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giovedì 28 agosto 2014

Pasolini e il Vangelo secondo Matteo, di Andrea Claudio Galluzzo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 

Pasolini e il Vangelo secondo Matteo

Vi sono registi dei quali è impossibile parlare, per cercare di capirne le opere, senza conoscerne la vicenda umana. Probabilmente Pier Paolo Pasolini è quello a cui meglio si addice questa affermazione. Artista versatile, dallo sguardo sempre critico ed attento, nonché uomo di profondissima cultura, sensibilità ed impegno politico e civile, Pasolini è giustamente considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del secolo scorso. Una figura di spicco della nostra cultura, che ha sempre guardato molto lontano con le sue opere e la sua estetica, al punto che, ancora oggi, a più di trenta anni dalla sua tragica e misteriosa morte, non tutto è stato completamente compreso e recepito del suo pensiero.
Personaggio scomodo e controverso, che ha sempre diviso la critica per il suo essere, al tempo stesso, ardito, radicale, libero e poetico a livelli sublimi. Tantissimi gli aggettivi che si potrebbero utilizzare per descrivere il Pasolini uomo ed artista: scrittore, poeta, filosofo, marxista, geniale, ateo, regista, attore, omosessuale, e si potrebbe continuare a lungo. Uno degli aspetti che mi ha sempre colpito della vita di Pasolini è che, spesso, il suo pensiero ed il suo “essere contro” fu oggetto di critiche e di polemiche accese sia da parte della destra borghese reazionaria che della sinistra estrema, la sua ideale corrente politica, o moderata: si pensi, ad esempio, alle sue spiazzanti dichiarazioni in merito agli scontri di Valle Giulia, avvenuti a Roma il 1 marzo 1968.

Lungi da me voler mettere a fuoco Pasolini in queste poche righe, credo però che sia importante conoscere, almeno sommariamente, alcuni aspetti della sua personalità, per meglio capirne le opere, in questo caso lo splendido capolavoro che è “Il Vangelo secondo Matteo”. Secondo il mio giudizio esso è, di gran lunga, il miglior film di Pasolini ed il miglior film mai girato sulla vita e le opere di Cristo, quello in cui il regista bolognese riesce a bilanciare meglio che in qualunque altro i suoi stilemi quali: capacità lirica, visionarietà poetica, rigore laico, arguta riflessione sociologica e politica, oltre che il suo innato approccio viscerale all’arte ed alla vita.

Pasolini “scoprì” il Vangelo per la prima volta nel 1942 e lo rilesse poi più approfonditamente nel 1962 ad Assisi, in occasione di una sua visita nella città umbra durante la quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII, da lui molto stimato. Nonostante il suo essere marxista e non credente, Pasolini rimase molto affascinato, per sua stessa esplicita ammissione, dai testi sacri e, in particolare, dalla carismatica e rivoluzionaria figura di Gesù Cristo. In molte interviste egli parla con enorme ammirazione e dolcezza della “bellezza morale”, della “rivoluzionaria forza interiore” del Cristo e di come la sua eroica parabola terrena diventi un’altissima metafora del concetto stesso di divinità in modo purissimo, ben al di là di ogni possibile, e limitante, credo teologico. Pasolini era assolutamente rapito ed ammaliato dalla figura di Cristo, dall’enorme portata etica della sua opera, della sua vita e della sua morte e decise, contro tutto e tutti, di fare un film sul Vangelo. Bisogna infatti ricordare che la Chiesa aveva spesso bandito e censurato il regista poeta, accusandolo di blasfemia ed offesa alla religione di stato, specialmente a causa del controverso e visionario episodio “La ricotta”, inserito nel film “Ro.Go.Pa.G.” (1963). “La ricotta” è una coraggiosa e surreale parodia della Passione di Cristo, in cui Pasolini mescola abilmente sacro e profano, politica e religione, utilizzando in modo ardito la sua poetica degli umili e le sue ambientazioni da neorealismo di borgata per “rivisitare”, con un film nel film, le ultime ore della vita di Gesù. Utilizza addirittura come protagonista il mito Orson Welles, che fa la parte del regista e che esprime il Pasolini pensiero sulla politica e sulla società del tempo. Assolutamente memorabile, al riguardo, la sua definizione di Federico Fellini, detta per bocca di Welles: “egli danza…”.

Nonostante alcune sequenze geniali e visionarie, stilisticamente pregevoli e visivamente elegantissime (le due deposizioni del Cristo crocifisso che ricalcano pedissequamente i dipinti di Rosso Fiorentino e del Pontormo), nonostante le moltissime citazioni finissime e coltissime, gli ossimori utilizzati erano, e forse ancora sono, davvero troppo per il moralismo bigotto di quei tempi. Il Cristo volgare e ruspante de “La ricotta”, insieme ad alcuni concetti espressi per bocca del divo Welles, suscitarono le ire e gli strali della Chiesa e molte furono le persecuzioni censorie verso il film e verso Pasolini, che, alla fine, si vide costretto a modificarne alcune parti. E’ facile dunque capire quali e quante perplessità furono suscitate dalla decisione del regista di realizzare un film sul Vangelo, appena un anno dopo il terremoto ideologico provocato da “La ricotta”.

Eppure, il “miracolo” riesce: Pasolini sceglie scientemente il più “laico” dei quattro Vangeli, quello di Matteo, dove meglio traspare il lato umano del Cristo, il suo essere persino, a volte, severo e combattivo, altre volte cupo, sconsolato e quasi avvinto dall’enorme peso del suo destino. Il Vangelo di Matteo presenta, maggiormente rispetto agli altri, una struttura fatta di quattro episodi quasi a se stanti, con balzi temporali ed ellissi nella narrazione e Pasolini si rifà ad esso rigorosamente, fedelmente ed in modo pressoché assoluto. In realtà, alcune piccole differenze sono riscontrabili soprattutto nella dilatazione di alcuni episodi da parte del regista, in particolare per mettere in risalto, con estrema efficacia e delicata poesia, il dramma umano ed interiore di alcuni personaggi quali Maria, Pietro o Giuda. Ma questi “peccati veniali”, commessi in nome del lirismo pasoliniano, nulla tolgono alla fedeltà testo-film, anzi migliorano il senso artistico dell’opera, regalandoci momenti intensi, struggenti e sublimi. In particolare la sequenza del tradimento di Simon Pietro è un momento di grandissimo cinema e di superba regia, con quello zoom in - zoom out eseguito con la camera a mano, a sottolineare i diversi stati d’animo di paura, vergogna e dolore. Il “miracolo” riesce, dicevamo, e così un marxista, un non credente, boicottato dalla Chiesa e dalla morale borghese riesce nell’impresa di raccontare, con sguardo laico e stile asciutto, la storia di Gesù Cristo, raggiungendo vette di altissima poesia e di sublime misticismo come mai più nella sua carriera, pur non rinunciando ai contenuti a sfondo politico e sociale, qui però elevati su una dimensione ascetica ed universale. In tal senso, questo “miracolo” è figlio dei suoi tempi: tempi in cui si avvia il dialogo e la distensione tra la sinistra e la religione cattolica, anche grazie ad insigni figure come papa Giovanni XXIII o Aldo Moro. Dialogo che, più in avanti, culminerà con il “compromesso storico” ed il primo governo a partecipazione di sinistra. E, non a caso, il film di Pasolini è dedicato al “papa buono”. Ecco, come premesso in avvio, che vita ed arte, contesto storico-sociale ed opera cinematografica, per Pasolini più che per chiunque altro, si intersecano, si influenzano e si confondono in una sinergia di intenti e di ambizioni.

Dopo avere effettuato alcuni sopralluoghi in Palestina, cioè nei veri luoghi della vita del Cristo, Pasolini si convince, anche per motivi di budget, di girare il film a Matera, nel Meridione d’Italia, e ricorre, coerentemente alla sua estetica, ad attori non professionisti, sconosciuti e comparse prese in loco: contadini dal volto fiero e segnato da una vita rude e faticosa. La splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e le superbe musiche di Luis Bacalov, mescolate a classici come Bach e Mozart, si aggiungono a magnificare il tutto, dando vita ad un capolavoro di rara bellezza. Per la cruciale scelta del personaggio principale, il regista si affidò, coraggiosamente, al giovane studente spagnolo Enrique Irazoqui, conosciuto quasi per caso perché questi stava scrivendo una tesi sulle poesie di Pier Paolo Pasolini. I tratti somatici spigolosi e poco “cristologici” del giovane catalano, tra l’altro doppiato dall’ottimo Enrico Maria Salerno, ci regalano un Cristo atipico già nell’aspetto, un Cristo pensoso e scuro in volto, raramente angelico, più medievale che prossimo alla tranquillizzante iconografia rinascimentale, alla quale siamo più abituati. Lo stile registico è rigoroso, c’è un notevole utilizzo della camera a mano che regala al tutto un estremo realismo. Vi sono frequenti passaggi dai campi lunghi ai primi piani, i quali rimarcano così sia lo spirito epico che gli stati d’animo dei personaggi, ed anche l’utilizzo del montaggio è spesso geniale e visionario: specialmente nel meraviglioso “Discorso della Montagna” dove si alternano le zoomate sul volto di Cristo, le parabole e le immagini simboliche. Il contrasto tra il Pasolini laico e non credente ed il Pasolini “innamorato” di Cristo, è il motivo trainante su cui si basa la pellicola e da cui nascono la sua carica emotiva e la sua incredibile tensione spirituale. E quando queste due forze antitetiche raggiungono un equilibrio si hanno i momenti più elevati, profondi e poetici del cinema di Pasolini. La forza del Cristo di Pasolini è nella parola più che nelle azioni, parole a volte sussurrate a volte urlate con forza, a sottolineare la sua carica umana ed il suo carisma.

