nuvole, incontriamo Innocenti Marcello, detto anche Totò (Totò) e Innocenti Ninetto, primo dei suoi diciotto figli (Ninetto Davoli), che percorrono a piedi le enormi, grigie strade di un'anonima periferia romana, diretti chissà dove.
Strada facendo, aprono e chiudono discorsi apparentemente banali, il cui contenuto metafisico riflette in realtà i più grandi nodi del pensiero occidentale.
I due pellegrini si fermano in un bar, dove Ninetto viene erudito da alcuni ragazzi a ballare l'hully-gully. In seguito, mentre Totò resta a guardare, in mezzo a un capannello di curiosi, il tremendo spettacolo di una famiglia che si è suicidata con il gas in un palazzo di certo abusivo, neanche del tutto terminato di costruire, Ninetto va a pavoneggiarsi con delle ragazzette.
Poi i due proseguono il cammino, riflettendo sul fatto che i poveri, che non hanno nulla da perdere, "passano da una motte a un'altra morte.
Sulle note del canto partigiano "Fischia il vento", un Corvo parlante (versione volatile, un po' aristofanesca del grillo-coscienza di Pinocchio), proveniente dal paese di Utopia, si unisce a loro sul cammino, constatando che, nonostante i due uomini non abbiano una meta precisa (infatti sanno di essere diretti "laggiù", ma non sanno dire dove) dovranno fare "un pezzo di strada insieme".
Dopo qualche perplessità, dunque, incomincia il cammino.
Il Corvo (del quale una didascalia specifica che si tratta di un intellettuale di sinistra prima della morte di Togliatti), con intenti di certo didascalici, narra ai due Innocenti un apologo, una storia che parla di uccellacci e uccellini.
Ci troviamo sette secoli addietro, nella comunità del poverello di Assisi, Francesco, che ha da poco predicato agli uccelli. Il Santo incarica due suoi frati, Frate Ciccillo e Frate Ninetto, di evangelizzare i falchi ed i passeri, di educarli all'Amore Celeste.
Il novizio Ninetto cade nel panico, ma Frate Ciccillo, dotato di un paziente spirito scientifico di osservazione, gli spiega che loro non sono santi come Francesco, "siamo uomini umani, ma con la grazia del Signore abbiamo il cervello".
Frate Ciccillo fa il voto di restare in ginocchio finché non avrà evangelizzato i falchetti della rocca.
Immobile in una piana, dileggiato dai pastori, scrutano con annoiato e a tratti divertito rispetto da Ninetto, Ciccillo passa un anno ad ascoltare i rapaci e ad osservarne i movimenti, finché, in primavera, giunge l'illuminazione: trovata la chiave del linguaggio dei falchi, il fraticello spiega loro il senso divino dell'Amore tra le creature.
"Con la fede ci si crede, e con la scienza ci si vede", commenta soddisfatto Frate Ciccillo.
Ma il lavoro non è concluso. Ora tocca ai passeri. Ciccillo si reca in un paesello, presso delle rovine, e perpetua il voto di restare in ginocchio fino al compimento della missione di evangelizzazione.
Ninetto millanta la santità di Frate Ciccillo, e viene creduto dalle tre vecchie Sora Gramigna, Sora Micragna e Sora Grifagna. Così, di lì a poco, attorno al luogo di osservazione dell'immobile Ciccillo, viene costruito un altarino votivo, e sorge un vero e proprio mercato di reliquie, con tanto di cortei di storpi ed infelici che vogliono farsi miracolare dal nuovo Santo.
Ma ben presto Ciccillo si rivolta, e caccia i nuovi Mercanti dal Tempio.
Dopo varie false partenze, Ciccillo capisce che i passeri comunicano a balzelli, e, balzando, li educa all'Amore Celeste. Frate Ciccillo, finalmente gioioso, compone all'improvviso un nuovo Canto delle Creature, più ingenuo e meno ascetico di quello del Santo Poverello ("Beato sii per questo monno, che ce ponno campà tutti, pure quelli che non ponno").
Proprio quando la missione sembra definitivamente compiuta, nel mezzo del festeggiamento, i due fraticelli osservano un falchetto agguantare un passero e sbranarlo. Ciccillo e Ninetto sono presi dalla disperazione. Tornano da Frate Francesco, al quale Ciccillo spiega che "I falchi come falchi l'adorano il Signore. E pure li passeretti, come passeretti, per conto loro je sta 'bbene, l'adorano il Signore. Ma il fatto è che fra loro se sgrugnano, s'ammazzano. E che ce posso fa io se ci sta la classe dei falchi e quella dei passeretti, che non possono andà d'accordo fra di loro?"
Frate Francesco gli risponde che "tutto se po' fà", perchè il mondo va cambiato, e profetizza l'avvento di un uomo dagli occhi azzurri (Marx) che cambierà il mondo, citando Il Capitale.
I due fraticelli tornano, pazienti, alla loro missione.
Il racconto ha termine, e Totò e Ninetto, perplessi, proseguono il cammino assieme al Corvo. Tanto Totò che Ninetto sono presi da un bisogno corporale urgente, e si appartano dietro delle frasche per liberarsi.
Il padrone del campo, aiutato da altri buzzurri, li minaccia, perché vuole che portino via dal suo campo quanto hanno appena prodotto. Scoppia una guerra, con tanto di spari con la doppietta da parte della moglie del padrone del campo.
Mentre i due fuggono, si sentono in sottofondo rumori di cannoneggiamenti. I signori Innocenti si recano quindi in una orribile bicocca di loro proprietà, data in affitto ad una poverissima famiglia di contadini, per ricevere il pagamento del mensile. Sono accolti da un uomo e una donna costretti a mangiare i nidi delle rondini e a tenere i bambini a letto tutto il giorno per non fargli chiedere da mangiare, dicendogli che "è ancora notte".
Totò ha già pignorato ai contadini quasi tutto, e minaccia di adire le vie legali. Quindi, supplicato di avere pietà dalla miserrima contadina, con disprezzo, se ne va.
Il Corvo gli dice di stare attenti ai pesci grossi che mangiano quelli piccoli.
Sulla strada i tre incontrano una compagnia di guitti la cui Cadillac s'è fermata. E nonostante gli sforzi di Totò e Ninetto, l'auto non riparte.
La prima attrice partorisce all'ombra dell'automobile, e la bimba che nasce viene accolta dal gruppo con gioia e rassegnazione.
Marcello/Totò, infine, viene truffato da uno degli amori: gli viene rifilato per callifugo un antifecondativo andato a male.
Successivamente, Totò e Ninetto si recano a casa di un Ingegnere, loro padrone di casa, dove trovano in pieno svolgimento il convegno dei "Dentisti Dantisti".
Come profetizzato dal Corvo, il pesce grosso si accinge a mangiare il piccolo. Totò, prostrato a terra con Ninetto da due pastori tedeschi, spiega ad un indolente Signor Ingegnere che non può pagarlo, facendogli un elenco delle sue disgrazie analogo a quello che la contadina aveva fatto a lui. Anche l'ingegnere non si commuove, e minaccia i due di farli finire in galera, poi se ne va.
Totò e Ninetto maturano per qualche istante dei propositi di rivalsa sociale, e sulle note di Fischia il vento incontrano dei passi silenziosi di uomini di cui vediamo solo i piedi spuntare da poveri vestiti neri.
Proseguendo, vediamo, in controcampo ai due, le immagini dei funerali di Togliatti.
Il Corvo, ormai stanco, rinuncia a conoscere la meta dei due Innocenti.
Di nascosto dal Corvo moralista, prima l'uno poi l'altro, Totò e Ninetto si accoppiano con una prostituta che si chiama Luna, fingendo di andare a fare dei bisogni. Il Corvo comincia a parlare senza requie. A quel punto Totò, visti vanificati tutti i tentativi di seminare il Corvo, decide di mangiarlo, perché "tanto, se non ce lo mangiamo noi, se lo mangia qualchedun'altro".
Totò agguanta il Corvo e gli tira il collo. I due Innocenti lo arrostiscono, lo mangiano, e "vanno di spalle, per la strada bianca, verso il loro destino come nei film di Charlot", mentre un aereo sfreccia nel cielo.
 