Una cosa che colpisce molto nel film è la posizione morale di Pasolini rispetto alla storia che sta raccontando, posizione che poi si traduce nella bellissima estetica che vediamo sullo schermo. Egli si accosta al Cristo, nonostante il suo ateismo, con profondo rispetto, con un candore ed una “pudicizia” etica ed intellettuale che non può non sbalordire. Questo è evidente non solo nelle scene di più profonda empatia e partecipazione emotiva - il Discorso della Montagna, il Getsemani, la Deposizione - ma soprattutto nelle scene in cui il regista sceglie di restare in disparte: si pensi al modo di riprendere il processo, ovvero dal punto di vista di Simon Pietro, o la Via Crucis, con camera a mano e dal punto di vista della folla. Questo distacco nasce da un senso di profondissimo rispetto che oserei definire pudico: Pasolini sceglie di non essere né di fronte né di fianco a Cristo nei momenti più terribili della sua vita terrena, ma resta distante restando fedele al suo concetto di cinema verità con uno stile quasi documentaristico; restando tra le gente, uomo tra gli uomini, evidenziando, altresì, l’impossibilità umana di capire e compenetrare più di tanto il divino e lo spirituale. L’amore è la miglior forma di compenetrazione possibile e Pasolini dimostra di amare la figura del Cristo, di un amore fatto di dolcissimo candore. Egli stesso dichiarò in un’intervista: “Forse è perché sono così poco cattolico che ho potuto amare tanto il vangelo e farne un film”.

Un altro aspetto da evidenziare è l’atmosfera: la fusione tra i toni ruvidi della fotografia, le musiche, autentiche protagoniste di moltissime scene, e le immagini, spesso fortemente ispirate, come già avvenuto ne “La ricotta” ad opere pittoriche, ci regala un mondo selvaggio, seminale, quasi preistorico, ma pregno di senso epico e mistico. L’utilizzo delle musiche avviene in modo estremamente eterogeneo ed a volte quasi “ardito”: infatti, in alcune sequenze, la musica sembra in distonia rispetto alle immagini, sempre in accordo all’utilizzo coltissimo degli ossimori o per aumentare la carica espressiva della scena. “Il Vangelo secondo Matteo” è il settimo film di Pasolini e non è solamente il suo film più bello, ma anche il più importante, perché segna il passaggio dal “cinema di borgata” al “cinema di poesia”. Da segnalare, inoltre, l’esplicita comparsa del “senso della morte”, che accompagna un po’ tutta la produzione artistica pasoliniana e che troverà il suo estremo e nefasto compimento nel suo ultimo film: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.

La pellicola fu giudicata in modo diverso e suscitò reazioni come sempre contrastanti per il cinema di Pasolini: molti critici di sinistra vollero rimarcarne soprattutto l’aspetto umano ed il contenuto “politico” e marxista dove Cristo inteso come figura rivoluzionaria che si dà alle folle per poi portarle nella storia. Molti benpensanti e molti critici di destra criticarono invece il film, sicuramente con un atteggiamento di prevenzione nei confronti dell’autore ma non mancarono critiche anche da certe parti della sinistra. La Chiesa dimostrò invece il suo apprezzamento, addirittura premiando il film. Tutti però riconobbero l’estrema fedeltà al testo evangelico di Matteo. Mi permetto di consigliare questo capolavoro della nostra cinematografia a quanti non lo avessero ancora visto. E’ un film sublime, lontanissimo dagli stereotipi edulcorati di altri kolossal dedicati a Gesù Cristo ed è l’espressione più alta dell’arte e del talento di uno dei maggiori intellettuali vissuti nel nostro paese.

Andrea Claudio Galluzzo

Fonte:
http://www.galluzzo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=7:pasolini-e-il-vangelo-secondo-matteo&catid=2:articoli&Itemid=4


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Curatore, Bruno Esposito

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UCCELLACCI E UCCELLINI (The Hawks and the Sparrows) - Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UCCELLACCI E UCCELLINI (The Hawks and the Sparrows)
Pier Paolo Pasolini
 
UCCELLACCI E UCCELLINI

Regia - Pier Paolo Pasolini
Soggetto - Pier Paolo Pasolini
Sceneggiatura - Pier Paolo Pasolini
Produttore - Alfredo Bini
Fotografia - Tonino Delli Colli, Mario Bernardo
Montaggio - Nino Baragli
Musiche - Ennio Morricone
Scenografia - Luigi Scaccianoce, Dante Ferretti
Paese di produzione - Italia
Anno 1966
Durata - 85 minuti
Colore - Bianco/Nero
Audio - Sonoro
Genere - Commedia, grottesco

Interpreti e personaggi

Totò: Totò Innocenti/Frate Ciccillo
Ninetto Davoli: Ninetto Innocenti/Frate Ninetto
Femi Benussi: Luna, la prostituta
Francesco Leonetti: la voce del corvo
Gabriele Baldini: l'ingegnere
Riccardo Redi: il dentista dantista
Lena Lin Solaro: Urganda la sconosciuta
Rossana di Rocco: amica di Ninetto
Vittorio Vittori: Guitto
Fides Stagni

Premi

Festival di Cannes 1966: menzione speciale a Totò per l'interpretazione

Nastro d'Argento 1967: miglior soggetto originale, migliore attore protagonista (Totò)

 

TRAMA 

Dopo i titoli di testa, cantati da Domenico Modugno sull'immagine di una sbiadita luna diurna attraversata dalle nuvole, incontriamo Innocenti Marcello, detto anche Totò (Totò) e Innocenti Ninetto, primo dei suoi diciotto figli (Ninetto Davoli), che percorrono a piedi le enormi, grigie strade di un'anonima periferia romana, diretti chissà dove.
Strada facendo, aprono e chiudono discorsi apparentemente banali, il cui contenuto metafisico riflette in realtà i più grandi nodi del pensiero occidentale.
I due pellegrini si fermano in un bar, dove Ninetto viene erudito da alcuni ragazzi a ballare l'hully-gully. In seguito, mentre Totò resta a guardare, in mezzo a un capannello di curiosi, il tremendo spettacolo di una famiglia che si è suicidata con il gas in un palazzo di certo abusivo, neanche del tutto terminato di costruire, Ninetto va a pavoneggiarsi con delle ragazzette.
Poi i due proseguono il cammino, riflettendo sul fatto che i poveri, che non hanno nulla da perdere, "passano da una motte a un'altra morte.
Sulle note del canto partigiano "Fischia il vento", un Corvo parlante (versione volatile, un po' aristofanesca del grillo-coscienza di Pinocchio), proveniente dal paese di Utopia, si unisce a loro sul cammino, constatando che, nonostante i due uomini non abbiano una meta precisa (infatti sanno di essere diretti "laggiù", ma non sanno dire dove) dovranno fare "un pezzo di strada insieme".
Dopo qualche perplessità, dunque, incomincia il cammino.
Il Corvo (del quale una didascalia specifica che si tratta di un intellettuale di sinistra prima della morte di Togliatti), con intenti di certo didascalici, narra ai due Innocenti un apologo, una storia che parla di uccellacci e uccellini.
Ci troviamo sette secoli addietro, nella comunità del poverello di Assisi, Francesco, che ha da poco predicato agli uccelli. Il Santo incarica due suoi frati, Frate Ciccillo e Frate Ninetto, di evangelizzare i falchi ed i passeri, di educarli all'Amore Celeste.
Il novizio Ninetto cade nel panico, ma Frate Ciccillo, dotato di un paziente spirito scientifico di osservazione, gli spiega che loro non sono santi come Francesco, "siamo uomini umani, ma con la grazia del Signore abbiamo il cervello".
Frate Ciccillo fa il voto di restare in ginocchio finché non avrà evangelizzato i falchetti della rocca.
Immobile in una piana, dileggiato dai pastori, scrutano con annoiato e a tratti divertito rispetto da Ninetto, Ciccillo passa un anno ad ascoltare i rapaci e ad osservarne i movimenti, finché, in primavera, giunge l'illuminazione: trovata la chiave del linguaggio dei falchi, il fraticello spiega loro il senso divino dell'Amore tra le creature.
"Con la fede ci si crede, e con la scienza ci si vede", commenta soddisfatto Frate Ciccillo.
Ma il lavoro non è concluso. Ora tocca ai passeri. Ciccillo si reca in un paesello, presso delle rovine, e perpetua il voto di restare in ginocchio fino al compimento della missione di evangelizzazione.
Ninetto millanta la santità di Frate Ciccillo, e viene creduto dalle tre vecchie Sora Gramigna, Sora Micragna e Sora Grifagna. Così, di lì a poco, attorno al luogo di osservazione dell'immobile Ciccillo, viene costruito un altarino votivo, e sorge un vero e proprio mercato di reliquie, con tanto di cortei di storpi ed infelici che vogliono farsi miracolare dal nuovo Santo.
Ma ben presto Ciccillo si rivolta, e caccia i nuovi Mercanti dal Tempio.
Dopo varie false partenze, Ciccillo capisce che i passeri comunicano a balzelli, e, balzando, li educa all'Amore Celeste. Frate Ciccillo, finalmente gioioso, compone all'improvviso un nuovo Canto delle Creature, più ingenuo e meno ascetico di quello del Santo Poverello ("Beato sii per questo monno, che ce ponno campà tutti, pure quelli che non ponno").
Proprio quando la missione sembra definitivamente compiuta, nel mezzo del festeggiamento, i due fraticelli osservano un falchetto agguantare un passero e sbranarlo. Ciccillo e Ninetto sono presi dalla disperazione. Tornano da Frate Francesco, al quale Ciccillo spiega che "I falchi come falchi l'adorano il Signore. E pure li passeretti, come passeretti, per conto loro je sta 'bbene, l'adorano il Signore. Ma il fatto è che fra loro se sgrugnano, s'ammazzano. E che ce posso fa io se ci sta la classe dei falchi e quella dei passeretti, che non possono andà d'accordo fra di loro?"
Frate Francesco gli risponde che "tutto se po' fà", perchè il mondo va cambiato, e profetizza l'avvento di un uomo dagli occhi azzurri (Marx) che cambierà il mondo, citando Il Capitale.
I due fraticelli tornano, pazienti, alla loro missione.
Il racconto ha termine, e Totò e Ninetto, perplessi, proseguono il cammino assieme al Corvo. Tanto Totò che Ninetto sono presi da un bisogno corporale urgente, e si appartano dietro delle frasche per liberarsi.
Il padrone del campo, aiutato da altri buzzurri, li minaccia, perché vuole che portino via dal suo campo quanto hanno appena prodotto. Scoppia una guerra, con tanto di spari con la doppietta da parte della moglie del padrone del campo.
Mentre i due fuggono, si sentono in sottofondo rumori di cannoneggiamenti. I signori Innocenti si recano quindi in una orribile bicocca di loro proprietà, data in affitto ad una poverissima famiglia di contadini, per ricevere il pagamento del mensile. Sono accolti da un uomo e una donna costretti a mangiare i nidi delle rondini e a tenere i bambini a letto tutto il giorno per non fargli chiedere da mangiare, dicendogli che "è ancora notte".
Totò ha già pignorato ai contadini quasi tutto, e minaccia di adire le vie legali. Quindi, supplicato di avere pietà dalla miserrima contadina, con disprezzo, se ne va.
Il Corvo gli dice di stare attenti ai pesci grossi che mangiano quelli piccoli.
Sulla strada i tre incontrano una compagnia di guitti la cui Cadillac s'è fermata. E nonostante gli sforzi di Totò e Ninetto, l'auto non riparte.
La prima attrice partorisce all'ombra dell'automobile, e la bimba che nasce viene accolta dal gruppo con gioia e rassegnazione.
Marcello/Totò, infine, viene truffato da uno degli amori: gli viene rifilato per callifugo un antifecondativo andato a male.
Successivamente, Totò e Ninetto si recano a casa di un Ingegnere, loro padrone di casa, dove trovano in pieno svolgimento il convegno dei "Dentisti Dantisti".
Come profetizzato dal Corvo, il pesce grosso si accinge a mangiare il piccolo. Totò, prostrato a terra con Ninetto da due pastori tedeschi, spiega ad un indolente Signor Ingegnere che non può pagarlo, facendogli un elenco delle sue disgrazie analogo a quello che la contadina aveva fatto a lui. Anche l'ingegnere non si commuove, e minaccia i due di farli finire in galera, poi se ne va.
Totò e Ninetto maturano per qualche istante dei propositi di rivalsa sociale, e sulle note di Fischia il vento incontrano dei passi silenziosi di uomini di cui vediamo solo i piedi spuntare da poveri vestiti neri.
Proseguendo, vediamo, in controcampo ai due, le immagini dei funerali di Togliatti.
Il Corvo, ormai stanco, rinuncia a conoscere la meta dei due Innocenti.
Di nascosto dal Corvo moralista, prima l'uno poi l'altro, Totò e Ninetto si accoppiano con una prostituta che si chiama Luna, fingendo di andare a fare dei bisogni. Il Corvo comincia a parlare senza requie. A quel punto Totò, visti vanificati tutti i tentativi di seminare il Corvo, decide di mangiarlo, perché "tanto, se non ce lo mangiamo noi, se lo mangia qualchedun'altro".
Totò agguanta il Corvo e gli tira il collo. I due Innocenti lo arrostiscono, lo mangiano, e "vanno di spalle, per la strada bianca, verso il loro destino come nei film di Charlot", mentre un aereo sfreccia nel cielo.
 