COMMENTO - La tensione tragica che aveva attraversato la prima fase della cinematografia pasoliniana si infrange, con Uccellacci e uccellini, in una selva di metafore dalla comicità amara, esaltate dalla mutata maschera di Totò. Il grande comico fu diretto da Pasolini in modo tale da essere completamente trasformato: la sarcastica aggressività di sempre, così simile nell'irriverenza a quella dei sottoproletari di Accattone, viene costretta entro gli angusti limiti di un personaggio simbolo di tutti i "tipici eroi neorealistici, umili, noiosi e inconsapevoli", e assume così una posa di rassegnata ironia, di tristezza solo a tratti ridanciana; molto più simile nello spirito al volto da normale borghese di Keaton che non a quello del nobile straccione vagabondo Chaplin (la cui allegria infantile semmai è in parte riflessa dal saltellante e giocoso interrogarsi sulla vita di Ninetto). Il lestofantismo vitale del "tira a campare" napoletano si stempera nell'inconsapevolezza proterva di quell'infima borghesia "nazionale" che assolutizza valori morali che non comprende affatto, e che emula goffamente frasi e atteggiamenti di quelle classi superiori di cui è succube.
Così, il senso di disfatta e di disillusione che Pasolini esprime con Uccellacci e uccellini nasce in primo luogo dal contrasto tra la "pura esistenza" di Totò e Ninetto, che stanno al mondo senza mai giungere a domandarsi né il perché né il "verso cosa" della loro vita penosa, e la "pura cultura" del Corvo, ingannata nella sua ottica di riscatto da una fede cieca nella Storia che finisce per sottrarre veridicità ed efficacia alle proprie analisi politiche, ormai incomprensibili agli effettivi destinatari del messaggio marxista.
Un dialogo impossibile tra lingue estranee l'una all'altra, che, come il cammino insensato dei protagonisti, "appena incomincia è già finito". Pasolini non crede più nella possibilità di comunicare la cultura attraverso l'evidenza dei fatti o dei sentimenti (il Corvo afferma che sono finiti i tempi di Rossellini e di Brecht), e, per liquidare la disillusione che ne deriva, non gli resta che mettere in scena simbolicamente il proprio fallimento.
 
La nuova "lingua nazionale", infatti, quell'idioma nato dallo stillicidio culturale operato dal gergo giornalistico-tecnologico, ha oramai compiuto la rivoluzione delle coscienze alla rovescia, in direzione di un'omologazione delle masse senza più scampo: l'abbrutimento, l'anestesia dalla propria condizione di ingiusta subordinazione, sono assicurate dalla diffusione di concetti e neologismi consumistici totalmente vuoti di senso, ma che hanno il potere di intrappolare il pensiero medio in un'etica perbenisticamente conservativa, dedita, piuttosto che al riscatto dalla propria condizione, a sfruttare edonisticamente il tempo libero, riproducendo in piccole abitudini borghesi martellantemente diffuse dai mezzi di comunicazione di massa come unico modello possibile.
Crisi della prassi marxista, dunque, significa per Pasolini non credere più nella possibilità di mantenere intatta l'ideologia senza riformularne i concetti e le analisi: propriamente, creando un linguaggio "altro", estraneo alla logica borghese. La ricerca di nuove forme di comunicazione attraverso la rivoluzione formale di quel "linguaggio della realtà" che è il film, sarà uno degli assi portanti della nuova fase del cinema pasoliniano che si apre con Uccellacci e uccellini.
In questo senso diventa emblematico che per esprimere la sua crisi il regista scelga un registro interamente metaforico, che si presta a differenti livelli di lettura e che propone simboli al posto delle antiche "tipologie umane" del suo cinema "popolare"; simboli che, in quanto tali, rifiutano una decifrazione definitiva, una loro ideologizzazione riduttiva. Solo a tratti riaffiorano momenti dell'antico gusto per l'epifania, per il contrasto stridente e improvviso tra epoche coesistenti e lontanissime, ma la fragile e salvifica grazia della Bellezza e l'orrore della Civiltà: come nella scena in cui una ragazzetta vestita da angelo per una recita, scompare e riappare tra i piani dissestati di un palazzo in costruzione sotto gli occhi abbacinati del sognante Ninetto.
Ma la volontà di esprimere un'evidenza tragica è costantemente subissata da un senso di vanificazione, derivante dalla sconfitta immaginaria in una guerra mai combattuta. Una guerra che ormai si trasforma nel puro gusto dell'arabesco intellettuale, nello specialismo fine a se stesso e incomunicante: come.quello del convegno dei fantomatici Dentisti Dantisti, stigmatizzati nella bunueliana figura dell'intellettuale che dirige con foga un concerto immaginario, grottesco figuro che perpetua i gesti del direttore senza più un'orchestra da dirigere, infervorato da una musica che ormai sente soltanto lui.
Se però da una parte la visione pasoliniana si tinge indubbiamente di pessimismo, è pur vero che non si tratta di pessimismo "cosmico".
Pasolini non rinuncia affatto a pensare alla possibilità di una vera Rivoluzione delle coscienze, ma sente di non identificarsi più nel linguaggio della falsa coscienza ideologica: "sono passare di moda le ideologie, ed ecco qui uno che continua a parlare di non si sa cosa a degli uomini che vanno non si sa dove", dice il Corvo.
E poco dopo: "Non pensi però, signor Totò, che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono
convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. Io piango solamente su me stesso. È umano, no, in chi sente di non contare più", fa dire il regista alla sua anima veteromarxista che sta per lasciare per sempre dietro le spalle.
 