COMMENTO - La tensione tragica che aveva attraversato la prima fase della cinematografia pasoliniana si infrange, con Uccellacci e uccellini, in una selva di metafore dalla comicità amara, esaltate dalla mutata maschera di Totò. Il grande comico fu diretto da Pasolini in modo tale da essere completamente trasformato: la sarcastica aggressività di sempre, così simile nell'irriverenza a quella dei sottoproletari di Accattone, viene costretta entro gli angusti limiti di un personaggio simbolo di tutti i "tipici eroi neorealistici, umili, noiosi e inconsapevoli", e assume così una posa di rassegnata ironia, di tristezza solo a tratti ridanciana; molto più simile nello spirito al volto da normale borghese di Keaton che non a quello del nobile straccione vagabondo Chaplin (la cui allegria infantile semmai è in parte riflessa dal saltellante e giocoso interrogarsi sulla vita di Ninetto). Il lestofantismo vitale del "tira a campare" napoletano si stempera nell'inconsapevolezza proterva di quell'infima borghesia "nazionale" che assolutizza valori morali che non comprende affatto, e che emula goffamente frasi e atteggiamenti di quelle classi superiori di cui è succube.
Così, il senso di disfatta e di disillusione che Pasolini esprime con Uccellacci e uccellini nasce in primo luogo dal contrasto tra la "pura esistenza" di Totò e Ninetto, che stanno al mondo senza mai giungere a domandarsi né il perché né il "verso cosa" della loro vita penosa, e la "pura cultura" del Corvo, ingannata nella sua ottica di riscatto da una fede cieca nella Storia che finisce per sottrarre veridicità ed efficacia alle proprie analisi politiche, ormai incomprensibili agli effettivi destinatari del messaggio marxista.
Un dialogo impossibile tra lingue estranee l'una all'altra, che, come il cammino insensato dei protagonisti, "appena incomincia è già finito". Pasolini non crede più nella possibilità di comunicare la cultura attraverso l'evidenza dei fatti o dei sentimenti (il Corvo afferma che sono finiti i tempi di Rossellini e di Brecht), e, per liquidare la disillusione che ne deriva, non gli resta che mettere in scena simbolicamente il proprio fallimento.
 
La nuova "lingua nazionale", infatti, quell'idioma nato dallo stillicidio culturale operato dal gergo giornalistico-tecnologico, ha oramai compiuto la rivoluzione delle coscienze alla rovescia, in direzione di un'omologazione delle masse senza più scampo: l'abbrutimento, l'anestesia dalla propria condizione di ingiusta subordinazione, sono assicurate dalla diffusione di concetti e neologismi consumistici totalmente vuoti di senso, ma che hanno il potere di intrappolare il pensiero medio in un'etica perbenisticamente conservativa, dedita, piuttosto che al riscatto dalla propria condizione, a sfruttare edonisticamente il tempo libero, riproducendo in piccole abitudini borghesi martellantemente diffuse dai mezzi di comunicazione di massa come unico modello possibile.
Crisi della prassi marxista, dunque, significa per Pasolini non credere più nella possibilità di mantenere intatta l'ideologia senza riformularne i concetti e le analisi: propriamente, creando un linguaggio "altro", estraneo alla logica borghese. La ricerca di nuove forme di comunicazione attraverso la rivoluzione formale di quel "linguaggio della realtà" che è il film, sarà uno degli assi portanti della nuova fase del cinema pasoliniano che si apre con Uccellacci e uccellini.
In questo senso diventa emblematico che per esprimere la sua crisi il regista scelga un registro interamente metaforico, che si presta a differenti livelli di lettura e che propone simboli al posto delle antiche "tipologie umane" del suo cinema "popolare"; simboli che, in quanto tali, rifiutano una decifrazione definitiva, una loro ideologizzazione riduttiva. Solo a tratti riaffiorano momenti dell'antico gusto per l'epifania, per il contrasto stridente e improvviso tra epoche coesistenti e lontanissime, ma la fragile e salvifica grazia della Bellezza e l'orrore della Civiltà: come nella scena in cui una ragazzetta vestita da angelo per una recita, scompare e riappare tra i piani dissestati di un palazzo in costruzione sotto gli occhi abbacinati del sognante Ninetto.
Ma la volontà di esprimere un'evidenza tragica è costantemente subissata da un senso di vanificazione, derivante dalla sconfitta immaginaria in una guerra mai combattuta. Una guerra che ormai si trasforma nel puro gusto dell'arabesco intellettuale, nello specialismo fine a se stesso e incomunicante: come.quello del convegno dei fantomatici Dentisti Dantisti, stigmatizzati nella bunueliana figura dell'intellettuale che dirige con foga un concerto immaginario, grottesco figuro che perpetua i gesti del direttore senza più un'orchestra da dirigere, infervorato da una musica che ormai sente soltanto lui.
Se però da una parte la visione pasoliniana si tinge indubbiamente di pessimismo, è pur vero che non si tratta di pessimismo "cosmico".
Pasolini non rinuncia affatto a pensare alla possibilità di una vera Rivoluzione delle coscienze, ma sente di non identificarsi più nel linguaggio della falsa coscienza ideologica: "sono passare di moda le ideologie, ed ecco qui uno che continua a parlare di non si sa cosa a degli uomini che vanno non si sa dove", dice il Corvo.
E poco dopo: "Non pensi però, signor Totò, che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono
convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. Io piango solamente su me stesso. È umano, no, in chi sente di non contare più", fa dire il regista alla sua anima veteromarxista che sta per lasciare per sempre dietro le spalle.
 
Pasolini ha definito Uccellacci e uccellini un "film in prosa", riferendosi soprattutto alla maggiore "cinemarograficità" della narrazione (che ha ormai abbandonato gli stilemi iconografico-narrativi del muto e i salti Iogico-temporali): pur tuttavia, sul piano semantico, per così dire, nessun film come Uccellacci e uccellini è costruito in maniera più "poetica", cioè attraverso situazioni il cui significato è di per sè indefinibile, allusivo, propriamente non un "messaggio" ma il riflesso di una situazione interiore, di un mondo di pura suggestione.
Tra i simboli più importanti di questa favola, troviamo la "colpevolezza" degli Innocenti, che col loro non capire perpetuano l'andazzo di un mondo ingiusto del quale pure si lamentano; il Corvo, che è il pensiero intellettuale, il quale per sopravvivere alla nuova barbarie deve morire sbranato e digerito da gente che lo sente come un peso, una scocciatura obbligata, e che lo mangia per l'unico, opportunistico motivo che "tanto se non ce lo mangiamo noi se lo mangia qualchedun'altro" (il rapporto esclusivo e borghese con la cultura come merce); la Luna, sotto molteplici forme (quella ricorrente della luna diurna, che Totò pensa di vedere solo lui la prostituta senza cervello di nome Luna con cui si accoppiano entrambi gli Innocenti, la luna di cui viene detto che è responsabile dell'immondizia perché è causa delle alte maree che portano le schifezze dal mare), che è forse il residuo mercificato dell'ideologia che non illumina più la coscienza di quanto una luna diurna illumini la terra; gli autobus che tutti i personaggi perdono di continuo, catacresi del modo di dire popolare, che denunciano la perduta possibilità della rivoluzione e la fine di un'intera civiltà, ormai ritornata alla barbarie, nel suo Dopostoria; gli aeroplani che si alzano e sovrastano la terra con il loro rumore assordante, a denuncia della grossolanità dello pseudo-progresso che tutto sommerge.
 
Con Uccellacci e uccellini si chiude definitivamente il sogno da cui tutta l'avventura cinematografica di Pasolini aveva avuto origine: quello di elaborare un linguaggio in grado di parlare a tutti, rivolto ad un popolo inteso nel senso gramsciano del termine come "altro" dalla borghesia.
Constatato l'avvento, al posto di quel popolo, di una massa costruita ad hoc, dall'alto, ad opera della classe borghese, una massa la cui semplicità apparente è in realtà volontà di disimpegno e di volgarizzazione, Pasolini epura gradualmente i suoi film da quella che poteva esserne fino ad allora ritenuta la "cifra": il carattere popolare. Il linguaggio dei suoi film, fatto di immediatezza realistica ed evidenza quasi didascalica, d'ora in poi diverrà un linguaggio implicito, o, come lo definirà il regista, un "linguaggio della realtà", sempre di più volto all'approfondimento della ricercai visiva, all'abbandono della residua "letterarietà" dei primi film, a far parlare la realtà stessa, a mettere in moto l'enorme forza comunicativa implicita nella costruzione delle immagini.
Tutto questo, con un unico scopo: sottrarre il messaggio antiborghese ai cliché-di una falsa dialettica borghese-antiborghese, pagando consapevolmente il prezzo della perdita di una comprensibilità immediata del messaggio. Dell'antica irruenza antiborghese resta una critica dialettica ai valori su cui la società di massa si sta edificando, critica tanto più penetrante quanto più non tira le somme dell'infinita contraddizione che della società è in grado di mettere a nudo sviscerandone la falsità e l'inconsistenza.
Il vero antagonista di questa società non va più visto nel "popolo" occidentale, ormai massificato e scomparso, ma in una realtà altra, molto più semplice, più etnologicamente basilare.

Anche Uccellacci e uccellini, sul piano delle traversie giudiziarie, non fece eccezione: andò incontro all'ostracismo delle autorità censorie, le quali, mentre il film veniva presentato al Festival di Cannes (dove fu premiata l'interpretazione di Totò) nel maggio del 1966, ne vietarono in Italia la visione ai minori di diciotto anni (divieto solo in seguito ridotto, per decreto, a quattordici anni). Ma le reazioni più violente nei confronti della critica a tutto campo rivolta da Pasolini alla società nel suo equilibrio tra potere e antipotere, si avranno proprio da parte di quella sinistra che rappresenta l'élite tradizionale, con cui l'intellettuale Pasolini continuerà a confrontarsi sempre più drammaticamente, con una incomprensione sempre maggiore.
 
Fonte:
 
 

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini e Pound - Pound o della poesia-pazzia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Tratto da:



In the Theater of my Mind:
Authorship, Personae, and the Making of Pier Paolo Pasolini’s Work

Gian-Maria Annovi

Submitted in partial fulfillment of the
requirements for the degree of
Doctor of Philosophy
in the Graduate School of Arts and Sciences

COLUMBIA UNIVERSITY
2011
© 2011
Gian-Maria Annovi


Pound o della poesia-pazzia




 
 “Non amo Pound.” (49) Così Pasolini rispondeva a una lettera di Mario Costanzo in cui il critico gli chiedeva di contribuire con una testimonianza a un numero della rivista di lettere e arti “Stagione,” dedicato a Montale, Pound e Solmi. Era il 25 settembre 1955, lo stesso anno in cui un gruppo d’intellettuali italiani – tra i primi firmatari lo stesso Sergio Solmi e Diego Valeri – aveva iniziato a far circolare una petizione per la liberazione del poeta americano, rinchiuso da dieci anni nel manicomio criminale di St. Elizabeth a Washington, con l’accusa di tradimento, per aver preso le parti del fascismo e aver criticato in termini violenti l’invasione angloamericana dell’Italia.

   A confermare il disamore pasoliniano per Pound, all’epoca dovuto soprattutto a un chiaro pregiudizio di natura politica e con tutta probabilità anche alla non approfondita conoscenza della sua opera, c’è poi una lettera ai redattori di “Officina” in cui accenna, tra i vari interventi previsti per il numero 7 della rivista, a “una nota di Bassani per Pound – contro la richiesta di scarcerazione.” (50) Nonostante la nota non sia poi stata pubblicata – in quanto non pervenuta – pare interessante che Pasolini si premuri di ospitare un contributo contro Pound proprio mentre l’establishment letterario internazionale sta conducendo un dura battaglia a favore della liberazione del poeta. D’altra parte, anche il suo durissimo intervento contro il monumento a d’Annunzio, pubblicato su “Vie Nuove,” uno degli organi di stampa del Partito Comunista, era uscito contro il parere di Palmiro Togliatti, che voleva invece dare spazio a una “rivalutazione” del vate, perché “pensava potesse tornare utile tra gli elettori del Veneto conservatore.” (51)

   L’anno successivo, il 1957, nell’ormai celebre saggio intitolato “Il neosperimentalismo,” pubblicato sulle pagine di “Officina,” Pasolini si scaglia di nuovo contro il numero di “Stagione” dedicato a Pound, assumendo il poeta americano ad esempio di quella “religione letteraria, implicante soprattutto la fede in un privilegio sociale e politico del poeta (quello, insomma, degli omaggi a Pound.”(52) Se Pound non fosse un poeta, ci dice insomma Pasolini, non vi sarebbe nessun “caso Pound” e lo zio Ez potrebbe tranquillamente restare in manicomio come ogni sostenitore del fascismo che si rispetti, senza turbare nessuna coscienza.
A pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, quale scrittore italiano, omosessuale e marxista, Pasolini non può accettare l’idea che un americano, eterosessuale, già antisemita e “zelatore di Mussolini”(53) possa essere un poeta degno di essere apprezzato, men che meno un modello autoriale. Tale pregiudizio, occorre precisarlo, non era poi così isolato tra gli intellettuali nell’Italia degli anni Cinquanta, ancora scossa dalla visione del profondo baratro in cui il fascismo aveva trascinato l’Italia, ma le difficoltà personali e i pregiudizi che Pasolini si era trovato ad affrontare, il suo essere attaccato e criticato anche da parte della cultura di sinistra dell’epoca, rendono difficile da comprendere l’intransigenza mostrata per il grande poeta americano, tra le più importanti figure del modernismo letterario.
   Sorprendentemente, il 1967, dieci anni dopo un giudizio apparentemente inappellabile, è invece da considerarsi come l’anno della svolta poundiana di Pasolini, segnato non solo dalla famosa e controversa intervista televisiva Un’ora con Ezra Pound, di cui mi occuperò tra poco, ma anche da affermazioni come questa:

   Non penso affatto che il nostro sia un secolo culturalmente infelice. Al
contrario, da Rimbaud a Pound, mi pare che sia un grandissimo secolo. Non ce n’è altri, che mi piacciano altrettanto, che abbiano prodotto opere così attraenti.(54)