Pasolini ha definito Uccellacci e uccellini un "film in prosa", riferendosi soprattutto alla maggiore "cinemarograficità" della narrazione (che ha ormai abbandonato gli stilemi iconografico-narrativi del muto e i salti Iogico-temporali): pur tuttavia, sul piano semantico, per così dire, nessun film come Uccellacci e uccellini è costruito in maniera più "poetica", cioè attraverso situazioni il cui significato è di per sè indefinibile, allusivo, propriamente non un "messaggio" ma il riflesso di una situazione interiore, di un mondo di pura suggestione.
Tra i simboli più importanti di questa favola, troviamo la "colpevolezza" degli Innocenti, che col loro non capire perpetuano l'andazzo di un mondo ingiusto del quale pure si lamentano; il Corvo, che è il pensiero intellettuale, il quale per sopravvivere alla nuova barbarie deve morire sbranato e digerito da gente che lo sente come un peso, una scocciatura obbligata, e che lo mangia per l'unico, opportunistico motivo che "tanto se non ce lo mangiamo noi se lo mangia qualchedun'altro" (il rapporto esclusivo e borghese con la cultura come merce); la Luna, sotto molteplici forme (quella ricorrente della luna diurna, che Totò pensa di vedere solo lui la prostituta senza cervello di nome Luna con cui si accoppiano entrambi gli Innocenti, la luna di cui viene detto che è responsabile dell'immondizia perché è causa delle alte maree che portano le schifezze dal mare), che è forse il residuo mercificato dell'ideologia che non illumina più la coscienza di quanto una luna diurna illumini la terra; gli autobus che tutti i personaggi perdono di continuo, catacresi del modo di dire popolare, che denunciano la perduta possibilità della rivoluzione e la fine di un'intera civiltà, ormai ritornata alla barbarie, nel suo Dopostoria; gli aeroplani che si alzano e sovrastano la terra con il loro rumore assordante, a denuncia della grossolanità dello pseudo-progresso che tutto sommerge.
 
Con Uccellacci e uccellini si chiude definitivamente il sogno da cui tutta l'avventura cinematografica di Pasolini aveva avuto origine: quello di elaborare un linguaggio in grado di parlare a tutti, rivolto ad un popolo inteso nel senso gramsciano del termine come "altro" dalla borghesia.
Constatato l'avvento, al posto di quel popolo, di una massa costruita ad hoc, dall'alto, ad opera della classe borghese, una massa la cui semplicità apparente è in realtà volontà di disimpegno e di volgarizzazione, Pasolini epura gradualmente i suoi film da quella che poteva esserne fino ad allora ritenuta la "cifra": il carattere popolare. Il linguaggio dei suoi film, fatto di immediatezza realistica ed evidenza quasi didascalica, d'ora in poi diverrà un linguaggio implicito, o, come lo definirà il regista, un "linguaggio della realtà", sempre di più volto all'approfondimento della ricercai visiva, all'abbandono della residua "letterarietà" dei primi film, a far parlare la realtà stessa, a mettere in moto l'enorme forza comunicativa implicita nella costruzione delle immagini.
Tutto questo, con un unico scopo: sottrarre il messaggio antiborghese ai cliché-di una falsa dialettica borghese-antiborghese, pagando consapevolmente il prezzo della perdita di una comprensibilità immediata del messaggio. Dell'antica irruenza antiborghese resta una critica dialettica ai valori su cui la società di massa si sta edificando, critica tanto più penetrante quanto più non tira le somme dell'infinita contraddizione che della società è in grado di mettere a nudo sviscerandone la falsità e l'inconsistenza.
Il vero antagonista di questa società non va più visto nel "popolo" occidentale, ormai massificato e scomparso, ma in una realtà altra, molto più semplice, più etnologicamente basilare.

Anche Uccellacci e uccellini, sul piano delle traversie giudiziarie, non fece eccezione: andò incontro all'ostracismo delle autorità censorie, le quali, mentre il film veniva presentato al Festival di Cannes (dove fu premiata l'interpretazione di Totò) nel maggio del 1966, ne vietarono in Italia la visione ai minori di diciotto anni (divieto solo in seguito ridotto, per decreto, a quattordici anni). Ma le reazioni più violente nei confronti della critica a tutto campo rivolta da Pasolini alla società nel suo equilibrio tra potere e antipotere, si avranno proprio da parte di quella sinistra che rappresenta l'élite tradizionale, con cui l'intellettuale Pasolini continuerà a confrontarsi sempre più drammaticamente, con una incomprensione sempre maggiore.
 
Fonte:
 
 

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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