   Com’era già capitato con il giudizio entusiasta sul d’Annunzio di Allegoria dell’Autunno, con questa affermazione Pasolini spiazza completamente il suo lettore. Ciò che però colpisce non è solo il ribaltamento del giudizio negativo formulato su Pound precedentemente, ma il fatto che si delinei un arco di magnitudo poetica che ha come estremi due poeti ideologicamente agli antipodi nel sistema poetico pasoliniano. Mentre Pound era dapprima stato rifiutato proprio per il suo filo-fascismo, Rimbaud è infatti associato nell’autobiografia idealizzata di Pasolini al nascere della sua coscienza politica: “sono diventato antifascista per aver letto a sedici anni una poesia di Rimbaud.”(55) Non occorre prestar fede all’istantaneità della illumination pasoliniana, per comprendere quanto sia curiosa agli occhi di uno studioso l’associazione tra Pound e Rimbaud: il primo, infatti, era stato collaboratore de Il Meridiano di Roma(56) e  autorizzato (57) dal Fascio a trasmettere da Radio Roma una trasmissione che ebbe “l’unico effetto di spingere la cultura anglo-americana ad esecrare le idee politiche del poeta, in forma pubblica e plebiscitaria,”(58) il secondo esponente “di una cultura che il regime disapprovava e respingeva.”(59)
   La riconciliazione di Pasolini con l’autore dei Cantos va forse allora cercata in quella “crisi della rappresentazione, con conseguente netta scissione tra soggetto e oggetto, tra esperienza individuale e cosa”(60) che segna fortemente la poesia italiana degli anni Sessanta. La messa in discussione del soggetto poetico operata selvaggiamente da Rimbaud si rivela infatti nell’esperienza poundiana come possibilità di disseminazione dell’io poetante in un caleidoscopio di persone, un’idea che certo non può che aver affascinato Pasolini. Inoltre, in netto contrasto con quanto avviene nella poesia di d’Annunzio, l’opera di Pound si presenta come un atto violento contro l’idea di forma, e nei Cantos in particolare, i materiali linguistici più disparati si aggregano in un tessuto ininterrotto, una dizione totale che arriva a includere l’ideogramma.(61) Nel 1967, Pasolini ha da poco pubblicato Poesia in forma di rosa (1964), la sua raccolta più sperimentale dal punto di vista strutturale insieme a Trasumanar e organizzar: nonostante ad imporsi violentemente sia ancora il significato, Pasolini perfeziona una tecnica di montaggio di materiali disparati (linguaggio poetico, cinematografico, giornalistico, prosastico, intervista) che contribuiscono a creare un “effetto magma” (“Sono tornato tout court al magma!;” “col fervore che opera mescolanze di materie / inconciliabili, magmi senza amalgama,”),(62) molto simile a un “effetto Pound.” Inoltre, il continuo riferimento a progetti di scrittura in corso apre l’opera al non finito, e l’indicazione di lacune, gli abbondanti punti sospensivi, gli omissis, rivelano un discorso non terminabile, in fieri, che inciampa nelle faglie stesse di un soggetto traumatizzato e mutilo (“come un gatto bruciato vivo, / pestato dal copertone di un autotreno […] come un serpe ridotto a poltiglia di sangue / un’anguilla mezza mangiata”).(63)
   Tra i fattori che possono aver contribuito al mutato atteggiamento di Pasolini nei confronti di Pound c’è poi la sua avvenuta liberazione – nel 1959 – e il suo quasi immediato ritorno in Italia, seguito da numerosi eventi celebrativi e importanti traduzioni.
   Nel 1957 escono i Saggi letterari, mentre a partire dal ’58 l’editore Vanni Scheiwiller inizia la pubblicazione di testi come Lo spirito romanzo e Hugh Selwyn Mauberley e nel 1961 escono finalmente I primi trenta Cantos.(64) Inoltre, nel 1967 Pasolini ha già ampiamente sperimentato sulla propria pelle ciò che significa un’esposizione prolungata nella gabbia – metaforica, nel suo caso – della giustizia.(65) Come già ho avuto modo di ricordare, ogni sua opera a partire dal 1955 – i romanzi Ragazzi di vita (1955), Una vita violenta (1959) e i film Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e La ricotta (1962) – è oggetto di estenuanti processi, censure, e campagne diffamatorie da parte della stampa.

   Lo scandalo che Pasolini è giunto lentamente a incarnare, trasformato in un principio attivo della propria poetica autoriale, lo porta in una certa misura ad identificarsi con lo scandaloso Ezra Pound, con il “folle” e controverso poeta americano.
   Anch’egli, infatti, non perde occasione per dichiarare il suo disgusto a sentirsi cittadino italiano,(66) così come Pound aveva dichiarato il suo disprezzo per la società americana dai microfoni di Radio Roma:
I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia (un epigramma intitolato Alla mia nazione) di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi – nei casi migliori – perché sono un poeta, cioè un matto. Come Pound: che è stato fascista, traditore della patria, ma lo si perdona in nome della poesia-pazzia…(67)
 
 È dunque nel solco della poesia-pazzia che Pasolini si ritrova traditore della patria tanto quanto lo è stato Pound, a detta di Montale, “il più bel esemplare di poeta pazzo dei nostri tempi.”(68) A ciò va poi aggiunto lo straordinario effetto prodotto su Pasolini dal suo primo viaggio negli Stati Uniti, il paese natale di Pound.
   Giunto a New York, nell’Agosto del 1966, la metropoli lo folgora letteralmente, come racconta in un’intervista ad Oriana Fallaci: “New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent’anni.”(69) Si tratta di un viaggio importantissimo per Pasolini, che scorge nelle lotte giovanili in corso negli Stati Uniti il vitalismo della democrazia ed entra in contatto per la prima volta con il movimento Beat. In particolare, conosce Allen Ginsberg, un altro poeta che all’epoca era da molti considerato come un poeta-pazzo. Ecco cosa gli scrive in una lettera del 18 ottobre 1967:

Dear angelic Ginsberg, last night I heard you saying everything that came into your mind about New York and San Francisco, with their flowers. I have told you something about Italy. Flowers only to be found in the forest. Your city is a city of insane people, mine of idiots. You rebel against insanity with insanity (giving flowers even to policemen) but how can one revolt against idiocy?(70)

   Nella stessa lettera, in italiano pervenutaci incompleta a causa del deterioramento della dattilografia ma fortunatamente tradotta interamente in inglese e pubblicata dallo stesso Ginsberg e da Annette Galvano sulla rivista newyorkese “Lumen/Avenue A,”71 Pasolini cita anche Pound, il quale, insieme a Wagner e Nietzsche, avrebbe assunto erroneamente l’intera colpa per la follia in cui è precipitata la società borghese, provocata invece della medesima Pratica e Ragione sottese al linguaggio marxista della protesta.(72)

   Con ogni probabilità, scoprire che anche l’uomo che in quel momento era considerato il più interessante e scandaloso poeta della sua generazione, Allen Ginsberg, omosessuale e pacifista di sinistra, aveva una vera e propria venerazione per Pound, e che questa venerazione andava ben oltre il suo trascorso politico, deve aver scosso profondamente la percezione di Pasolini, tanto da farlo diventare immediatamente un modello autoriale. Il poeta americano, con la sua diretta partecipazione alla vita politica della sua generazione, rappresenta ai suoi occhi tutto quello lui che vorrebbe rappresentare in Italia. È infatti Ginsberg il poeta che Pasolini descrive alla fine di Poeta delle ceneri,(73) tracciando un proprio ideale ritratto: “Vorrei esprimermi con gli esempi.


Gettare il mio corpo nella lotta […] Le azioni della vita saranno solo comunicate, / e saranno esse, la poesia, / poiché […] non c’è altra poesia che l’azione reale.”(74)

   L’identificazione arriva al punto da chiedergli d’interpretare il ruolo di Cristo nel suo Il vangelo secondo Matteo, e da impiegare il celebre incipit di “Footnote to Howl” nel monologo del Centauro nel suo Medea, girato l’anno successivo: “Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c'è niente di naturale nella natura.”(75)


Note:

49 Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini (Torino: Einaudi, 1988), 125.
50 Ivi, 221.
51 Schwartz, 536.
52 Pasolini, “Il neo-sperimentalismo,” Passione e ideologia, SLA, 1223. Pasolini si riferisce, con qualche imprecisione bibliografica a Iconografia italiana di Ezra Pound, a cura di V. Scheiwiller, con traduzioni di S. Quasimodo, G. Ungaretti, P. Jahier, V. Sereni, A. Bertolucci, E. Montale e M. de Rachewiltz (Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1955); Nuova Corrente, numero a cura di M. Cartasegna, A. Rizzardi, L. Sciascia, G. Sechi, 5-6 (gennaio-giungo, 1956); Stagione, a cura di M. Costanzo e V. Scheiwiller, 5 (1955).
53 Eugenio Montale, “Fronde d’alloro in un manicomio,” Corriere della Sera, 3 marzo 1949, ora in Sulla poesia, a cura di G. Zampa (Milano: Mondadori, 1976), 446.
54 Pasolini, “Se nasci in un piccolo paese sei fregato,” intervista rilasciata a M. Cancogni, La Fiera
Letteraria XXII, 50, 14 Febbraio 1967, ora in Pasolini, SPS, 1613.
55 Pasolini, “Febbraio 1975. Cani,” SPS, 393.
56 Cfr. Caterina Ricciardi (a cura di), E. Pound, Idee fondamentali. ‘Meridiano di Roma’, 1939-1943
(Roma: Lucarini, 1991).
57 Secondo i documenti analizzati da Ulisse Belotti (cfr. “Ezra Pound e ‘il proiettile magico’,” Confronto letterario: Quaderni del Dipartimento di lingue e letterature straniere moderne dell’Università di Pavia, Vol. 14, 27, [1997]: 311-28) l’attività di Pound non fu mai approvata ma solo tollerata dal regime che non smise mai di sospettare che egli fosse una spia: “Sebbene in passato abbia (Pound) manifestato sentimenti favorevoli al Fascismo non si può escludere che la sua offerta di collaborazione nel campo della radiotrasmissione sia dettata da secondi fini” (Archivio Centrale dello Stato, Fondo PS J5, Busta B 272, Fascicolo E. Pound).
58 Niccolò Zapponi, L’Italia di Ezra Pound (Roma: Bulzoni, 1976), 64.
59 Pasolini, “Pasolini su Pasolini,” SPS, 1290.
60 Franco Buffoni, “Considerazioni su Pound e la poesia italiana del Novecento,” Ezra Pound educatore. Atti del convegno internazionale Milano 17-18-19 1997, a cura di L. Gallesi (Milano: Terziaria, 1997), 181.
61 In Petrolio, anche Pasolini progetta di inserire passi tradotti in giapponese o neo-greco.
62 Pasolini, “Una disperata vitalità” e “Progetto di opere future,” Poesie in forma di rosa, TP, Vol. I, 1185; 1246.
63 Pasolini, “Una disperata vitalità,” 1183.
64 Ezra Pound, Saggi letterari, a cura e con introduzione di T. S. Eliot, trad. di Nemi d’Agostino (Milano: Garzanti, 1957); Lo spirito romanzo, trad. di S. Baldi (Firenze: Vallecchi, 1959); H.S. Mauberley, trad. di G. Giudici (Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1959); I primi trenta Cantos, trad. di M. de Rachewiltz, (Milano: Lerici-Scheiwiller, 1961).
65 Durante il suo periodo di prigionia in Italia, Pound era stato rinchiuso in una gabbia per animali,
all’aperto, una condizione testimoniata anche da questo versi dei Pisan Cantos: No man who has passed a month in the death cells believes in cages for beasts.”
62 Pasolini, “Una disperata vitalità” e “Progetto di opere future,” Poesie in forma di rosa, TP, Vol. I, 1185; 1246.
63 Pasolini, “Una disperata vitalità,” 1183.
64 Ezra Pound, Saggi letterari, a cura e con introduzione di T. S. Eliot, trad. di Nemi d’Agostino (Milano: Garzanti, 1957); Lo spirito romanzo, trad. di S. Baldi (Firenze: Vallecchi, 1959); H.S. Mauberley, trad. di G. Giudici (Milano: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1959); I primi trenta Cantos, trad. di M. de Rachewiltz, (Milano: Lerici-Scheiwiller, 1961).
65 Durante il suo periodo di prigionia in Italia, Pound era stato rinchiuso in una gabbia per animali,
all’aperto, una condizione testimoniata anche da questo versi dei Pisan Cantos: No man who has passed a month in the death cells believes in cages for beasts.”
66 Di tale fenomeno, rendono conto anche questi versi della poesia “Una premessa in versi”: “Quante volte rabbiosamente e avventatamente / avevo detto di voler rinunciare alla mia cittadinanza italiana!,” Pasolini, “Poeta delle ceneri, TP, Vol. II, 1272.
67 Pasolini, “Una polemica su politica e poesia,” SPS, 972.
68 Eugenio Montale, “Il mistero di un poeta. Ezra Pound,” Corriere dell’informazione, 26-27 aprile 1958, ora in La poesia, 500.
69 Pasolini, “Un marxista a New York,” SPS, 1598.
70 Pasolini, Lettere 1955-1975, 632. [corsivi miei]
71 Lumen/Avenue A, I, 1 (1979).
72 “Why do I lament this official language of protest which the working class, through its bourgeois
ideology, has given me? Because it is the language which doesn’t ever leave out the idea of power and it is therefore always practical and reasonable. But aren’t practicality and reason the same goddesses who have made our bourgeois fathers madmen and idiots? Poor Wagner and Nietsche! They have taken all their guilt. And let’s not speak of Pound!,” Pasolini, Lettere 1955-1975, 632.
73 Un testo, occorre ricordare, scritto proprio per essere tradotto in inglese e pubblicato su una rivista
americana.
74 Pasolini, “Poeta delle ceneri,” TP, Vol. II, 1287. Nella stessa poesia scrive anche “Io amo Ginsberg: / era tanto che non leggevo poesie di un poeta fratello,” 1267.
75 1274 “Holy! Holy! Holy! […] Everything is holy! everybody’s holy! everywhere is holy!,” Allen
Ginsberg, Collected Poems 1947-1997 (New York: Harper Collins, 2006), 142.


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mercoledì 27 agosto 2014

EDIPO RE - Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



EDIPO RE - Pier Paolo Pasolini
 
 
EDIPO RE


Paese - Italia, Marocco
Anno - 1967
Durata - 104 minuti
Colore - Colore
Audio - Sonoro
Genere - Drammatico
Regia - Pier Paolo Pasolini
Soggetto - Pelliccione
Sceneggiatura - Pier Paolo Pasolini
Fotografia - Giuseppe Ruzzolini
Montaggio - Nino Baragli
Musiche - Pier Paolo Pasolini
Scenografia - Luigi Scaccianoce

Interpreti e personaggi

Franco Citti - Edipo
Silvana Mangano - Giocasta
Alida Valli - Merope
Carmelo Bene - Creonte
Julian Beck - Tiresia
Ninetto Davoli - Anghelos
Luciano Bartoli - Laio
Ahmed Belhachmi - Polibo
Francesco Leonetti - servo di Laio
Giandomenico Davoli - pastore
Pier Paolo Pasolini - gran sacerdote


Prima proiezione - XXVII Mostra di Venezia, 3 settembre 1967


Premi

XXVIII Mostra di Venezia, Premio CIDALC
(Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinema)
Grolla d'oro, Saint Vincent, 6 luglio 1968
Premio Nastro d'Argento 1968 a Bini e Scaccianoce
*
 
Appena terminato di girare “Che cosa sono le nuvole?” (che uscirà solo nel 1968, qualche mese prima di “Teorema”), Pasolini torna in Marocco e dà inizio alle riprese di “Edipo Re”, portando a compimento un progetto che risale ai tempi in cui stava girando “Accattone”.
La stesura del trattamento del film fu compiuta nell'estate del 1966, parallelamente al soggetto di quel “Teorema” che diventerà prima un romanzo "sperimentale", poi un film, nel quale uno dei temi fondamentali della tragedia sofoclea, quello dell'infrazione del tabù sessuale familiare, diventa lo strumento di dilacerazione della coscienza di ciò che resta dell'uomo borghese.

La figura di Edipo interessa Pasolini non solo per la sua statura tragica, e neppure unicamente per le implicazioni psicoanalitiche che nella nostra cultura il mito tragicizzato da Sofocle ha assunto nell'interpretazione freudiana. Pasolini, con questo film, affronta una volte per tutte la sua ansia autobiografica, il suo personale "complesso di Edipo"; ma l'autobiografismo attraverso il quale il regista riscrive la tragedia è piuttosto il superamento della necessità autobiografica, di quella istanza con cui, tre anni prima, sovrapponeva la figura della Madonna a quella della propria madre nel “Vangelo secondo Matteo”, proiettando il mito del proprio presente sul passato.
Il vero tema del film, che sarà sviluppato ulteriormente l'anno seguente con “La sequenza del fiore di carta”, è la colpevolezza dell'innocenza. Nel contrasto tra l'innocenza di Edipo, perseguitato da un destino oscuro e avverso fin dalla sua nascita, e la colpevolezza che ha origine dal rifiuto della verità, si delinea una sorta di "peccato originale" alla rovescia: Edipo é l'uomo a cui è dato conoscere, fin dall'inizio, il proprio destino, ma che combatte contro ciò che sa perché non accetta la consapevolezza del male che è in lui, chiudendo gli occhi: è per questo che deve vagare nei secoli condannato alla coscienza, ma senza poter più vedere il mondo che ha voluto ignorare. Costruendo intorno al testo di Sofocle un prologo e un epilogo ambientati nella contemporaneità, nei luoghi e nei tempi della propria infanzia e della propria maturità, Pasolini carica la figura di Edipo di un'ansia e di un senso di sbandamento che travalicano lo sgomento dell'eroe tragico, così come superano l'evocazione del caso edipico personale. A partire dall'oscuro senso di morte insito nel testo di Sofocle, la vicenda di Edipo diviene l'emblema della "condizione umana" occidentale: quella dì una vita resa cieca dalla volontà di non sapere ciò che si è, di ignorare la propria "verità", quella verità forse terribile, che perfino la marionetta di Otello in “Che cosa sono le nuvole”, a suo modo, cercava.

“Questo è ciò che di Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale innocenza e l'obbligo del sapere. Non è tanto la crudeltà della vita che determina i crimini, quanto il fatto che la gente non tenta di comprendere la storia, la vita e la realtà”..., ha affermato Pasolini.
È dunque l'atteggiamento del chiudere gli occhi di fronte alla propria condizione e proseguire il cammino personale fino alla catastrofe ciò che accomuna Edipo all'umanità del Dopostoria in cui Pasolini vive: ma identificando se stesso con Edipo, archetipo di questa umanità cieca, Pasolini prende definitivamente le distanze dalla sua innocenza colpevole, e riconosce che l'epoca dell'innocenza si è conclusa, che un intellettuale "che sa" (come scriverà di sè qualche anno più tardi su un celebre articolo "corsaro") non può più pretendere di alimentare la speranza attraverso la creazione artistica di un "mondo altro", ma ha il compito di turbare il mondo, di sviscerare in tutta la sua nudità la crudezza delle relazioni sui cui si struttura la società in cui vive.
Edipo, condannato nel finale pasoliniano a vagare ciecamente attraverso i secoli come il vecchio marinaio di Coleridge, giunge nella contemporaneità fino al luogo in cui l'autore ha aperto per la prima volta gli occhi al mondo: Pasolini-Edipo muore dove nasce la coscienza dell'inizio di una nuova vita, dove il mondo si è manifestato all'atto del vedere, non fin dall'inizio, ma in un qui-ora che rendono quel vedere insito nella vita una ricerca del vedere, una palingenesi dello sguardo. Infatti, la rivoluzione "linguistica" che Pasolini compie con il suo Edipo re passa anche e soprattutto attraverso la scelta di abbandonare il piano dialettico, di non presentare più un "messaggio" identificabile e sussumibile attraverso schemi concettuali borghesi. Pasolini lavora alla stesura del film "come uno che ha avuto un'allucinazione", senza un teorema da dimostrare, cercando di trasmettere, in tutta la loro contraddittorietà, le pure emozioni dei personaggi del dramma-tipo della mentalità occidentale.
Il messaggio è tutto nell'evidenza contestuale, nella costruzione di una realtà mitica in cui ogni evento ha luogo quasi senza parole, attraverso gesta violente, suoni, rumori, entro i quali le emozioni dei personaggi, liberate dal vincolo della logica, esplodono in un'immagine assoluta, ambigua, eppure inevitabilmente chiara. Con Edipo re, dunque, Pasolini intraprende quel cammino verso il disvelamento dell'atrocità che, con la parentesi utopistica della trilogia della vita, lo porterà fino alla descrizione della pura violenza di Salò.

A fare da contrappunto al violento istinto di sopravvivenza di Edipo, è la succube, silenziosa, quieta grazia del Terzo Mondo, espressa attraverso i volti della gente comune del Marocco, dove un'antica Grecia immaginaria, volutamente al di fuori di qualsiasi fedeltà filologica, viene ricostruita in mezzo al deserto: in questo modo Pasolini identifica il mondo della verità, quello delle nostre radici storiche e culturali, con uno dei tanti mondi della verità umana rimasti nel presente, quell'isola fuori del Tempo Borghese che è il Nordafrica.

TRAMA
 

* Una pietra miliare indica la città di Tebe: ma la scena ha luogo in un paesino del Nord nell'Italia degli anni '20, dove vediamo una levatrice portare alla luce un bambino. Una donna (Silvana Mangano gioca con delle amiche su di un prato, poi prende con tenerezza il suo bambino in braccio e lo allatta. Sulle note del Dissonanzen Quartet di Mozart, il volto sorridente della madre che allatta è attraversata da un momento di panica, prima di tornare al sorriso. Una soggettiva degli alti alberi del prato ci annuncia che il bambino ha aperto gli occhi per la prima volta al mondo.
Sotto un balcone da cui pende la bandiera italiana con lo stemma sabaudo, un giovane ufficiale guarda con severità il bambino che gioca nella carrozzella. L'uomo é il padre del bambino, ed il suo pensiero è espresso tramite una didascalia: egli teme che sua figlia sia nato per prendere il suo posta sulla terra e ricacciarlo nel nulla, appropriandosi innanzitutto dell'amore della sua donna. Viene la notte. Dopo essersi assicurati che il bambino sta dormendo, i genitori si recano ad una festa da balla in un palazzo attigua al loro, ma poco dopo il bambino si sveglia turbato, esce sul balcone, e vede, attraverso le tende delle finestre, le silouetthes dei genitori che ballano abbracciati.
Esplodono dei fuochi d'artificio, il bambino cade nel panico, piange.
Di notte, il padre e la madre in una stanza, e il figlio nell'altra, sono svegli, pensierosi, inquieti. Sulle note di una musica etnica africana, il padre si reca nella stanza del bambino e ne stringe le caviglie con forza. Il bambino si lamenta.
La scena si sposta nell'antica Grecia, sul monte Citerone.
Un bambino è appeso per le caviglie ad un palo, portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. Il compito dell'uomo è uccidere il bambino, per evitare che si avveri una profezia dell'oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il propria padre e sarebbe giaciuto con la propria madre.
Il servitore (Francesco Leonetti), però, non ha il coraggio di ucciderlo, e finisce per abbandonarlo nel deserto. Ma un vecchio pastore, che ha assistito alla scena, raccoglie con tenerezza l'innocente, e lo parta in omaggio al suo sovrano Pòlibo, (Ahmed Belhachmi), re della città di Corinto. Pòlibo, trionfante, mostra il bambino alla sua consorte Mèrope (Alida Valli), la quale decide di adottarlo come figlio, con il nome di Edipo, che letteralmente significa "colui che ha i piedi gonfi".
Edipo (Franco Citti) è cresciuto, ed è di temperamento ambizioso e irascibile. Dopo una lite al gioco del disco, apprende dal suo rivale di essere un "figlio della fortuna", un trovatello.
La notte Edipo ha degli incubi, e decide di recarsi a Delfi ad interpellare l'oracolo sulla origine dei suoi sogni: così, senza alcuna scorta, armato di una sola spada, il giovane principe di Corinto si incammina verso il tempio d'Apollo. L'oracolo, con una raccapricciante voce femminile, lo scaccia via seccamente, rivelandogli il suo destino incestuoso e parricida. In preda alla costernazione, Edipo si allontana.
Per evitare che la profezia si avveri, decide di non tornare mai più a Corinto, da quelli che crede i suoi genitori. Si mette le mani sugli occhi, fa qualche giro su se stesso, e prende una direzione qualsiasi. Ma la direzione é sempre, fatalmente, quella di Tebe.
Sulla strada assolata giunge il carro del re Laio.
Laio maltratta Edipo, solo e senza scarta, e lo insulta come se fosse un mendicante: Edipo decide di vendicare l'affronto: con una corsa forsennata, urlando ferinamente la propria rabbia, uccide uno ad uno, nel silenzio desertico, sotto gli occhi del sovrano, tutti gli uomini della sua scorta. La stessa sorte infine tocca anche al re Laio.
Edipo, stremato dalla carneficina, riprende il suo casuale cammina, che lo conduce finalmente a Tebe. Alle porte della città incontra una interminabile fila di persone piangenti, che si allontanano da Tebe con il loro poveri averi. Tocca al messaggero (Ninetto Davoli) spiegare al nuovo arrivata Edipo le ragioni di quell'esodo: la Sfinge, creatura oscura, è giunta all'improvviso sulla montagna alle porte della città dall'abisso, seminando sciagura. Il messaggero aggiunge che esiste una "taglia" sull'uccisione della Sfinge: colui che ricaccerà la Sfinge nell'abisso, diventerà marito della regina di Tebe, la vedova Giocasta (Silvana Mangano). Edipo, non ascoltando le parole della Sfinge che ancora una volta lo mette di fronte al suo destino oscuro, riesce con una cieca violenza nell'impresa di sconfiggere l'inattaccabile creatura dell'abisso.
Così il messaggero annuncia alla propria città festante che è giunta il nuova re, Edipo.
Alla fine dei cortei di ringraziamento, Edipo e Giocasta giacciono insieme nel talamo nuziale. L'oscuro destino del "bimbo dai piedi gonfi" si è armai compiuta.
La peste infuria su Tebe. Il gran sacerdote (Pasolini) parla con Edipo a nome del popolo, e gli chiede ragione di quanto sta accadendo. Edipo gli risponde di essere in attesa del ritorno del cognato Creonte (Carmelo Bene), che si è recato a Delfi per avere un responso sugli eventi luttuosi dall'oracolo.
Creonte torna, e rivela che la causa della peste è la vendetta degli dei, irati per la presenza a Tebe di un uomo impuro, la cui colpa è l'uccisione del re Laio. Edipo decide di vendicare l'uccisione di Laio come se egli fosse stato "suo padre". Ma nonostante i provvedimenti del re siano sempre più severi, la situazione non muta. I morti vengono ormai bruciati a decine nei roghi comuni.
Edipo decide di consultare Tiresia (Julian Beck), il veggente cieco, per capire quale sarà il futura della città di Tebe. Il cieco Tiresia, suonatore di flauto, portato davanti ad Edipo, ha paura, e si rifiuta di parlare. Minacciato e accusato prima, poi perfino malmenato dal re, Tiresia rivela che Edipo prima o poi saprà di essere fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito di sua madre, e che vagherà per il mondo senza più poterlo vedere, come ora accade a quel Tiresia che lui ha dileggiato e aggredito.
Edipo prosegue la sua vita regate, e accusa Creonte e Tiresia di aver ordito una congiura alle sue spalle. Ma durante una conversazione con Giocasta, che gli sta spiegando i particolari dell'assassinio di Laio, Edipo apprende che il fato avverso lo ha ormai ghermito, che lui è il vero assassino, il responsabile della catastrofe di Tebe. Giocasta non vuole perdere Edipo, cerca di tranquillizzarlo, ma Edipo urla con dolore la verità ormai compresa.
Edipo raggiunge l'unico testimone dell'assassinio di Laio rimasto in vita, il vecchio servitore, per averne conferma.
Una volta raggiunto sulle montagne quell'uomo, Edipo lo costringe a dire "quello che non si può dire": che il re di Tebe che ha ora innanzi a se è il figlioletto di Giocasta e di Laio che egli aveva abbandonato sul monte Citerone molti anni addietro. Edipo ritorna al palazzo, ormai cosciente dell'avverata profezia. Lì trova Giocasta che si è uccisa, impiccandosi nella stanza da letto. Allora, con un gesto fulmineo e ferino, simile a quelli con cui ha fatto strage di Laio e della scorta, Edipo si acceca entrambi gli occhi con la spilla delle vesti di Giocasta. Poi, accecato, esce dal palazzo, e incomincia a brancolare nel suo buio definitivo, pietosamente accompagnato dal messaggero.
Edipo e il messaggero si trovano ora, vestiti in panni moderni, sotto i portici di una Bologna di fine anni Sessanta. Edipo suona il flauto sulle scalinate delle chiese, ma è inquieto, disperato, e cerca di continuo di andarsene altrove. Camminando sempre più in periferia, attraverso panorami sconsolati di fabbriche e rifiuti urbani, Edipo giunge finalmente al prato in cui il bimbo nato negli anni Venti aveva aperto gli occhi per la prima volta.
Una nuova soggettiva sulle cime degli alberi ci annuncia l'epilogo della vicenda: Edipo è giunto dove la sua vita è cominciata, e dove dunque, ora, può concludersi del tutto *.
( * S. Murri - Pier Paolo Pasolini)

COMMENTO
 

È difficile definire il senso della ribellione di Edipo al proprio destino: egli non ha scampo, ma non può accettare la verità che gli è stata rivelata, perché significherebbe accettare la propria perversa empietà, l'infrazione inconsapevole di tutte le norme che strutturano la società in cui crede, e in cui vuole vivere senza angosce. Così egli tenta la ricerca di un'altra verità, una verità, per così dire, diversa dal vero, ma l'unica strada che gli resta è quella della cecità, sia quella della cieca violenza con cui elimina tutto ciò che lo riporta alla coscienza del proprio destino, sia quella del cieco accaparramento dei privilegi offerti da quello stesso destino, solo attraverso il quale egli può godere appieno della propria condizione regale.
Per vivere come un re, Edipo deve vivere sdoppiato: da una parte la consapevolezza messa a tacere della propria impurità, dall'altra la sua sincera e codarda volontà di una purezza altra, da ricostruire fuori del proprio destino oscuro. Ma quel "destino oscuro" altro non è che è la propria condizione umana, e a ciò che si è non si può sfuggire: questo è quello che gli ribadiscono tanto l'oracolo quanto la Sfinge, e per quanto Edipo si acciechi gli occhi con le mani e giri intorno a se stesso prima di prendere una direzione, perché sia il caso e non "ciò che è", il destino, a guidare la sua vita, egli non può evitare di giungere a Tebe, e di compiere così il barbaro crimine parricida da cui cerca di esimersi. In questo modo la figura di Edipo diviene l'antecedente pre-borghese del borghese che si disfa sotto i colpi dell'Altro in “Teorema”; egli viene posto all'inizio dell'itinerario sociale dell'uomo occidentale, la cui cieca vicenda di sopraffazioni e stragi si compie nel congiungimento di quell'abisso "che è dentro di sè" (quello che nel lessico freudiano è detto "inconscio") con la torbida oscurità della Storia, dell'Altro sociale, al quale egli non sa ribellarsi, e, che, sfuggendo, ribadisce. Edipo può anche riuscire a sfuggire, temporaneamente, con la forza, alla prepotenza dell'Altro inteso come oscurità della Storia (storia tanto individuale, interiore, che sociale, storia degli eventi), ma deve arrendersi di fronte al compimento della nemesi del proprio "peccato originale": l'umanità di cui egli è il rappresentante è un'umanità ingiusta (il giovane Edipo, per esempio, si attribuisce vittorie non sue nelle gare atletiche), un'umanità proterva, classista e dominante (tutto il dramma si consuma nel chiuso dei palazzi reali, laddove il popolo è solo carne che perisce gratuitamente per colpa dell'ingiustizia commessa da Edipo); un'umanità occidentale, che Pasolini colloca non a caso in un Terzo Mondo simbolo del popolo che non può reagire, vittima dello strapotere di quella casta di persone per le quali sole vale il confronto con il "destino" della Storia.
Edipo è sconfitto dall'Altro, da ciò che egli non può controllare neppure con i suoi mezzi regali: ma l'Altro abissale che è l'inconscio e l'Altro alto e imperscrutabile che è la Storia si congiungono nel gorgo fatalistico e fondamentalmente barbarico che è la mentalità occidentale, costruita sull'autismo esistenziale.
Edipo è re, nato per essere re, questa è la colpa che si abbatte sulla sua totale innocenza. È la storia del dominio, di cui Edipo è, sua malgrado, figlio, che porta necessariamente alla strage di tutto ciò che si frappone tra il potere e chi se ne arroga il diritta. Edipo uccide Laio senza una ragione, se non quella dell'orgoglio regale che porta dentro di sè. Perfino il rapporto incestuosa con Giocasta è sotto il segno del possesso, espresso da quei “madre!” (assente nella tragedia di Sofocle) urlato da un Edipo ormai consapevole della propria empietà, che non rinuncia a consumare il suo privilegia sessuale, maledetta o no che sia, senza pentirsi.
Mai come nel suo primo lungometraggio a colori (una decisione sofferta, quella del colore), Pasolini riesce a portare ad un livello di equilibrio straordinaria il rapporto tra forma ed espressione. L'opera di costruzione di un autonoma "linguaggio della realtà" viene compiuta attraverso il ribaltamento del rapporto tra la componente della parola e quella delle percezioni non mediate concettualmente, quelle visive e sonore. Se in precedenza alla parola spettava il compito di condurre la riflessione, di esprimere le emozioni dei personaggi, di chiarificare la vicenda, mentre alle suggestioni pittoriche, al gusto del bianco e nero e dei ritmi fratti del cinema muto, spettava il compito di evocare un clima generale, in qualche modo estetizzante, ara è l'immediatezza delle componenti sonore e visive dell'immagine nella quasi totale assenza di dialogo a creare una "evidenza narrativa" non-concettualizzabile, laddove la parala, la strumento dialettico borghese, non è più che una dei componenti dell'immagine, componente il più delle volte ellittica, oscuro, involuto, a cui spetta il compito di creare semmai un clima emotivo ed estetizzante, clima esaltato dallo stile sibillino dei versi di Sofocle.
Alla tragedia di Sofocle (tradotta e ridotta in prosa per il set dallo stesso Pasolini) viene sottratto l'elemento teatrale-letterario portante, quello della scoperta progressiva, attraverso i dialoghi tra i personaggi, del dramma di Edipo. Nella descrizione dell'antefatto, che prende la quasi totalità del film, e che è l'argomento costante dei dialoghi sofoclei, l'uso della parala viene ridotto al minimo: quasi tutti gli eventi "del fato" avvengono in un primordiale silenzio fatto di rumori, urla, gesti, ancora più preistorici della preistoria greca che il regista mette in scena. La stessa "grecità" è sottratta alla sua stigmatizzazione scolastica, alla sua iconagrafia ricorrente, e mescolata ad una basilarità etnica composita, in cui gli scenari desertici e gli attori improvvisati del Marocco si muovano tra il silenzia e contaminazioni musicali astoriche e indefinite, che vanno dai canti popolari rumeni alla musica nordafricana, dalla musica giapponese antica ai canti rivoluzionari russi, a cui spetta il compito di creare una sorta di "coro tragica" in assenza di parole. Unica eccezione "classica", quella del quartetto di Mozart K 465, conosciuta come Dissonanzen Quartet, un quartetto atipico, quasi dodecafonico ante-litteram, che in qualche modo turba e mette in discussione la serena armonia del compositore-tipo della musica occidentale: ad essa è attribuito il compito, come leitmotiv, di rimarcare i momenti in cui si manifesta, oscuramente, la verità.

I poveri lucani del “Vangelo secondo Matteo” hanno ora il volto dei veri poveri, quelli del Terzo Mondo. Gli spiritual del Vangelo hanno lasciato il posto ad una musica etnica indistinta nello spazio e nel tempo. L'opzione del regista per una cultura "altra", in questo caso per la "verità" del Terzo Mondo, diviene ormai inequivocabile con Edipo re.
Dell'Italia, che fa da cornice all'autobiografia in chiave edipica, vediamo prima uno scorcio della provincia alle soglie del fascismo, poi i frutti della "mutazione antropologica" della società dei consumi, gli estremi di un itinerario in qualche modo immobile, lo svolgimento di un'unica mentalità, quella borghese e capitalistica, nel cui seno il dramma edipico si ripercuote come reminescenza attuale di una verità perduta, e ora ridotta a pura reminescenza etica. Perfino l'italiano, come lingua d'origine dell'autore-Edipo, è messa in discussione: ne è testimonianza l'indistinta calata dialettale del sud con cui Pasolini fa doppiare i suoi personaggi, rendendoli antiletterari, e marcandone la provenienza sociale. Della cultura letteraria del regista restano solo i simboli, ormai quasi indecifrabili, della civiltà greca.
Tutti gli omicidi che Edipo compie, urlando ferinamente e senza senso, avvengono in controluce, sotto la luce bianca e accecante del sole: da una parte questo rievoca il dettame della tragedia greca secondo il quale l'attimo della morte non può essere rappresentato sulla scena, dall'altra, quello che era il colore rituale della morte presso i greci, il bianco.
L'oracolo, che prima di profetizzare si ciba di riso, rievoca l'atto simbolico di ricreare attraverso il comportamento rituale e religioso un contatto primordiale tra la materia e lo spirito. Ma, in entrambi i casi, questi simboli sono espressi senza parole, attraverso la pura immagine. Infatti, con Edipo re Pasolini diventa, in qualche modo, "più cinematografico": impara a servirsi dei maggiori stratagemmi narrativi della "lingua filmica", usa movimenti di macchina più audaci, sperimenta le potenzialità dello zoom, usa spregiudicatamente i grandangolari e i teleobiettivi, e riesce fino in fondo a liberarsi dai cliché narrativi del gusto del bianco e nero "muto" sui quali si era formato, così come dalla tendenza a riflettere nell'immagine le proprie reminescenze pittoriche.
Nulla più è precisamente identificabile, i costumi e la "scenografia" seguono criteri di pura suggestione, anch'essi, come la musica, astorici e di provenienza ibrida.
Il clima di sperimentalismo è reso ancora più marcato dalla partecipazione di attori dell'avanguardia teatrale contemporanea come Carmelo Bene o Julian Beck del Living Theatre, che accanto a volti noti del cinema come Alida Valli e Silvana Mangano, alle sorprendenti interpretazioni di Franco Citti e Ninetto Davoli, e alle numerosissime, anonime comparse marocchine, contribuiscono all'espressione del clima allucinatorio attraverso il quale Pasolini ha letto i versi sibillini di Sofocle.

Il film, premiato al Festival di Venezia dalla Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts e des Lettres par le Cinema, uscirà nelle sale con il solito divieto ai minori, dilacerando "normalmente" lo stuolo degli addetti ai lavori. Ma lo sguardo di Pasolini è già rivolto altrove: dopo aver attraversato con la sua Grecia fuori del tempo la strada per le proprie origini, ora si sposta su quanto, nel presente, sembra aver mantenuto intatta la verità dei rapporti sociali.
E, finalmente, l'incontro del regista con il Terzo Mondo.
 
Fonte:
http://cinetramando.blogspot.it/2011/10/edipo-re-pier-paolo-pasolini.html
 
 
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Curatore, Bruno Esposito

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